BELLI (schede)

La novità di Porta e Belli
 
A. ASOR ROSA, Storia della lett. Italiana,
La Nuova Italia, 1985, pp. 429-433.
 
Porta e Belli sono gli unici grandi poeti del romanticismo italiano.
La lingua dei romantici, che si propongono di “andare” al popolo, è ancora una lingua intrisa di letterarietà, molto lontana dalla lingua quotidiana. Al contrario, in Porta e Belli, non solo la scelta linguistica è autenticamente popolare, ma essa si accompagna ad una rappresentazione finalmente non ideologica del popolo (non populista: perché tale era sempre, sia dal punto di vista religioso - si pensi a Manzoni - che da quello laico - si pensi a tutta la cultura risorgimentale delle “magnifiche sorti e progressive ”).
Ed è un popolo che appare “bloccato” nella sua atavica rassegnazione, in una disperazione che si esprime nello sberleffo o nell’imprecazione rabbiosa, non certo nella rivolta: e questa è (sebbene nessuno dei due autori sia giunto a questo livello di autoconsapevolezza) una demistificazione dell’idea di popolo (progressiva e ottimistica) che si erano fatta i romantici.
E se ancora Porta sembra fiancheggiare gli ideali progressisti dei romantici lombardi (ma è difficile dimostrarlo per La Ninetta del Verzee o per Giovannin Bongee ), “in Belli il processo di distruzione della prospettiva è portato fino in fondo, data la situazione privilegiata del suo osservatorio: quella Roma dei papi, che, nella sua decrepitezza, sembrava diventata la proiezione indistruttibile, perenne, di tutti i mali ed ingiustizie del mondo. Qui il senso cupo di un destino immodificabile grava perpetuo sulla scena, accomunando nella stessa visione pessimistica del mondo popolo e prelati, servi e signori. Solo un riferimento a Leopardi potrebbe permettere a questo punto d’intendere la qualità e l’altezza della poesia belliana.


Belli conservatore
 
U. CARPI, Il poeta e la politica,
Liguori 1978, pp. 33-47.
 
Si tenta, nei confronti di Belli, un’operazione analoga a quella che si fa con Leopardi: visto che non lo si può abilitare come progressista-riformista rispetto ai suoi tempi, lo si vuole recuperare come rivoluzionario ante litteram, non subalterno al progetto borghese (che, nell’Ottocento, prende la forma del patriottismo risorgimentale).
In realtà, analogamente agli intellettuali della sua generazione (come Berchet), anche Belli si identifica con la classe sociale di mezzo, resta affascinato (attorno al ’30, all’epoca dei viaggi) dai fermenti politici e culturali di Milano. Ciò nonostante sarebbe una illazione (non confermabile) ritenere che la sua poesia dialettale esprima istanze progressiste, in sintonia con le aspirazioni della borghesia (ed ovviamente di quella settentrionale, che è trainante).
La sua poesia esprime invece una ideologia conservatrice, basata sulla convinzione di fondo che la società sia sostanzialmente immodificabile: e questo, perché si ritrova a vivere in una società, quale quella romana, priva di una vera borghesia (cioè di una “middle class” che non sia burocratico-impiegatizia, ma in grado di svolgere “un progetto alternativo di sviluppo economico-sociale ”), e quindi divisa fra i due estremi del Potere (che qui, con il suo aspetto teocratico, appare ancor più immodificabile) e della plebe (che si lagna, ma resta convinta dell’ineluttabilità del suo destino).
E in questa accettazione del dato sociale come dato naturale la visione del mondo di Belli si rivela subalterna alla struttura pre-capitalistica dello Stato papale.
 
La tesi è evidentemente polemica nei confronti di Asor Rosa; si vuol sostenere che la poesia di Belli è tout court espressione di una ideologia conservatrice (tale è l’approdo di un uomo che, nel periodo milanese, aveva concepito delle speranze, ma poi è deluso dalla realtà sociale in cui si trova a vivere); mistificante è invece attribuirle una valenza rivoluzionaria, guardandola col senno di poi, staccandola dal suo contesto storico, dal suo concreto farsi.
A me pare che siamo daccapo, come con Leopardi (e come con Verga): non si nega che dietro quell’opera ci sia una visione conservatrice; ma come negare l’efficacia dirompente di tale visione, in quanto demistifica le illusioni progressiste? In quanto mostra che fra la  inaccettabile situazione esistente e la “felicità” c’è un abisso non colmabile da un progressivo passaggio? E di quell’abisso Belli, Leopardi, Verga sono testimoni fedeli, a fronte della falsificazione attuata dai progressisti loro contemporanei.
 
 

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