I promessi sposi, un romanzo controverso
Il
titolo e l’organizzazione dell’intervento
1)
Ho scelto questo titolo, “I promessi sposi un romanzo
controverso”, perché di fatto il romanzo sin dalla sua pubblicazione è
stato oggetto di elogi ed
apprezzamenti da una parte (soprattutto da parte dei lettori comuni,
visto il grande successo editoriale che ebbe, un successo alimentato anche da
edizioni pirata) e di grandi
stroncature dall’altra (soprattutto da parte dei critici della corrente laica del Risorgimento). Una contrapposizione
che è continuata nel Novecento e che vede ancora estimatori e
denigratori, in particolare a
proposito dei valori che il romanzo intende comunicare.
2)
Ma prima di entrare nel merito sarà bene
mostrare come e perché Manzoni
approda a questo genere letterario, il romanzo storico, un genere
totalmente nuovo nella letteratura italiana. Quindi riferirò di quelle che
sono state nel tempo le interpretazioni e i giudizi più significativi sul
romanzo, infine esprimerò il mio punto di vista.
L’insoddisfazione
per la lirica e per il dramma storico
3)
Manzoni si era già cimentato nella lirica religiosa (gli Inni
sacri), in quella civile
(le odi Il 5 maggio e Marzo 1821), nel dramma storico (le due tragedie,
Il
conte di Carmagnola e l’Adelchi), ma non era soddisfatto perché quelle opere non corrispondevano
pienamente alla sua esigenza di una letteratura che fosse popolare e che
rappresentasse passioni e sentimenti di quelle moltitudini, di quei “volghi
spregiati” di cui la storia ufficiale non parla.
4)
Già nel Discorso sopra alcuni punti della
storia longobardica in Italia (il saggio che scrive a seguito delle
ricerche storiografiche da lui compiute in occasione della stesura dell’Adelchi)
aveva lamentato questa mancanza: di più di due secoli di storia (tanto è durata
la dominazione longobardica in Italia, circa dal 550 all’800 d.C.) niente si sa
della moltitudine di italiani che ha subito quella oppressione:
Noi sappiamo, o poco o tanto, o bene o male, quali eran le
attribuzioni de’ re, de’ duchi, de’ giudici longobardi, riguardo alla loro
propria nazione; ma cosa erano tutti costoro per gl’Italiani, tra i quali,
sopra de’ quali vivevano? (…) Un’immensa
moltitudine d’uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, sulla
sua terra, inosservata, senza lasciarci traccia, è un tristo ma importante
fenomeno, e le cagioni d’un tal silenzio possono riuscire ancor più
istruttive che molte scoperte di fatto.
5)
Ecco allora l’idea di un’opera che,
sullo sfondo di un’accurata ricostruzione storica, abbia per protagonisti
gli “umili”, quegli anonimi che nella storia non lasciano
traccia, ma che della storia, della ragion di Stato, delle lotte fra i potenti,
delle guerre subiscono la violenza.
L’approdo
al romanzo, un genere “inferiore”
6)
Il romanzo risponde a questa esigenza.
Si tratta di un genere letterario che in Europa aveva già avuto diffusione, soprattutto
in Inghilterra a partire dal Settecento (nella forma del romanzo epistolare, sentimentale, gotico:
si pensi ad autori come Defoe,
Richardson, Fielding, Walpole), ed è un fenomeno da mettersi in relazione
con l’affermarsi della borghesia come classe dominante. In Italia però era un genere disprezzato dagli ambienti letterari,
un genere ritenuto inferiore, adatto a lettori ignoranti, ma anche moralmente pericoloso perché
rappresentava in maniera troppo viva e realistica vicende e passioni (soprattutto
amorose) dei personaggi.
La
scelta del romanzo storico, coerente con i principi della sua poetica
7)
In particolare, il tipo di romanzo che interessa Manzoni è quello “storico”,
un romanzo cioè che ricostruisca una determinata epoca storica, rappresentando,
nel contesto dei grandi avvenimenti politici e militari, la ripercussione di
tali avvenimenti nella vita quotidiana della gente comune; e dunque la
gente comune diventa protagonista delle vicende narrate. Il modello, di cui
Manzoni discute a lungo con l’amico francese Fauriel, è Ivanhoe di Walter
Scott (anche se, per Manzoni, Scott concedeva troppo al romanzesco e
al pittoresco).
8)
Inoltre il romanzo storico consente di mettere in pratica quei principi di
poetica che Manzoni aveva enunciato nella Lettera sul Romanticismo
al marchese Cesare D’Azeglio, secondo cui la letteratura deve “proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo”.
Infatti nei Promessi sposi il vero storico è il contesto
imprescindibile della vicenda narrata, il genere romanzo suscita l’interesse del lettore
comune, attraverso di esso si possono comunicare
valori civili e principi morali, secondo una concezione educativa
della letteratura, e quindi finalizzata
all’utile, una concezione che nel milanese i romantici sostenevano
in perfetta continuità, per questo aspetto, con le idee degli intellettuali
illuministi della precedente generazione.
I
popolani protagonisti di vicende tragiche, non comiche
9)
Ma rispetto alla tradizione letteraria
quella di Manzoni è una operazione di
assoluta rottura, una operazione rivoluzionaria, per la scelta sia del
genere romanzo, sia di personaggi di
bassa condizione come protagonisti di vicende tragiche, non comiche.
Ed è questa una precisazione da fare, perché tali personaggi (contadini,
popolani) erano già presenti nella tradizione letteraria, ma sempre in
chiave comica, destinati al divertimento
di lettori colti, appartenenti alle classi alte: si pensi, ad esempio,
alla novellistica (a cominciare da Boccaccio) o alla Nencia da Barberino, il poemetto attribuito a Lorenzo dei Medici.[1]
Ora invece le peripezie di due
popolani (Renzo e Lucia) non suscitano il sorriso, sono
rappresentate in chiave seria, tragica,
come tradizionalmente spetta ai personaggi della letteratura alta.
Il
problema di una lingua “popolare”
10)
Infine, il problema della lingua. Manzoni, coerentemente con le idee
romantiche che in quegli anni si diffondono a Milano e che lui condivide, intende
fare un’opera che sia popolare, ovvero che si rivolga non al mondo ristretto
e raffinato degli ambienti letterari, bensì
al popolo. Ma cosa intende Manzoni quando parla di popolo? Ce lo dice
nella lettera al D’Azeglio Sul
Romanticismo: intende quella massa
di lettori “non letterata, né
illetterata” capace di leggere e capire, quei lettori che, come
aveva detto Berchet nella Lettera
semiseria di Crisostomo, “stanno
a milioni nella terza classe”, la classe – così l’aveva definita –
intermedia fra i Parigini (troppo
“letterati”, gente in cui l’eccesso di raziocinio ha bruciato il sentimento) e
gli Ottentoti (assolutamente
“illetterati”, intorpiditi dai bisogni materiali, pertanto incapaci di
sentimento e fantasia). La classe intermedia a cui si rivolge il poeta è dunque la borghesia, quella che gli inglesi chiamano the middle class, appunto, la
classe di mezzo. E’ questa classe di mezzo, la borghesia, che Manzoni intende
quando parla di popolo.
Il
problema di una lingua “nazionale”
11)
Ma la
lingua che Manzoni cerca deve essere allo stesso tempo popolare e nazionale.
La questione della lingua era in Italia una questione secolare, una
questione su cui nell’Ottocento si era riaperto il dibattito. Non esisteva una
lingua nazionale e popolare, una lingua che consentisse la comunicazione se
si incontravano individui provenienti da regioni diverse. La comunicazione
sarebbe stata possibile fra persone colte che potevano intendersi usando la lingua letteraria, altrimenti era
come un incontro fra stranieri parlanti lingue diverse. Ma anche fra persone
colte ci si poteva intendere con qualche fatica, perché con la lingua
letteraria non era facile parlare di
cose della quotidianità. Sentite cosa dice Manzoni in una lettera all’amico
Fauriel:
Supponete che ci
troviamo cinque o sei milanesi in una casa, dove stiam discorrendo in milanese
del più e del meno. Capita uno e presenta un piemontese, o un veneziano, o un
bolognese, o un napoletano, o un genovese; e, come vuol la creanza, si smette
di parlar milanese e si parla italiano. Dite voi se il discorso cammina come
prima, dite se ora non dovremo servirci
di un vocabolario generico e approssimativo (…) ora aiutarci con perifrasi,
e descrivere, dove prima non s’avrebbe avuto a far altro che nominare; ora
tirar a indovinare, dove prima s’era certi del vocabolo che si doveva usare,
anzi non ci si pensava, veniva da sé; ora
anche adoperare per disperati il vocabolo milanese, correggendolo con un: come
si dice da noi.
12)
Dunque
quello della lingua era un problema vitale per Manzoni, tant’è che lavora alla
stesura del romanzo, soprattutto per quanto riguarda le scelte linguistiche,
per ben vent’anni, visto che la prima redazione del romanzo è del 21/23 (il Fermo e Lucia) e la
redazione definitiva è del 40/42 (la
cosiddetta quarantana).
Dal
Fermo e Lucia alla ventisettana
13)
La
lingua del Fermo e Lucia,
come ammette lo stesso Manzoni, era
un misto di toscano, milanese, latinismi e francesismi (ricordiamo che Manzoni,
a seguito dei lunghi soggiorni, parlava e scriveva perfettamente il francese).
Il passaggio dal Fermo e Lucia
all’edizione del ’27 (la cosiddetta ventisettana) è caratterizzato
da modifiche significative per quanto riguarda la struttura del romanzo: non
solo cambiano alcuni nomi (Fermo
diventa Renzo, il conte del Sagrato diventa l’Innominato, Geltrude diventa
Gertrude), cambia anche la
struttura compositiva: prima c’erano lunghi blocchi narrativi che
seguivano separatamente le vicende di Lucia e di Renzo, poi queste vicende
vengono opportunamente alternate e intrecciate (alla macrostruttura è
applicato lo stesso procedimento messo in atto nella sequenza della “notte degli imbrogli”, dove si
intrecciano la vicenda del matrimonio a sorpresa con il tentato sequestro di
Lucia da parte dei bravi). Inoltre vengono
eliminate certe digressioni troppo estese, che finivano per essere dei
“racconti nel racconto”, ad esempio per quanto riguarda la vicenda della
monaca di Monza (la relazione fra Geltrude ed Egidio con il conseguente assassinio
della conversa, era una concessione al romanzo gotico, allora di moda;
Manzoni toglie tutto, si limita a dire che Egidio, da una finestra del suo
palazzo che guardava il cortile del convento, rivolse la parola alla monaca,
quindi sintetizza l’esito della vicenda con una sola frase: “la
sventurata rispose”), la
storia del conte del Sagrato (è ridotta la narrazione delle sue imprese
al momento della presentazione) o
quella del processo agli untori (materiale che poi costituirà la Storia
della colonna infame, pubblicata come appendice del romanzo). A fronte
dei tagli c’è anche qualche aggiunta
(Renzo
all’alba sulle rive dell’Adda, la descrizione della vigna di Renzo, la grande
pioggia purificatrice).
14)
Ma già in questa edizione del ’27
Manzoni interviene sulla lingua, insoddisfatto com’era di quella miscela linguistica
propria del Fermo e Lucia. Si
convince che debba utilizzare il
toscano della tradizione letteraria, per cui corregge ampiamente la
lingua del Fermo e Lucia, dopo
essersi dedicato sia ad una massiccia lettura
dei classici toscani, soprattutto quelli “popolareggianti” (i
comico-realisti, i novellieri, i cronisti), sia alla consultazione sistematica delle parole riportate nel Vocabolario della Crusca.
Dalla
ventisettana alla quarantana
15)
Tuttavia, se dal punto di vista strutturale e narrativo, questa edizione è
definitiva, dal punto di vista linguistico Manzoni continua ad essere
scontento. La correzione compiuta tramite i libri non lo soddisfa, dunque ecco la cosiddetta “risciacquatura dei panni in Arno”,
ovvero il soggiorno a Firenze e il lavoro di revisione linguistica che porterà
all’edizione del ‘40-42, la quarantana.
Il modello scelto è il fiorentino
vivo, non libresco, quello parlato, ma parlato dalle persone colte, ed
è la scelta che garantisce il
carattere nazionale e popolare della lingua. Fiorentino deve essere,
perché Firenze è la capitale linguistica d’Italia (come lo è Parigi per la
Francia, scriveva a Fauriel); il fatto che sia non quello letterario ma quello parlato ne garantisce la popolarità;
il fatto che sia parlato dalle persone
colte ne garantisce il carattere nazionale (il parlato dalle persone
incolte, con caratteri marcatamente dialettali, rimarrebbe una lingua di
diffusione regionale).
Il
successo di pubblico e la critica nell’Ottocento
16)
Il romanzo ha un grande successo di pubblico, tant’è che in tempi in cui non
c’era il diritto d’autore, viene stampata una
gran quantità di copie pirata. E comincia anche la vicenda critica che vede
una prevalenza del cosiddetto “antimanzonismo”,
che si appunta sia sulla scelta linguistica sia, soprattutto, sulla
ideologia del romanzo, cioè sui valori che esso comunica.
17)
Nell’Ottocento un giudizio di
apprezzamento è quello di De Sanctis
che vedeva nel romanzo – rispetto ad esempio alle tragedie – “l’ideale” calato nel “reale”,
per cui i protagonisti sono uomini veri, non più gli eroi alfieriani – o
foscoliani – che si risolvono nel rifiuto della storia e della realtà. Quanto
alla religiosità che pervade il romanzo, De Sanctis riconosceva in essa una componente democratica e di impegno civile,
che quindi allineava l’ideologia manzoniana alla tradizione dell’illuminismo
lombardo.
L’antimanzonismo:
Scalvini, Settembrini, Carducci
18)
Ma già nell’Ottocento prevale
l’antimanzonismo. Per restare alle posizioni critiche più note, comincerò da Giovita Scalvini che già nel
1830, quindi ben prima dell’edizione definitiva, così si esprimeva:
(nel romanzo si
avverte) un non so che di austero, quasi dico di uniforme, di insistenza senza
alcuna tregua mai verso un unico obietto: non
ti senti spaziare libero entro la gran varietà del mondo morale; t’accorgi
spesso di non essere sotto la gran volta del firmamento che copre tutte le
multiformi esistenze, bensì d’essere sotto quelle del tempio che copre i fedeli
e l’altare.
19)
Forti stroncature sono proprie
della corrente laica e democratica del Risorgimento, a cui apparteneva Luigi Settembrini, il quale
definiva i Promessi sposi “il
libro della reazione” e aggiungeva: “è un libro che loda preti e
frati, consiglia pazienza e sommissione”. Altrettanto
pensava l’anticlericale ed antiromantico
Carducci, che peraltro disprezzava
anche la debolezza di una lingua che rinunciava alla energia e alla vitalità
della tradizione classica.
La
critica nel Novecento: Croce, Momigliano, Russo
20)
Nel Novecento Benedetto Croce dell’opera di Manzoni apprezzava l’Adelchi, ma non i Promessi sposi, in cui vedeva non
poesia ma oratoria, non la libera espressione del sentimento ma
l’intenzione pedagogica di ammaestrare, di comunicare principi morali, ideali
religiosi: finalità, secondo la sua concezione dell’arte, estranee alla
natura della poesia.
21)
Momigliano
vedeva invece nella religiosità del romanzo un momento non estraneo, ma
costitutivo dell’ispirazione poetica; Russo
parlava di una epopea della
Provvidenza e riconosceva a Manzoni una grande acutezza nella
rappresentazione della psicologia dei personaggi.
22)
Peraltro sia Momigliano che Russo sono autori
di famosi commenti scolastici del romanzo. Va infatti ricordato che già
nell’Italia dopo l’unità e poi per tutto il Novecento fu imposta la lettura
obbligatoria nella scuola superiore del romanzo, ritenuto non solo un modello linguistico, ma
anche di educazione morale e civile.
La
stroncatura di Gramsci: i popolani sono “macchiette”
23)
Ma vediamo ora due celebri esempi
novecenteschi di critica durissima del romanzo, quello di Gramsci e quello di Moravia. Ambedue sono accomunati
dalla convinzione che l’atteggiamento di
Manzoni sia non di vicinanza, ma di distacco aristocratico rispetto ai popolani
di cui si narrano le vicende.
24)
Gramsci critica in partenza l’uso dell’espressione
“gli umili”:
Questa
espressione, ‘gli umili’, è caratteristica per comprendere l’atteggiamento
tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo. (…) Nell’intellettuale italiano l’espressione ‘umili’ indica un rapporto di protezione paterna e
padreternale, il sentimento ‘sufficiente’ di una propria indiscussa
superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra
inferiore, il rapporto come tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia o,
peggio ancora, un rapporto da ‘società protettrice degli animali’, o da
esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia. (...) Il
carattere ‘aristocratico’ del cattolicismo manzoniano appare dal ‘compatimento’ scherzoso verso le figure di
uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj): come fra Galdino (in
confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa
Lucia, ecc. (...) I popolani, per
Manzoni, non hanno ‘vita interiore’, non hanno personalità morale profonda;
essi sono ‘animali’, e il Manzoni è ‘benevolo’ verso di loro, proprio della
benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. (...)
L’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della
Chiesa cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di
medesimezza umana. (...) Tra il Manzoni
e gli ‘umili’ c’è distacco sentimentale: gli umili sono per il Manzoni un
‘problema di storiografia’, un problema teorico che egli crede di poter
risolvere col ‘romanzo storico’, col ‘verosimile’ del romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come
macchiette popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è
troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia la voce di Dio: tra il
popolo e Dio c’è la Chiesa e Dio non s’incarna nel popolo ma nella Chiesa. Che
Dio si incarni nel popolo può crederlo Tolstoi, non Manzoni. (…) Nei Promessi
sposi non c’è popolano che non sia ‘preso in giro’ e canzonato: da don
Abbondio a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Perpetua, a Renzo,
alla stessa Lucia: essi sono rappresentati come gente meschina, angusta, senza
vita interiore. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il
Borromeo, l’Innominato, lo stesso don Rodrigo. (A. Gramsci, dai Quaderni dal carcere ).
E’
una critica spietata, Gramsci non concede niente, nessun valore al romanzo di
Manzoni.
La
critica di Moravia: è un’opera di propaganda cattolica
25)
Anche Moravia non va troppo per il sottile. Ritiene i Promessi sposi un’opera di propaganda cattolica. La presenza del religioso nel romanzo, come personaggi,
situazioni, linguaggio, è senz’altro ipertrofica
(il 95%, contro un 5% in Stendhal, Tolstoi, Balzac, Flaubert) a dimostrazione dell’intenzione propagandistica.
Il
realismo cattolico in Manzoni sembra
avere gli stessi intendimenti
propagandistici del realismo socialista: vuole dimostrare il trionfo della
propria visione del mondo. La
stessa scelta del Seicento è funzionale a tale operazione: è il secolo della
Controriforma, e cioè del cattolicesimo trionfante;
una vicenda ambientata nel presente non avrebbe funzionato altrettanto bene.
Sempre
Moravia: atteggiamento paternalistico di Manzoni
26)
Resta la simpatia per Renzo e Lucia, per
gli umili che sono puri in quanto fuori
della storia: siccome la storia è corruzione, sono negativi (corrotti) i
personaggi che vivono nella storia, o che comunque appartengono alle classi che
fanno la storia (Gertrude, il conte Zio, ecc.); la vita ideale è quella rustica, semplice, povera, vicina alla
parrocchia e lontana dalla politica.
27)
Ma, al fondo, Manzoni è e resta un aristocratico conservatore, e il suo
atteggiamento nei confronti dei popolani protagonisti della sua opera è un atteggiamento paternalistico, a
differenza di quello di Tolstoi
(anche Moravia, come Gramsci, suggerisce questo confronto), autenticamente popolare e profondamente
evangelico. Come esempio dell’atteggiamento di Manzoni verso gli umili, si
guardi – insiste Moravia – la magra
figura che il sarto fa davanti al Cardinale. Costui, di condizione
sociale modesta, accoglie nella sua casa Lucia, che è stata liberata
dall’Innominato convertito. Il cardinale gli fa visita per ringraziarlo e il
sarto, che si picca di avere una certa cultura, ha preparato un bel discorso da
rivolgere all’illustre ospite, ma poi, “in
presenza del Borromeo, si impappina e non riesce a pronunciare che un insulso ‘si figuri’” (cosa di
cui si rammaricherà per tutta la vita). “In altre parole – scrive Moravia – l’aneddoto sottolinea la soggezione del
sarto di fronte al cardinale, attribuendogli, oltre all’inferiorità sociale,
anche quella morale e intellettuale”. Laddove Boccaccio, con la novella di Cisti fornaio (il quale, in una
situazione analoga, fa vergognare un potente con un bel detto)[2],
aveva dato dimostrazione di un sentimento più profondo ed autentico
dell’uguaglianza umana.
Sempre
Moravia: Manzoni come l’erede di don Rodrigo
28)
Così conclude Moravia:
In realtà
l’ideale del Manzoni ha limiti angusti dettati dal conservatorismo. E’ l’ideale
del buon padrone che guarda con benevolenza, con affetto, con umanità ai
semplici che lavorano per lui, ma non dimentica un sol momento che è il
padrone. L’ideale, per dirla col Manzoni
stesso, del marchese erede di don Rodrigo.
29)
Chiariamo di che si tratta. Dopo la
morte di peste di don Rodrigo, arriva al suo posto un nuovo feudatario. Costui,
a differenza di don Rodrigo, è un uomo buono, in buoni rapporti col cardinale
Borromeo e intende fare del bene a Renzo e Lucia. Poiché questi, in procinto di
trasferirsi nel bergamasco, vogliono vendere ciò che possiedono nel paese (una
vigna e le loro modestissime case), il marchese acquista il tutto pagando un
prezzo molto superiore al valore di quei beni. Quindi invita a pranzo nel suo
palazzo i due sposi, Agnese, la mercantessa (una brava donna che Lucia aveva
conosciuto al lazzaretto) e don Abbondio. Ed ecco la conclusione:
Il marchese fece
loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi,
con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con
don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agl’invitati, e aiutò anzi
a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più
semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma
non per un originale, come si direbbe ora; v’ho detto ch’era umile, non già che
fosse un portento d’umiltà. N’aveva
quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per
istar loro in pari.
Il
giudizio di Caretti
30)
Vorrei ora contrapporre a questi
giudizi, il giudizio di Lanfranco Caretti, il quale riconosce il grande valore dell’opera manzoniana,
a prescindere dall’ideologia che essa comunica:
Appare evidente
l’energia attiva che sorregge il programma manzoniano e che traspare appunto
nel rifiuto dell’isolamento, nell’accentuazione del valore morale dell’arte
ricondotta dalle finzioni mitologiche alla misura della verità, nella piena coscienza della necessità di
rinnovare dal profondo le convenzioni poetiche, stilistiche e linguistiche
italiane (...) Se dietro l’ideologia manzoniana, con le sue attive virtù...
e i suoi limiti storici ineludibili,
c’è il retroterra illuministico, lombardo e francese..., dietro le pagine
creative, particolarmente nel romanzo, c’è invece soltanto l’ammirevole e
febbrile ricerca personale, direi addirittura perigliosamente solitaria, di un
artista profondamente innovatore. Un
artista che con lucida consapevolezza... liquida con le sole sue forze... le
istituzioni retoriche e linguistiche ufficiali e promuove, con una progressione
risoluta che si dimostrerà poi irreversibile, la ricerca di forme letterarie
sostanzialmente diverse da quelle del passato... Questa potente spinta a
superare lo scarto sempre più sensibile e anacronistico fra il livello della
nostra tradizione linguistica e letteraria e il livello delle idee ormai
correnti, costituisce, a parte ogni
riserva che poi si voglia avanzare sull’ideologia manzoniana..., il vero e
memorabile merito del Manzoni… Il Manzoni creava così in Italia, si può dire
dal nulla, il romanzo moderno… Non si dovrà dimenticare che Manzoni non
aveva pressoché nulla di esemplare a cui riferirsi, e non solo in Italia ma
anche all’estero.” (L. Caretti, da Alessandro
Manzoni, milanese )
31)
Caretti fa infatti notare che quando nel
1825 i Promessi sposi sono già un
libro interamente compiuto, i grandi romanzi di Stendhal devono ancora essere scritti e pubblicati e Balzac “era ancora ben lontano dal mettere mano ai primi tomi della sua grande Comédie
humaine. In quanto a Tolstoi, a cui troppo di frequente si confronta il Manzoni
con evidente stortura storica e perciò con ingiusto proposito riduttivo, dovrà
seguire a mezzo secolo di distanza, avendo ormai dietro di sé una splendida
tradizione di romanzo”
Il
mio parere: denuncia della responsabilità degli uomini
32)
Il mio modesto parere – peraltro
stimolato dalle acute osservazioni di Ezio Raimondi
nel saggio Romanzo senza idillio – è che, al di là dei meriti di
straordinaria e solitaria innovazione letteraria che Caretti attribuisce
all’opera manzoniana, si debba mettere in discussione anche
l’antimanzonismo per quanto riguarda l’ideologia che il romanzo comunica.
Penso cioè che non si debba accettare pedissequamente ma meriti qualche approfondimento l’idea che il romanzo comunichi, come
è stato detto, rassegnazione e sottomissione, e che in esso sia rappresentata,
come è stato detto, l’epopea della Provvidenza, rispetto a cui ben poco valgono
le azioni degli uomini.
33)
Faccio notare come sia estremamente significativa quell’aggiunta in appendice che è la Storia
della colonna infame, un’aggiunta – si badi bene – che Manzoni volle come parte integrante del
romanzo. Si tratta, come è noto, della ricostruzione della vicenda
della condanna dei cosiddetti “untori” al tempo della peste. La colonna detta
“infame” era stata eretta sul luogo dove sorgeva il negozio da barbiere di Giacomo
Mora, uno dei presunti untori, a perenne memoria della loro infamia. Ma per Manzoni quella colonna ricorda
piuttosto l’infamia di quei giudici che condannarono degli innocenti. Manzoni
infatti attribuisce non all’ignoranza dei tempi la colpa di quelle aberranti
condanne (come aveva fatto Pietro Verri in un opuscolo Sulla tortura) ma alla viltà di quei giudici che, contro fatti
che erano evidenti anche per loro, vollero trovare un capro espiatorio
condannando degli innocenti. E dunque quell’appendice getta una luce
su tutto il romanzo che appare allora (con tutti i limiti di capacità di
comprensione del popolo che un aristocratico dell’Ottocento, quale Manzoni,
poteva avere) come una denuncia
implacabile della responsabilità degli uomini di potere nel male del mondo.
Il
rapporto fra potenti come “collusione mafiosa”
34)
Ricordo che ai tempi dell’uccisione di
Dalla Chiesa i ragazzi, impegnati in scioperi e manifestazioni, mi chiesero che
cosa faceva la scuola contro la mafia. Poiché stavamo leggendo Manzoni, io
risposi che quel romanzo qualcosa ci insegna nel momento in cui ci mostra
gli uomini di potere che si appoggiano a
vicenda a danno dei semplici cittadini: di che altro di tratta se non di una denuncia di quella che oggi
chiameremmo collusione mafiosa?
35)
Si rilegga l’episodio di fra Cristoforo che si presenta al palazzo di don Rodrigo
per intercedere a favore dei due promessi sposi e si noti come alla stessa
tavola siedano esponenti del potere
economico (Rodrigo e Attilio), del potere politico (il Podestà), del potere
giudiziario (Azzeccagarbugli).
36)
E si rilegga l’episodio dell’incontro e del dialogo fra il conte Zio e il padre
provinciale: episodio straordinario non solo per l’acutezza psicologica con cui i due personaggi sono delineati, ma
anche per la capacità che Manzoni
dimostra di comprendere i meccanismi che regolano il rapporto tra potenti.
Il
conte zio è zio di don Rodrigo e del conte Attilio, ed è un autorevole uomo
politico che risiede a Milano; su richiesta di Attilio incontra il padre
provinciale (è il padre superiore di tutti i cappuccini) per convincerlo a
spostare fra Cristoforo da Pescarenico. E’ un passo lungo, ma è troppo bello
per non essere letto integralmente (cap. XIX):
(…) Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno
a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali
assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche
parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e
che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura
signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche
senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l’idea della
superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una
dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i
quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con
gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima,
alle frutte v’avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come
si facesse a dir di no.
A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il
discorso sul tema di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte, del conte duca,
de’ ministri, della famiglia del governatore; delle cacce del toro, che lui
poteva descriver benissimo, perché le aveva godute da un posto distinto; dell’Escuriale di
cui poteva render conto a un puntino, perché un creato del conte duca l’aveva
condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo, tutta la compagnia stette, come
un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloqui particolari; e lui
allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in confidenza, al
padre provinciale che gli era accanto, e che lo lasciò dire, dire e dire. Ma a
un certo punto, diede una giratina al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo
tirò sul cardinal Barberini, ch’era cappuccino, e fratello del papa allora
sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte zio dovette anche lui lasciar
parlare un poco, e stare a sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo
mondo, non c’era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo
alzati da tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un’altra
stanza.
Due
potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il
magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e
cominciò: - stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a
vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra di noi,
senz’andar per altre strade, che potrebbero... E perciò, alla buona, col cuore
in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d’accordo.
Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è un padre Cristoforo da
***?
Il provinciale fece cenno di sì.
- Mi dica un poco vostra paternità, schiettamente, da
buon amico... questo soggetto... questo padre... Di persona io non lo conosco;
e sì che de’ padri cappuccini ne conosco
parecchi: uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell’ordine
fin da ragazzo... Ma in tutte le famiglie un po’ numerose... c’è sempre
qualche individuo, qualche testa... E questo padre Cristoforo, so da certi
ragguagli che è un uomo... un po’ amico de’ contrasti... che non ha tutta
quella prudenza, tutti que’ riguardi... Scommetterei che ha dovuto dar più
d’una volta da pensare a vostra paternità.
" Ho inteso: è un impegno, - pensava intanto il
provinciale: - colpa mia; lo sapevo che
quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in
pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un luogo, specialmente in conventi
di campagna ".
- Oh! - disse poi: - mi dispiace davvero di sentire
che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre,
per quanto ne so io, è un religioso... esemplare in convento, e tenuto in molta
stima anche di fuori.
- Intendo benissimo; vostra paternità deve... Però,
però, da amico sincero, voglio avvertirla d’una cosa che le sarà utile di
sapere; e se anche ne fosse già informata, posso, senza mancare ai miei doveri,
metterle sott’occhio certe conseguenze... possibili: non dico di più. Questo
padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo...
vostra paternità n’avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo,
scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile
giornata di san Martino, cose... cose... Lorenzo Tramaglino!
"
Ahi! " pensò il provinciale; e disse: - questa
circostanza mi riesce nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del
nostro ufizio è appunto d’andare in cerca de’ traviati, per
ridurli...
- Va bene; ma la protezione de’ traviati d’una certa
specie...! Son cose spinose, affari delicati... - E qui, in vece di gonfiar le
gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva
mandar fuori, soffiando. E riprese: - ho creduto bene di darle un cenno su
questa circostanza, perché se mai sua eccellenza... Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma... non so niente... e da Roma
venirle...
- Son ben tenuto a vostra magnificenza di codesto
avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito,
si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l’uomo che lei
dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo
conosco.
- Già lei sa meglio di me che soggetto fosse al
secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.
- È la gloria dell’abito questa, signor conte, che un
uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi
un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest’abito...
- Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo;
ma alle volte, come dice il proverbio... l’abito
non fa il monaco.
Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il
conte l’aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta
della lingua: il lupo cambia il pelo, ma
non il vizio.
- Ho de’ riscontri, - continuava, - ho de’
contrassegni...
- Se lei sa positivamente, - disse il provinciale, -
che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò
per un vero favore l’esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono
appunto per correggere, per rimediare.
- Le dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole
della protezione aperta di questo padre per chi le ho detto, c’è un’altra cosa
disgustosa, e che potrebbe... Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta.
C’è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote,
don Rodrigo ***.
- Oh! questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace
davvero.
- Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è,
non è avvezzo a esser provocato...
- Sarà mio dovere di prender buone informazioni d’un
fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore
che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti
a sbagliare... tanto da una parte, quanto dall’altra: e se il padre Cristoforo
avrà mancato...
- Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo,
da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo... si
fa peggio. Lei sa cosa segue: quest'urti, queste picche, principiano talvolta
da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o
non se ne viene a capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo:
troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha
ancora tutto lo spirito, le... inclinazioni d’un giovine: e tocca a noi, che
abbiamo i nostri anni... pur troppo eh, padre molto reverendo?...
Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come
quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima
del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia
un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso,
l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì
non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni.
Non già che piangesse i passatempi, il brio, l’avvenenza della gioventù:
frivolezze, sciocchezze, miserie! La cagion del suo dispiacere era
ben più soda e importante: era che sperava un certo posto più alto, quando
fosse vacato; e temeva di non arrivare a tempo. Ottenuto che l’avesse, si
poteva esser certi che non si sarebbe più curato degli anni, non avrebbe
desiderato altro, e sarebbe morto contento, come tutti quelli che desideran molto
una cosa, assicurano di voler fare, quando siano arrivati a ottenerla.
Ma per lasciarlo parlar lui, - tocca a noi, -
continuò, - a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per
buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il
caso d’un buon principiis obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia.
Alle volte un soggetto che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di
qualche inconveniente, riesce a maraviglia in un altro. Vostra
paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. C’è
giusto anche l’altra circostanza, che possa esser caduto in sospetto di chi...
potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto un
po’ lontanetto, facciamo un viaggio e due servizi; tutto s’accomoda da sé,
o per dir meglio, non c’è nulla di guasto.
Questa conclusione, il padre provinciale se
l’aspettava fino dal principio del discorso. " Eh già! - pensava tra sé: - vedo dove vuoi andar a parare: delle
solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di voi
altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il
superiore deve farlo sgomberare ".
E quando il conte ebbe finito, e messo un lungo
soffio, che equivaleva a un punto fermo, - intendo benissimo, - disse il
provinciale, - quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo...
- È un passo e
non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa
ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di
disordini, un’iliade di guai. Uno sproposito... mio nipote non crederei...
ci son io, per questo... Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la
tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si
fermi, che resti segreta... e allora non è più solamente mio nipote... Si stuzzica un vespaio, padre molto
reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze...
-
Cospicue.
- Lei m’intende: tutta gente che ha sangue nelle vene,
e che, a questo mondo... è qualche cosa. C’entra
il puntiglio; diviene un affare comune; e allora... anche chi è amico della
pace... Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere... di trovarmi... io che ho sempre avuta tanta propensione
per i padri cappuccini...! Loro padri, per far del bene, come fanno con
tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di
stare in buona armonia con chi... E poi, hanno de’ parenti al secolo... e
questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo,
s’estendono, si ramificano, tiran dentro... mezzo mondo. Io mi trovo
in questa benedetta carica, che m’obbliga a sostenere un certo decoro... Sua
eccellenza... i miei signori colleghi... tutto diviene affar di corpo... tanto
più con quell’altra circostanza... Lei sa come vanno queste cose.
- Veramente, - disse il padre provinciale, - il padre
Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero... Mi si richiede
appunto... Ma in questo momento, in tali
circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima d’aver ben
messo in chiaro...
- No punizione,
no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per
impedire i sinistri che potrebbero... mi sono spiegato.
- Tra il signor conte e me, la cosa rimane in questi
termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è
impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c’è
degli aizzatori, de’ mettimale, o almeno de’ curiosi maligni che, se posson vedere
alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano,
interpretano, ciarlano... Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come
superiore (indegno), ho un dovere espresso... L’onor dell’abito... non è cosa
mia... è un deposito del quale... Il suo
signor nipote, giacché è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe
prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e... non dico vantarsene,
trionfarne, ma...
- Le pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un
cavaliere che nel mondo è considerato... secondo il suo grado e il dovere: ma
davanti a me è un ragazzo; e non farà né più né meno di quello che gli
prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno
abbiamo noi di render conto? Son cose
che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere.
Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare -. E soffiò. - In
quanto ai cicaloni, - riprese, - che vuol che dicano? Un religioso che vada a
predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo...
noi che prevediamo... noi che ci tocca... non dobbiamo poi curarci delle
ciarle.
- Però, affine
di prevenirle, sarebbe bene che, in quest’occasione, il suo signor nipote
facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d’amicizia, di
riguardo... non per noi, ma per l’abito...
- Sicuro, sicuro; quest’è giusto... Però non c’è
bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio in
famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso...
qualcosa di straordinario... è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto
reverendo; che comanderò a mio nipote... Cioè bisognerà insinuargli con
prudenza, affinché non s’avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non vorrei alle volte che mettessimo un
impiastro dove non c’è ferita. E per quel che abbiamo concluso, quanto più
presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po’ lontana... per
levar proprio ogni occasione...
- Mi vien chiesto per l’appunto un predicatore da
Rimini; e fors’anche, senz’altro motivo, avrei potuto metter gli occhi...
- Molto a proposito, molto a proposito. E quando...?
- Giacché la cosa si deve fare, si farà presto.
- Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi
che domani. E, - continuava poi, alzandosi da sedere, - se posso qualche cosa,
tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini...
- Conosciamo per prova la bontà della casa, - disse il
padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi
verso l’uscio, dietro al suo vincitore.
- Abbiamo spento una favilla, - disse questo,
soffermandosi, - una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un
grand’incendio. Tra buoni amici, con due parole s’accomodano di gran cose.
Arrivato all’uscio, lo spalancò, e volle assolutamente
che il padre provinciale andasse avanti: entrarono nell’altra stanza, e si
riunirono al resto della compagnia.
Un grande studio, una grand’arte, di gran parole,
metteva quel signore nel maneggio d’un affare; ma produceva poi anche effetti
corrispondenti. Infatti, col colloquio che abbiam riferito, riuscì a
far andar fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una
bella passeggiata.
La conclusione del romanzo: la morale di Renzo e
quella di Lucia
37)
Non è questa una denuncia della
collusione fra uomini di potere a danno della giustizia e di chi il potere non
ce l’ha? Se è così, va ripensato il senso della conclusione del romanzo in cui Renzo, con la famosa serie
degli “ho imparato” (ho imparato a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in
piazza, ecc.), teorizza l’astensione
dalla politica (la non partecipazione) e Lucia lo corregge
suggerendo la necessità di affidarsi a
Dio:
“e io,” disse un
giorno al suo moralista, “cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a
cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me…”. Renzo, alla prima,
rimase impicciato. Dopo un lungo
dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì
spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più
innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o
senza colpa, la fiducia in Dio li
raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.
38)
Ma
dunque, per quanto riguarda il punto di vista iniziale di Renzo, come
possiamo pensare che l’autore della Storia della colonna infame,
l’autore del memorabile dialogo che abbiamo appena letto, insegni l’inerzia della rassegnazione, insegni a non agire per
contrastare il male operato dagli uomini? E’ certo che non può trionfare, con gli “ho
imparato” di Renzo, la morale opportunistica e complice di don Abbondio (la
morale che insegna a farsi i fatti propri, secondo cui, come dice lui stesso, “a un galantuomo che badi a sé, e stia ne’
suoi panni, non accadon mai brutti incontri”); e don Abbondio, a ben guardare, è il vero personaggio negativo del
romanzo, non il comico che poi esorcizziamo.
39)
Ma nemmeno si può credere che chi ha
dato una simile rappresentazione della realtà della storia possa “farla così
semplice”, come la fa, ancora una volta, don
Abbondio, quando parla della
Provvidenza come di una scopa, visto che grazie alla peste è stato
“spazzato” via don Rodrigo; ma anche, a
ben guardare, come la fa Lucia, quando invita alla “fiducia in Dio”.
Quel finale è in verità
aperto e problematico: quel “lungo dibattere e cercare insieme”
di Renzo e Lucia continua, dice
Raimondi, nella coscienza del lettore).
Un
finale poco lieto
40)
Non si può non notare come non ci sia
niente di consolatorio in quel finale, e ciò è confermato dal tono così poco lieto che
pervade le pagine conclusive. L’abbandono della terra
natale da parte dei protagonisti è paragonato dall’Anonimo al trauma della perdita del capezzolo materno:
Anche il
bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul seno della balia, cerca con
avidità e con fiducia la poppa che l’ha dolcemente alimentato fino allora; ma
se la balia, per divezzarlo, la bagna d’assenzio, il bambino ritira la bocca,
poi torna a provare, ma finalmente se ne stacca; piangendo sì, ma se ne stacca.
Dal
paese del bergamasco dove sono giunti si devono spostare perché a Renzo non
piacciono i pettegolezzi che si fanno su Lucia; e all’inizio nemmeno nel nuovo
paese le cose vanno bene, visti i problemi che Renzo deve affrontare nel
filatoio che ha acquistato insieme al cugino Bortolo). Dietro l’apparente lieto fine, si ripropone il mistero del male.
Il
male e la Provvidenza
41)
La convinzione profonda del cristiano
Manzoni è che la condizione dell’uomo nel mondo sia segnata per sempre dalla
caduta, e quindi dalla presenza ineliminabile del male e del
dolore: certo, come dice Lucia, la “fiducia in Dio” lo “raddolcisce” e
lo “rende utile per una vita migliore”, ma
non nel senso che si debba confidare in una Provvidenza che giunge puntualmente
a castigare i colpevoli e a premiare gli innocenti (almeno, non in
questa vita), bensì nel senso che, attraverso la “sventura” (che allora è “provvida”),
si acquisisce una consapevolezza superiore della propria condizione in questa
vita, e del proprio dovere verso gli altri.
La
Provvidenza per il narratore
42)
La Provvidenza, indicata più volte
dalla critica come la vera protagonista del romanzo manzoniano, è
effettivamente nominata più volte, ma quasi sempre nelle parole o nei pensieri
di Renzo o Lucia. Il narratore invece, cioè lo stesso
Manzoni, non ha ritegno di ricordarci che l’affidarsi
alla Provvidenza può essere anche giustificazione vile di scelte moralmente o
politicamente riprovevoli: così quando ne parla don Abbondio come di
una scopa, ma anche quando si ricorda che don Gonzalo, il governatore di
Milano, al tempo della calata dei Lanzichenecchi, pur avvisato dai medici della
Sanità del pericolo della peste, rispose “che non sapeva cosa farci… e si sperasse
nella Provvidenza”. Si può credere che qui Manzoni avalli l’inerzia
del governatore che si affida alla Provvidenza? Certamente no.
La
responsabilità degli uomini e il dovere di agire
43)
Che
ci sia un dovere da compiere verso gli altri (che non ci si possa chiudere né
in un opportunismo complice, né in una rassegnazione fideistica)
è evidente dal fatto che – va ripetuto –
tutto il romanzo è una denuncia
dura e inflessibile della responsabilità degli uomini (soprattutto di
quelli che governano) nel commettere il male. Il male è certo ineliminabile, ma questo non ci esime dal dovere di
agire per contrastarlo, esiste un margine che ci consente di intervenire
per attenuarlo (non si spiegherebbe
altrimenti la positività di figure eroiche quali quelle di fra Cristoforo, del
Cardinale, dell’Innominato convertito).
La
semplice verità dell’Anonimo e il superamento del “giansenismo”
44)
Dunque,
io suggerisco di tornare indietro di qualche pagina e riconoscere che il vero “sugo” della storia sta
nelle parole dell’Anonimo:
l’uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si
trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sè altri letti, ben
rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone.
Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel nuovo, comincia,
pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme:
siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo, soggiunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene,
che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio. È tirata un po’
con gli argani, e proprio da secentista; ma
in fondo ha ragione.
45)
“Bisognerebbe più pensare a far bene che a
star bene, e così si finirebbe anche per star meglio”. E se è così, è
anche superato l’intransigente
pessimismo (il presunto “giansenismo”)
enunciato nelle parole di Adelchi
morente (“Loco a gentile, / ad innocente opra non v’è; non resta / che far torto
o patirlo”): non tanto perché il lieto fine dimostri la possibilità che
il bene trionfi nella storia (visto che un vero lieto fine non c’è), quanto perché
le suddette parole dell’Anonimo, avallate dal narratore, rivendicano uno spazio (un “loco”, per quanto piccolo) per un’azione
“gentile” ed “innocente”, sostengono
il dovere di operare per il bene.
Conclusione
46)
In conclusione, se si può condividere l’opinione di chi ritiene (come Gramsci e Moravia)
che il conte Manzoni, aristocratico dell’Ottocento, sconti dei limiti storici oggettivi quanto
alla capacità di comprendere fino in fondo la condizione popolare, mi pare sbrigativo ed ingiusto il
giudizio di chi dice che il romanzo “loda
preti e frati” e insegna “rassegnazione
e sottomissione”. Quanto a preti e frati, se sono lodati fra Cristoforo
e il cardinale Borromeo, non lo sono certamente don Abbondio o il padre
Provinciale, e che il romanzo insegni rassegnazione e sottomissione – e a
confidare nella Provvidenza – lo può pensare chi si accontenta di una lettura superficiale delle ultime righe
dell’ultimo capitolo e non valuta il senso complessivo del romanzo.
[1] Il contadino Vallera fa l’elogio
della sua amata, Nencia, esprimendosi in modi “popolani” che suscitano
l’ilarità del pubblico di corte.
[2] Geri Spina, politico fiorentino,
ospitava gli ambasciatori del papa. Passeggiando con questi per strada, ed
essendo tutti assetati, accetta dell’ottimo e fresco vino bianco che Cisti
offre loro su un tavolo davanti alla sua bottega (e questo si ripete per più
giorni). Quando gli ambasciatori devono partire, Geri organizza un banchetto e
invita anche Cisti, ma questi si rifiuta perché si sente estraneo a quella
compagnia. Geri manda allora un servo con un fiasco per chiedere a Cisti un po’
del suo buon vino. Ma il servo va con una damigianina e non con un fiasco. Alla
sua richiesta, ripetuta più volte, Cisti risponde “Geri non ti manda da me”. “E
da chi?” chiede infine il servo. “Ad Arno”, risponde Cisti. Il servo riferisce
la risposta e Geri capisce, vede la damigianina e gli impone di andare con un
fiasco. Adesso Cisti è soddisfatto e consegna al servo non un fiasco ma una
botticella del suo vino.
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