domenica 30 agosto 2015

Sulla Divina Commedia (1)

Struttura della Commedia
 
E. AUERBACH, Studi su Dante,
Feltrinelli, 1974, pp. 91-121.
 
Nella Commedia sono fusi tre sistemi: fisico, etico, storico-politico.
1) Siamo all’interno della cosmografia tolemaica accordata con la filosofia aristotelico-cristiana (cioè, tomista). L’Empireo è l’immobile sede di Dio; il primum mobile inizia il movimento (determinato dall’amore per Dio e dal desiderio di ricongiungersi a lui) e lo comunica a tutto l’universo; così tutte le cose create (piante, animali) sono inclinate naturalmente al bene (amor naturale) e quindi non possono peccare; anche l’uomo, in quanto corpo, subisce l’inclinazione-influsso delle stelle, ma in quanto anima, è dotato di intelletto e volontà: cioè, di libero arbitrio (amor d’animo o d’elezione), per cui può decidere sul suo destino eterno (se salvarsi o dannarsi).
2) Si ha peccato quando l’amore, rivolto ai beni “secondi”, è eccessivo o sbaglia il suo oggetto (diventa un amare il male del prossimo). Ma mentre nel Purgatorio si tratta di espiare (dopo il pentimento) delle “corrotte disposizioni”[3], nell’Inferno sono puniti i peccati commessi con il consenso della volontà (che c’è sempre, anche se, nel caso dei peccati meno gravi - quelli per incontinenza - è offuscato da un eccesso di passione; invece è evidente e determinato nel caso dei peccati più gravi - quelli per malizia). Nel Paradiso stanno le anime che amarono giustamente: tutte ugualmente beate, anche se soggettivamente, nel senso che sono soddisfatte della loro visione di Dio, pari al loro merito; ma oggettivamente esiste una scala che va dal difetto di amore (Luna, Mercurio), all’amore della vita attiva (Venere, Sole, Marte, Giove), all’amore della vita contemplativa (Saturno).
3) I due elementi centrali nella storia sono: la redenzione e la missione di Roma[4]. Dopo la redenzione, l’ordine universale è segnato dalla compresenza dell’autorità temporale e di quella spirituale. Ma l’allegoria del carro (nell’Eden) indica che il disordine comincia con la donazione di Costantino: di qui l’avidità della curia e la disgregazione del potere imperiale. In particolare Firenze, che, con il suo spirito borghese-affaristico, non riconosce, tendenzialmente, autorità sacre, è il luogo della corruzione. L’Eden è simbolo di un mondo pacificato: l’età dell’oro. Le due profezie (del Veltro nel prologo, del DXV nell’Eden) indicano il ripristino dell’autorità imperiale.

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[3]Sic. Il concetto mi pare poco chiaro. A me pare che la differenza stia nel pentimento, e quindi nella necessità di espiare nell'oltretomba per coloro che non riuscirono a farlo in vita (per sopraggiunta morte).
 
[4]Non a caso il redentore appare quando Roma -l'Impero - ha pacificato il mondo; e nelle fauci di Lucifero, accanto a Giuda, traditore del redentore, stanno Bruto e Cassio, traditori dell'Impero.
 

 

Sulla Divina Commedia (2)

L’individualità nella Commedia
 
E. AUERBACH, Studi su Dante,
Feltrinelli 1974, pp. 76-91
 
L’epoca della Commedia è anche l’epoca in cui gruppi di uomini, gesti individuali, escono da una oscurità secolare (è l’età dei Comuni). D. trovava in Tommaso (1225-1274) la giustificazione filosofica della sua attenzione ai caratteri individuali. Tommaso sosteneva infatti che la molteplicità e distinzione delle cose create sono il segno della somiglianza del creato con Dio[1]. Inoltre tutte le cose, nella dialettica potenza-atto, sono in movimento verso Dio[2]: l’uomo solo, dotato di intelletto e volontà, possiede (a differenza delle forme inferiori della creazione - piante, animali - e di quelle superiori - angeli) la libertà di scelta. Così si spiega la storia: l’uomo tende al bene, ma può scegliere beni particolari. Quindi ogni uomo empirico realizza il suo essere compiendo certe scelte, caratterizzandosi secondo un certo habitus (carattere).
D. avverte a tal punto questa “individuazione”, che concepisce un’aldilà in cui gli uomini mantengono per sempre il segno del loro habitus. Di qui anche il fascino della Commedia: le anime non sono fredde allegorie dei peccati, ma vivi caratteri. Per far questo, si trattava di superare un ostacolo teologico: fino al giudizio universale manca il corpo (e le relative sensazioni) e non è data sorte eterna. Su quest’ultimo punto, D. accetta l’idea di Tommaso per cui sorte eterna è data alla morte e il giudizio universale accresce lo stato; sul primo punto va oltre Tommaso, inventando le ombre (anime, con un corpo d’aria, in grado di sentire gioie e dolori).
Questa individuazione delle anime (per cui esse restano segnate dalla loro vicenda terrena) è estranea alla tradizione delle visioni d’oltretomba (la personalità individuale è annullata; esistono piuttosto freddi cataloghi secondo le specie dei peccati). Forse unico modello è la Didone virgiliana, che mantiene il suo dolore (la sua individualità) nell’oltretomba.
A tale individualità si adatta l’espressione linguistica (corrispondente alla condizione del personaggio), cosiccome si adatta il paesaggio, che non è mai visto come aggiunta lirica, ma è fortemente compenetrato con la situazione etica (fisica ed etica non sono divise).

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[1]"...quia per unam creaturam sufficienter repraesentari non potest, produxit multas creaturas et diversas, ut quod deest uni ad repraesentandam divinam bonitatem, suppleatur ex alia." (Summa theologica I, 47, 1) (p. 76).
 
[2]per appetitus naturalis (piante), appetitus sensitivus (animali), voluntas (uomini). Vedi anche Paradiso  a cura di Sapegno, canto I, nota 109.
 

 
 

mercoledì 26 agosto 2015

Bonito Oliva e il latino maccheronico


Ho letto di recente (non ricordo più se su un quotidiano o su qualche rivista) la citazione, da parte di Achille Bonito Oliva, di una famosa frase latina, precisamente l’apostrofe con cui Cicerone invita Catilina a non abusare oltre della pazienza dei suoi concittadini. Bonito Oliva rivolge la stessa apostrofe a Salvini e cita così: “Usque tantum, Salvini, abutere patientiae nostrae?”

Ora, non tutti sono tenuti a conoscere il latino, ma chi lo usa (in particolare, se si tratta di un critico autorevole come Bonito Oliva) non dovrebbe commettere simili strafalcioni e, quanto meno, cercare in rete l’espressione corretta: Cicerone non dice “tantum”, che significa “soltanto”, ma “tandem”, che significa “infine”; e il verbo “abutor” regge l’ablativo (“patientia nostra”) non il genitivo (“patientiae nostrae”). Dunque l’espressione corretta, adattata a Salvini, dovrebbe suonare così:

“Quousque tandem, Salvini, abutere patientia nostra?”, e cioè “Fino a quando infine, Salvini, abuserai della nostra pazienza?”

Sul positivismo

Il positivismo sociale ed evoluzionistico
 
 
Positivo è ciò che è dato, sperimentabile, reale; quindi positivista è il metodo (induttivo) delle scienze sperimentali (di contro a un metodo deduttivo e a conoscenze non sperimentalmente fondate).
Distinguiamo un positivismo sociale (proprio della prima metà del secolo) e un positivismo evoluzionistico (proprio della seconda metà). Il primo (da Saint Simon: 1822, Il catechismo degli industriali; a Comte: 1830, Corso di filosofia positiva) vuole trasporre in tutti i campi (in particolare, nell’organizzazione della società) il metodo della scienza (che non ricerca - metafisicamente - cause prime, né fini ultimi, ma rileva le costanti, vale a dire le leggi che regolano i fenomeni): per cui la sociologia diventa una sorta di fisica sociale. E’ il metodo proprio (secondo Comte) dello stadio positivo, quando l’umanità ha superato sia lo stadio teologico (gli eventi si spiegano con volontà antropomorfiche) che quello metafisico (la spiegazione è data da forze, essenze).
Il concetto di progresso (già presente nel positivismo sociale: si presume uno sviluppo dell’umanità dalle fasi religioso-mistiche a quelle positivo-scientifiche della conoscenza e dell’organizzazione politica e sociale) è più chiaramente fondato nel positivismo evoluzionista. La teoria dell’evoluzione progressiva da una specie all’altra aveva già avuto anticipazioni nel ’700 (nel 1809, la Filosofia zoologica di Lamarck poneva in luce le connessioni fra variazioni organiche e adattamento all’ambiente). Ma solo quando Darwin (L’origine delle specie, 1859) ne dà conferme sperimentali (integrando la questione coi concetti di lotta per l’esistenza, selezione naturale e trasmissione per ereditarietà delle variazioni determinatesi per l’adattamento all’ambiente), la teoria dell’evoluzione diventa una sorta di metafisica del positivismo (è il principio che può spiegare tutta la realtà, in divenire progressivo).
In campo filosofico è Spencer che (andando oltre Darwin) teorizza l’evoluzione (dall’omogeneo all’eterogeneo, dal semplice al complesso, dal disorganico all’organico) come principio universale che governa tutto ciò che esiste (dalla materia cosmica alla psiche umana). In campo politico e sociale ci sono due modi - antitetici - di assumere l’evoluzionismo: quello socialista (Marx intendeva dedicare a Darwin, che rifiutò, il primo volume del Capitale), che ci vede la conferma della modificabilità storica di ogni istituzione politica ed economica (e quindi, del proprio ottimismo progressista); e quello capitalista, che ci vede la legittimazione della competitività e del liberismo economico (e quindi la giustificazione delle differenze sociali, in nome della “selezione naturale” dei migliori).
 
 

Lo scambio di epigrammi fra Foscolo e Monti

Siccome Monti aveva tradotto l’Iliade senza conoscere il greco (e quindi servendosi di traduzioni già esistenti), Foscolo gli dedicò il seguente epigramma:
 
Questi è Vincenzo Monti cavaliero,
gran traduttor dei traduttor d’Omero.
 
Ma Monti, abilissimo versificatore, rispose con un epigramma altrettanto ironico e se vogliamo ancor più cattivo:
 
"Questi è il rosso di pel Foscolo detto
Sì falso che cangiò fino se stesso
Quando in Ugo cangiò ser Nicoletto;
Guarda la borsa se ti vien dappresso"
 
A parte il riferimento ai capelli rossi (che comunque nella credenza popolare sono associati alla perfidia), Monti accusa Foscolo di essere falso (si chiamava Nicolò e aveva cambiato il proprio nome in Ugo) e, soprattutto, di essere sempre alla ricerca di danaro (è un fatto che Foscolo fosse spendaccione e dedito al gioco d’azzardo).

martedì 25 agosto 2015

Carducci: la vita e l'opera

Carducci
 
1835 - Nasce in Versilia (Val di castello, LU); ma la terra della sua infanzia è la Maremma, ove vive dal 1839 al 1849, in quanto la famiglia si era trasferita a Bolgheri (il padre era medico condotto: coinvolto nei moti carbonari del 1831, era stato condannato a un anno di carcere e ad uno di domicilio coatto);
1849-59 - è a Firenze, dove studia e si laurea (in Filosofia e Filologia); fonda la “Società degli Amici Pedanti”, all’insegna della restaurazione del classicismo e contro quel “mollichiccio e tenerume, più degno invero d’un popolo di eunuchi che non di robusti e dignitosi italiani”;
1860 - aderisce alla massoneria; è nominato professore di Eloquenza Italiana all’università di Bologna; terrà la cattedra fino al 1904 (anche se nel 1868, a seguito delle sue prese di posizione anticlericali ed antigovernative, viene sospeso per due mesi dall’insegnamento e dallo stipendio);
1890 - è nominato senatore del regno (dopo che, nel 1876, era stato candidato repubblicano nel collegio di Lugo; come causa, si può pensare al mutato atteggiamento della massoneria nei confronti della monarchia, ma anche alle sue personali simpatie per la regina Margherita, o più semplicemente al fatto che si nasce incendiari e si muore pompieri); sostiene la politica coloniale di Crispi;
1906 - ottiene il Nobel;
1907 - muore.
Vive quindi negli anni che vanno dalla 2ª guerra d’indipendenza in poi. Repubblicano e anticlericale, sente traditi gli ideali mazziniani (popolari) dalla realtà politica post-unitaria; avversa le soluzioni moderate e monarchiche (ad esempio, circa la questione romana: polemizza contro il governo, che è incapace di una soluzione drastica, e che ferma Garibaldi ad Aspromonte e a Mentana).
Di questo clima risentono particolarmente i Giambi ed Epodi (poesie scritte fra il 1867 e il 1879: il titolo allude già, con il riferimento ad Archiloco ed Orazio, alle forme metriche dell’invettiva: e infatti qui C. sfoga le sue ire contro l’Italietta vile e corrotta del presente, che ha dimenticato la tensione eroica del Risorgimento, contro l’oscurantismo della Chiesa e la tirannide papale) e l’Inno a Satana (del 1863, pubblicato nel 1865 con lo pseudonimo di Enotrio Romano: Satana rappresenta il libero pensiero, e la locomotiva è vista come la “diabolica” forza del progresso destinata a spazzare via la superstizione religiosa).
Le prime raccolte (Iuvenilia, 1850-60; Levia gravia, 1861-71) sono poco più che esercizi di apprendistato poetico (lo “scudiero dei classici” riproduce temi e metri della grande tradizione italiana, da Dante e Petrarca sino a Monti e Foscolo). La sua poetica è intransigentemente classica in due sensi: sul piano dei contenuti, in contrapposizione al sentimentalismo, ai languori, alla “effeminatezza” della seconda stagione romantica (ma anche alla rassegnazione cristiana di un Manzoni), la poesia deve essere “virile”, esprimere una visione della vita operosa, positiva, “solare[1] e “sana[2] (e il poeta è un “vate” che anima i concittadini, è un “grande artiere” che forgia spade e scudi per la libertà); sul piano della forma, contro la poesia flaccida dei moderni, linguisticamente depauperata, contro la eccessiva facilità espressiva, quel “manzonismo degli stenterelli” che si esercita particolarmente nel genere, inferiore, del romanzo, la poesia deve recuperare il suo tono alto, deve essere frutto di un lavoro (metrico e linguistico) faticoso e sapiente.
Più interessanti sono le raccolte Rime nuove (1861-87), Odi barbare (1877-89), Rime e ritmi (1887-99: contiene soprattutto grandi odi celebrative, come Piemonte, Alla città di Ferrara, di un’eloquenza sonora, roboante; sono quelle che consacrarono C. poeta ufficiale dell’Italia umbertina): si affievolisce l’impeto polemico e si hanno, accanto a poesie di rievocazione storica - si tratta di una rievocazione nostalgica, ed “evasiva” rispetto alla mediocrità del presente, di momenti in cui si esprimono democrazia diretta e grande tensione ideale: particolarmente della Roma repubblicana, come in Dinanzi alle terme di Caracalla, Nell’annuale della fondazione di Roma, Alle fonti del Clitumno; del Medio Evo comunale, come in Il comune rustico, Faida di comune (o nella Canzone di Legnano, che però sta a sé); della fase eroica della Rivoluzione francese, come nei dodici sonetti di Ça ira - poesie di ripiegamento interiore, ove emergono momenti di sconforto, tedio esistenziale (Alla stazione in un mattino di autunno: in questo caso si può parlare addirittura dello “spleen” baudelairiano), angoscia per l’incombere della morte (Nevicata), memoria struggente degli anni dell’infanzia e della giovinezza (Traversando la maremma toscana, Davanti San Guido, Idillio maremmano).
 
 
 


[1]L’atmosfera di piena luminosità (meridiana) è propria di tante poesie: si pensi, ad es., al Comune rustico  o, per contrasto, ad Alla stazione in un mattino d’autunno (la cui “diversità” è ben evidenziata da tutta una serie di termini - foschi, nero, ombre, buio, tenebra, ecc. - che evocano l’oscurità: e la stazione sembra un regno dei morti, cui si contrappone, nel ricordo, la gioia vitale associata al “giovine sole di giugno” ).
 
[2]L’aggettivo è quanto mai appropriato, se si pensa che Croce lo adottò per indicare in lui l’ultimo vero poeta,  immune dalla “malattia” che incombeva sulla poesia di fine secolo, e poi di tutto il Novecento (ovviamente, la presunta “malattia” era nient’altro che l’emergere della nuova sensibilità decadente). Ma Praz ha mostrato che anche Carducci ne è contagiato, e si aggrappa a un sogno di sanità classica e pagana solarità solo per esorcizzare le inquietudini e le angosce che lo assillano.