Elogio
dell’inettitudine
Leopardi,
Svevo, Montale, Pirandello
Con il titolo
del suo primo romanzo – Un inetto, poi cambiato, come noto, per volontà
dell’editore, in Una vita – Svevo indicava una condizione esistenziale
che, a ben guardare, si rivela una efficace chiave interpretativa di tanta
letteratura del Novecento, e non solo italiano. Svevo lo nomina alla fine
dell’Ottocento (Una vita è del 1892), ma la figura dell’inetto
attraversa, in maniera davvero caratterizzante, tutto il secolo successivo e
sta ad indicare, pur nelle diverse forme in cui si presenta, un tipo umano
estraneo – appunto, incapace di adattarsi – alla concretezza pragmatica e
all’efficienza produttiva della moderna società industriale. Dunque un
anti-eroe, i cui precedenti sono senz’altro riconoscibili in certi personaggi
del grande romanzo russo dell’Ottocento: in Oblomov, ad esempio, ma anche – e
citeremo due autori notoriamente cari a Svevo – nell’“uomo del sottosuolo” di
Dostoevskji e nell’“uomo superfluo” di Turgenev. E certo, in questa galleria
ideale non può mancare l’albatro che Baudelaire ha cantato in una delle più
celebri Fleurs du mal: quel grande uccello marino, re dell’azzurro e
principe dei nembi, che, simile al poeta esiliato sulla terra, impacciato dalle
sue ali di gigante, appare goffo e ridicolo sulla tolda della nave dove i
marinai ne fanno oggetto di scherno, ha connotati che lo rendono dell’inetto
sveviano l’antenato più illustre e credibile.
Ma se non è
sorprendente incrociare, in questa breve ricognizione, un maestro riconosciuto,
quale Baudelaire, del Novecento letterario, più sorprendente sarà, risalendo a
ritroso, scoprire che già Leopardi aveva individuato la specificità di quella
condizione umana e ne aveva effettuato una diagnosi quanto mai precisa. Più
sorprendente, ma solo per chi non sappia riconoscere a quel pensatore poetante
la straordinaria capacità di vedere, con largo anticipo di tempo, temi e
problemi che diventeranno attuali più di un secolo dopo.
I. Leopardi: l’anima
Nel Dialogo della Natura e di un’Anima
Leopardi ribadisce quell’associazione fra grandezza e infelicità, già enunciata
nello Zibaldone[1]
e rintracciabile in altre Operette morali:[2]
quanto più l’individuo è dotato di intelligenza e sensibilità (quanto più si
eleva sopra il torpore degli “animali bruti”), tanto più è destinato
all’infelicità, giacché più intensamente avverte la distanza incolmabile fra il
desiderio del piacere (proprio di ogni uomo) e la miseria della realtà. Ma più
interessante, in questa Operetta, è
lo sviluppo del ragionamento per cui, dalle suddette premesse, la Natura giunge
ad indicare per l’anima grande alcune conseguenze sul piano pratico della vita
quotidiana:
Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono
ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro
potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dalla immaginativa; le quali
creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni nell’eseguire. I meno atti
e meno usati a ponderare seco medesimi sono i più pronti al risolversi, e
nell’operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro
stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi
impotenti di se medesime, soggiaciono il più tempo all’irresoluzione, così
deliberando come operando: la quale è uno dei maggiori travagli che affliggano
la vita umana. Aggiungi che, mentre per l’eccellenza delle tue disposizioni
trapasserai facilmente e in poco tempo quasi tutte le altre della tua specie
nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno
ti riuscirà sempre impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre
in pratica moltissime cose menome in sé, ma necessarissime al conversare cogli
altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed
apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma
spregevoli in ogni modo.[3]
Si dice dunque
che le qualità umane più alte (tali sono per Leopardi la “ragione” e
l’“immaginativa”) sono fonte di dubbi ed esitazioni sia nel decidere che
nell’agire (creano mille dubbietà nel
deliberare, e mille ritegni nell’eseguire) e quindi condannano l’individuo
intelligente e sensibile ad una perpetua irresolutezza, laddove invece
prontezza nel decidere e determinazione nell’agire sono proprie degli ingegni
mediocri (i meno atti o meno usati a
ponderare seco medesimi); e mentre tali ingegni mediocri (anzi, spregevoli in ogni modo) saranno sempre
capaci di praticare con naturalezza quei comportamenti che risultano apprezzati
in società (nel conversare con gli altri
uomini), l’individuo di talento apparirà, al contrario, goffo ed
impacciato. Insomma, il privilegio della profondità di pensiero e immaginazione
si sconta con l’incapacità di decidere e, su un piano più basso, con la
mancanza di disinvoltura nella vita sociale. La riflessione sulla prima di
queste conseguenze ritorna con chiarezza in alcune pagine dello Zibaldone:
E’ cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior
talento sono i più difficili a risolversi tanto al credere quanto all’operare;
i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da
quell’eccessiva pena dell’irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le
cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente,
malgrado l’utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di
riflettere, e la profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e
l’angustia di risolvere.[4]
Il secondo motivo, ovvero quello della
incapacità “di rendersi nella
conversazione tollerabili”, si ritrova anche in un’altra Operetta, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, nella quale peraltro
sembrano confluire le articolate considerazioni svolte nello Zibaldone a
proposito della “invincibile timidità”
di Rousseau e di altri come lui: costoro, si dice, a differenza di un’altra
categoria di persone (cui è riconducibile Alfieri), non è che disprezzino le
cose piccole e basse che servono per risultare piacevoli in società, ma, al
contrario, vi si dedicano con un eccesso di attenzione; il che
togliendo loro la possibilità della disinvoltura, del riposo d’animo,
della facilità, dell’abbandono, della sicurezza, della confidenza in se stessi
[...] impedisce a quei rari ingegni di mai, se non imperfettissimamente, di
mai, se non con grandissima difficoltà e stento, adoperare ed esercitare le
qualità che nel mondo si apprezzano ed amano e premiano.[5]
Altrove si
parla invece di un eccesso di “amor
proprio”, riconducibile alla “soprabbondanza
della vita interna dell’anima”:
La cagione si è l’eccesso dell’amor proprio, inseparabile dalla
soprabbondanza della vita e forza dell’animo; ed insieme la vivacità
dell’immaginazione [...] Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e
virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un’invincibile e
irrepugnabile timidità, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non
son tali se non per un eccesso di amor proprio e di immaginazione. Altro danno
e infelicità somma della soprabbondanza della vita interna dell’anima (oltre i
tanti da me altrove notati), della sensibilità, della squisitezza dell’ingegno,
della natura riflessiva, immaginosa, ec.[6]
In conclusione:
[...] gli uomini di questa seconda specie, non essendo di volontà punto
alieni dal conversare cogli altri [...] dolendosi nel proprio cuore della
disistima in cui si veggono essere, e di parere da meno di uomini
smisuratamente inferiori a sé d’ingegno e d’animo; non vengono a capo, non
ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all’uso pratico
della vita, né di rendersi nella conversazione tollerabili a sé, non che
altrui.[7]
II. Svevo: l’inetto
Leopardi non
figura nell’elenco degli autori che Svevo, nel Profilo autobiografico, indica come significativi per la sua
formazione. E tuttavia è difficile non riconoscere nelle idee sopra esposte una
sorta di diagnosi ante litteram della
malattia patita dai protagonisti dei romanzi dello scrittore triestino. Che si
tratti della “inettitudine” di Alfonso, della “senilità” di Emilio o della
“malattia” di Zeno,[8]
la condizione che accomuna i tre personaggi, al di là delle differenze che
ovviamente esistono, sembra essere quella della inadeguatezza alla vita
pratica; inadeguatezza determinata da un eccesso di pensiero (una ipertrofia
della coscienza) che inibisce (paralizza) la capacità di decidere e di agire. E
per loro sembrano appropriati anche i corollari conseguenti cui fa riferimento
Leopardi: l’inadatto alla vita pratica (l’inetto) è anche goffo fino al
ridicolo nei rapporti interpersonali; gli “adatti”, al contrario, oltre che
capaci di decidere e di agire, sono anche brillanti nella vita sociale; ma lo
sono, inevitabilmente, a prezzo (o in virtù) della loro mediocrità
intellettuale.
In Una vita c’è un passo interessante, che
consente di mettere meglio a fuoco questa affinità di pensiero fra Svevo e
Leopardi. Si tratta del discorso con cui Macario (l’antagonista di Alfonso)
intende dare una lezione di vita all’amico-nemico. I due stanno rientrando in
porto dopo una gita in cutter, durante la quale Macario ha già avuto
modo di mostrare la sua perizia e sicurezza a fronte del disagio, psichico e
fisico, di Alfonso. Attorno alla barca volano gabbiani, che ogni tanto si
precipitano rapidissimi in mare, ad afferrare la preda. Macario invita Alfonso
ad osservarli, quindi così “filosofeggia”:
– Fatti proprio per pescare e per mangiare. Quanto poco cervello
occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che
cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch’è la sventura del pesce
che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco,
l’appetito formidabile, per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così
dall’alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar
pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere
inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più.
Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà
giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà
imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per
afferrare o anche inabili a tenere.[9]
È evidente che
Macario contrappone, servendosi dell’esempio del gabbiano, due tipi umani:
l’adatto a vivere (al quale, per afferrare la preda, non occorre cervello) e
l’inetto (il quale, invece, non sa afferrare la preda e passa la vita a nutrire un essere inutile, il cervello
appunto). Davanti a tanta sicurezza, Alfonso si ritrae intimidito, anzi peggio,
con una domanda quanto mai ingenua (“E io ho le ali?”), presta il fianco alla battuta conclusiva e liquidatoria di
Macario (“Per fare dei voli pindarici, sì”).
E certo, il “letterato ozioso” (così viene chiamato
Emilio in Senilità), che coltiva
l’immaginazione e il sentimento, la fantasia e l’intelletto (“nutre” il cervello, come dice Macario),
sempre fuori fase rispetto alla realtà, non può che apparire un ridicolo
sognatore all’uomo di successo, orgogliosamente privo di cervello (entità “da negligersi”), ma ben dotato delle
qualità necessarie per afferrare la preda: e sono, queste ultime, qualità quasi
animalesche (lo dice già il paragone con il gabbiano) che hanno a che fare con
la rapidità di decisione e la spietatezza di esecuzione; qualità rispetto a cui
il cervello è di ostacolo, in quanto, implicando la facoltà di concepire il
possibile, immaginare l’alternativa, pensare l’inesistente, rallenta l’azione
fino a bloccarla.
Ma ciò che
nella filosofia di Macario appare come il negativo, è proprio il positivo indicato
da Leopardi. Quel cervello “essere
inutile”, di cui parla Macario, è la stessa grande anima di cui Leopardi
dice che, “soverchiata dalla grandezza delle proprie facoltà”,
“per l’abito di riflettere e la profondità dell’indole”, si rivela d’impaccio quando si
tratta di decidere e di agire. E poiché il cervello–anima è proprio ciò che
distingue – privilegio e maledizione – l’uomo dagli animali bruti, rinunciarvi
vorrebbe dire rinunciare alla essenza dell’umanità. Da questo punto di vista,
l’inetto sveviano perde ogni connotazione negativa per acquisire quella
positiva, anzi titanica, dell’uomo che, a prezzo di una diversità che lo
emargina dal consorzio civile, ma anche lo distingue dalla massa dei mediocri,
non rinuncia al pensiero, ovvero non rinuncia all’essenza del proprio essere
uomo.
Del resto, se
leggiamo certi saggi sveviani, quali L’uomo
e la teoria darwiniana e La
corruzione dell’anima[10]
non possiamo che trovare riscontri a questa teoria che fa dell’inadatto a
vivere l’uomo per eccellenza. Vi si sostiene anzitutto che la superiorità
dell’uomo sull’animale è data dal fatto che, mentre quest’ultimo perde l’anima
(e con essa il “malcontento”, ovvero l’insoddisfazione) nel momento in cui
adatta il proprio organismo alle necessità ambientali, l’uomo è l’essere che
conserva l’anima – e l’inquietudine vitale che le è propria – proprio perché
non c’è adattamento che lo soddisfi. L’uomo dunque, pur a prezzo
dell’infelicità (è “torvo e malcontento”),
mantiene integre le potenzialità di sviluppo ed è sempre disponibile ad
affrontare il mutamento ambientale, laddove l’animale vive, sì, soddisfatto
della funzionalità del proprio organismo, ma rimane “identico a se stesso, definitivamente cristallizzato”, “non accorgendosi di aver perduto la vera
vita” (la “vera” vita: non sfugga il giudizio di
valore).
Ne consegue
paradossalmente che, rovesciando l’assunto darwiniano, il vero vincitore nella
lotta per la sopravvivenza è l’uomo in quanto animale che non si adatta, e cioè
l’uomo in quanto inetto (etimologicamente in-aptus,
ovvero “non-atto”, “che non si adatta”); ma, di più, trasponendo questa verità
sul piano della vita sociale, si ha un corollario altrettanto paradossale,
perché si conclude che l’uomo di successo è il mediocre che ha perduto l’anima
(e con essa la vera vita),
assimilando, con istinto quasi animalesco, i valori dominanti (appunto,
adattandovisi)[11],
laddove l’inetto, in quanto incapace di far propri quei valori (in quanto
renitente ad adattarvisi), è l’uomo che vive la vera vita, l’uomo in senso pieno, dotato di anima, dunque
eternamente insoddisfatto, straniero in ogni tempo e in ogni luogo, mai in pace
con se stesso e con gli altri. E che questa sia l’ottica giusta con cui
guardare i protagonisti dei suoi romanzi, ce lo conferma lo stesso autore quando,
nella lettera a Valerio Jahier del 27 dicembre 1927, parla del “contemplatore”[12]
come dell’“uomo più umano che sia stato
creato”, quindi si chiede:
E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere
all’umanità ciò che essa ha di meglio?[13]
Per altro, il
confronto fra la condizione dell’animale, naturalmente felice, e quella
dell’uomo, tormentato dalle contraddizioni del pensiero, torna in altri momenti
dell’opera sveviana. Oltre al passo sopra citato, in cui – a contrasto con
l’inettitudine di Alfonso – è descritta la perfetta attitudine alla vita del
gabbiano, è ben nota la pagina finale de La
coscienza di Zeno, dove alla salute della rondine (ma anche della talpa e
del cavallo), che non conosce altro progresso che “quello del proprio organismo”, si contrappone la malattia dell’ “occhialuto uomo” che “inventa ordigni fuori del suo corpo”,
sottraendosi così alla selezione naturale. Il fatto è che la rondine – lo
apprendiamo da una delle favole, Rapporti
difficili[14]
– non ha “spazio nel cervello per contenere due concezioni della vita”:
questa è la sua fortuna, ma anche il suo limite. Viceversa, dobbiamo intendere,
la sfortuna (ma anche la superiorità) dell’uomo è proporzionale allo spazio che
c’è nel suo cervello, uno spazio che può contenere due (o più, ovviamente)
concezioni della vita: è, insomma, lo spazio “della ragione e della immaginativa” che condanna i più dotati fra
gli uomini alla “irresoluzione”, per
dirla con parole leopardiane; alla inettitudine (alla senilità, alla malattia)
per dirla con Svevo.
III. Montale: l’ombra
A tale
problematica sembrano ricondurci anche alcuni motivi presenti nella poesia di
Montale. E non dovremo stupircene: una vicinanza di sensibilità fra i due
autori è facilmente presumibile, se si pensa che Montale, come noto, è stato il
primo lettore italiano a segnalare la novità e l’importanza di Svevo. Ebbene,
quel senso di “totale disarmonia con la
realtà che mi circondava” (sono parole dello stesso Montale)[15],
o “inadattamento” (davvero
significativo il termine usato), rintracciabile in tanti componimenti delle sue
raccolte, non appare diverso dal senso di estraneità al mondo circostante che
caratterizza, e tormenta, “colui che non si adatta” nei romanzi sveviani; e
simile sembra anche il sentimento contraddittorio, di ammirazione e disprezzo,
espresso nei confronti di chi si dimostra adatto alla vita.
Si rileggano i
seguenti versi:
Ah, l’uomo che
se ne va sicuro
agli altri ed a
se stesso amico
e l’ombra sua
non cura che la canicola
stampa sopra uno
scalcinato muro!
È la strofa
centrale di uno dei più noti fra gli ossi
di seppia, quello in cui il poeta, enunciando i principi della sua poetica,
dichiara di non avere parole forti e chiare (splendenti “come un croco / perduto
in mezzo a un polveroso prato”)
che possano comunicare certezze, trasmettere valori, proporre, in positivo,
ideali; al contrario, egli può soltanto pronunciare “qualche storta sillaba e
secca come un ramo” e
limitarsi a constatare, in negativo, che siamo costretti ad una condizione di
inautenticità (e insoddisfazione), che la vita che viviamo è vuota e falsa, ci
è estranea, non è quella che vorremmo (“Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”).
Al centro, la
strofa sopra citata esprime contemporaneamente, con grande ambiguità, il
desiderio e la deprecazione (tale mi sembra il doppio valore dell’esclamativo
iniziale) di un atteggiamento esistenziale diverso, quello dell’“uomo
che se ne va sicuro” perché
non avverte, e quindi non patisce, il vuoto e il falso della propria
condizione. È un uomo felice, e quindi invidiabile, perché non si guarda
vivere, ma vive con immediatezza, è in sintonia con la realtà; ma, proprio
perciò, è anche un uomo mediocre, e quindi da commiserarsi, perché incapace di
riflettere sul senso del proprio esistere e del proprio rapporto col mondo;
proprio perché vive aderendo pienamente alla realtà, al suo sguardo manca la
distanza necessaria per vedere e comprendere; l’altra faccia della sua felice
immediatezza è appunto questa mancanza di distacco critico, ovvero l’incapacità
di guardare dall’esterno, anche solo per un momento, se stesso e la totalità.
Ma certo, nel momento in cui si guardasse dall’esterno, si sarebbe già
sdoppiato e il dubbio comincerebbe a corrodere le sue sicurezze, prima fra
tutte quella sulla compattezza e la unicità del suo stesso io.
Proprio questo
indica la bella immagine di colui che “l’ombra sua non cura che la canicola /
stampa sopra uno scalcinato muro”:
non prestare attenzione ad un evento usuale, e naturalissimo, quale la
proiezione della propria ombra su un muro sgretolato dal sole, è quanto di più
normale ci si possa aspettare; ridicolo, fino al patologico, appare invece
l’atteggiamento contrario. Ma quell’uomo ridicolo e malato, nel quale il poeta
si rispecchia, è l’uomo che non rinuncia all’intelligenza critica, e paga alla
volontà di comprensione il prezzo dello sdoppiamento. Costui, di fronte alla
propria ombra, si ferma stupefatto: su quello scalcinato muro non vede un’insignificante macchia scura, ma riconosce
se stesso fuori di sé: vede se stesso che vive, ed è una vista indimenticabile.
Da quel momento, accanto a un io che vive c’è un io che si interroga sul senso
di quel vivere, e per ciò stesso rallenta, fino a paralizzarli, i movimenti
della vita: lo sguardo su se stesso, denso di interrogativi ormai ineludibili,
è uno sguardo che pietrifica come quello della Medusa.
La vita,
immediata e irriflessa, non è più possibile, ogni solida certezza si dissolve;
resta un uomo perplesso e dolente, che non si riconosce nella normalità
dominante, e da questa non è riconosciuto; è un uomo che non può essere “agli altri ed a se stesso amico”, perché
fra lui e gli altri c’è una diversità che non consente amicizia, così come non
c’è più pace fra lui e se stesso. È un uomo goffo nei rapporti con le persone,
impacciato nei comportamenti, ormai incapace di compiere le più semplici azioni
della quotidianità: è un inetto.
IV. Pirandello: il doppio
Dunque,
“curarsi” della propria ombra, è segno di una più alta umanità, che può
appartenere solo a chi ha acquisito la consapevolezza del proprio sdoppiamento;
o a chi, per dirla con Svevo, “ha lo
spazio nel proprio cervello per contenere due concezioni della vita”, e
perciò si differenzia – doloroso privilegio – in natura dall’animale, in
società dall’“uomo che se ne va sicuro”.
Ma il motivo
dell’ombra come manifestazione concreta (o “correlativo oggettivo”) dello
sdoppiamento, ci rimanda ad un altro significativo autore del Novecento, a
Pirandello, che del resto ha fatto della crisi d’identità, e della connessa
perdita delle certezze, il tema centrale della sua produzione. Si pensi alla
condizione patita da Mattia Pascal, il protagonista del più famoso dei romanzi
pirandelliani. Costui non solo è sdoppiato per definizione, in quanto titolare
di una doppia identità (Mattia Pascal / Adriano Meis), ma emblematicamente si
ritrova, a un certo punto della storia, proprio a combattere con la sua stessa
ombra (cap. xv, Io e l’ombra mia). Frustrato nella sua
aspirazione a vivere pienamente la vita (si accorge di essere stato derubato,
ma non può denunciare il ladro, per la stessa ragione per cui non può
legalizzare il suo amore: non ha identità anagrafica) esce di casa e passeggia
per Roma. Alla vista della propria ombra, comincia a parlarle rabbiosamente
come se fosse un’entità reale, un altro se stesso che vorrebbe annientare, ma
da cui non riesce a separarsi (“se mi
metto a correre, mi seguirà”):
Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via
Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno;
poi gli occhi mi s’affisarono su l'ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a
contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non
potevo calpestarla, l’ombra mia.
Chi era più ombra di noi due? io o lei?
Chi era più ombra di noi due? io o lei?
Due ombre!
Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la
testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l'ombra, zitta.
L'ombra d’un morto: ecco la mia vita...
Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le
quattro zampe, poi le ruote del carro.
– Là, così! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo,
sì: alza un’anca! alza un’anca!
Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via,
spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra,
meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i
piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi
adunghiandomi il ventre; alla fine, non potei più vedermi davanti quella mia
ombra; avrei voluto scuotermela dai
piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.
“E se mi metto a correre,” pensai, “mi seguirà!”
Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per
farmene una fissazione. Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita
era quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui.
Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le
vie di Roma.
Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare;
aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma
per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una
testa. Proprio così!
Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il
cavallo e le ruote del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente
fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram,
e vi montai.[16]
L’ombra è
dunque l’emblema visibile della scissione dell’io, ma è anche il corrispettivo
dell’anima. Chi se ne avvede (chi si cura della propria ombra), ha perso
l’immediatezza che la vita richiede, è spezzato fra un io che vive e un io che
riflette su quel vivere, è dunque irrimediabilmente inibito alla vita. Ma chi
non se ne avvede (chi non si cura della propria ombra, o, che è lo stesso, chi
per una “storia straordinaria” l’avesse persa), ha perso l‘anima. È appunto
questo il senso che si ricava da quel racconto di Chamisso (Storia straordinaria di Peter Schlemihl),
vero e proprio archetipo letterario costruito sul motivo, fantastico e
inquietante, della perdita dell’ombra: troppo tardi lo sventurato Peter si
rende conto che, cedendo al diavolo la propria ombra in cambio di ricchezza e
successo, si è privato della propria umanità (la mancanza dell’ombra è una
deformità che lo esclude dal consorzio umano); e troppo tardi riconosce
l’equivalenza dell’ombra con l’anima, visto che solo in cambio dell’anima il
diavolo è disposto a restituirgliela.
Il cerchio si
chiude. Se l’ombra è l’anima, non accorgersi della propria ombra “che la canicola / stampa sopra uno
scalcinato muro” vuol dire non accorgersi della propria anima. E non ci si
accorge della propria anima perché la si è persa, adattandosi alla realtà. Chi
l’ha persa, “se ne va sicuro, agli altri
ed a se stesso amico”. Ma perdere l’anima significa perdere ciò che le è
più proprio, cioè, come avvertiva Leopardi, “soprabbondanza di vita interna”, capacità di “ponderare seco medesimi”, “vivacità
di immaginazione”. E solo chi conserva tutto ciò, conserva integra, pur a
prezzo del “malcontento” e
dell’inettitudine, la propria umanità.
Articolo pubblicato su
Studi
di estetica, terza serie, n. 32, anno 2006 (pp. 181-194)
[1] La questione è connessa con la
cosiddetta “teoria del piacere”, su cui Leopardi ritorna più volte, ma che
elabora in maniera più sistematica nelle riflessioni del 12 febbraio 1821 (Zibaldone, pp. 646-50) e del 2 maggio
1822 (Zibaldone, pp. 2410-14).
[2] Vedi Storia del genere umano, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, Dialogo
di Marcabruno e Farfarello (anche se qui è posta l’equazione
vita-infelicità, anziché quella grandezza-infelicità).
[3] G.
Leopardi, Dialogo della Natura e
di un’Anima, in Tutte le opere di
Giacomo Leopardi. Le poesie e le prose, vol. I, Milano 1968 [1940], p. 848.
[8] Qualcosa di simile si può
ritrovare anche nei protagonisti di opere minori: ad esempio, in Giorgio de L’assassinio di via Belpoggio o nel
dottor Menghi de Lo specifico del dottor
Menghi.
[9] I.
Svevo, Opera omnia, vol. II,
Milano 1969, pp. 207-8.
[10] Più che di saggi veri e propri,
si ha l’impressione di studi rimasti allo stato di abbozzo. Si tratta di testi
di poche pagine, formalmente poco curati, a volte incompiuti, non databili con
precisione, ma collocabili alla fine del primo decennio del Novecento. Si
possono leggere in I. Svevo, Opera omnia, vol. III, Milano 1968 (p.
637 e p.641)
[11] In questa tipologia umana
saranno da riconoscere, pur con le debite differenze, gli antagonisti
dell’inetto nei diversi romanzi: Macario, Stefano Balli, Guido Speier.
[12] Si tratta, come è noto, del
termine (contrapposto a “lottatore”) che Svevo desume da Schopenhauer per
indicare il tipo umano dell’inetto.
[13] I.
Svevo, Opera omnia, vol. I,
Milano 1966, p. 860.
[14] I.
Svevo, Opera omnia, vol. III,
Milano 1968, pp. 755-9.
[15] E.
Montale, Il secondo mestiere.
Arte, musica, società, Milano 1996, p. 1592.
[16] L.
Pirandello, Tutti i romanzi, vol. I, Milano 1990, pp. 523-4.
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