venerdì 7 agosto 2015

La parabola della borghesia nei Promessi sposi

La parabola della borghesia nei Promessi Sposi
 
G. F. VENE', Capitale e letteratura,
Garzanti 1974, pp. 74-99.
 
Renzo e Lucia sono popolani solo all’apparenza (l’aveva già notato, nel 1931, F. Crispolti, con l’immediato assenso di Gramsci): Renzo infatti, all’inizio del romanzo, è proprietario di un poderetto e di un mestiere qualificato (tessitore); alla fine del romanzo investe il capitale (gli scudi dati a Lucia dall’Innominato, più il ricavato della vendita del terreno all’erede di don Rodrigo - che ha pagato generosamente) nell’acquisto di un filatoio in società col cugino Bortolo e diventa un piccolo industriale, dal quale dipendono altri operai. Dunque Renzo è pienamente inserito nella logica del liberalismo economico (e del resto Manzoni, quale romantico lombardo, esprime gli interessi della nascente borghesia imprenditoriale).
Senonché Manzoni avverte la contraddizione per cui quella classe non esprime gli interessi della collettività, ma i suoi propri, riproducendo una logica egoistica di conservazione dei privilegi acquisiti; così Renzo, sistematosi economicamente, non solo deve vincere gli ostacoli tipici della mano d’opera (“la scarsezza dei lavoranti e le pretensioni dei pochi ch’erano rimasti”; ma questi erano quegli stessi fattori che, all’inizio del libro, garantivano che Renzo avesse “di che vivere onestamente”, grazie alle buone paghe assegnate dagli imprenditori “a quelli che rimanevano in paese”); ma, soprattutto, Renzo si chiude nel suo privato, incurante della vita sociale: di qui la rassegnata desolazione che si avverte nel finale.
L’alternativa è quella di individui eccezionali (quali il cardinale Borromeo o l’Innominato) capaci di sacrificare totalmente se stessi per la collettività: ma la loro azione è limitata a sanare alcuni casi, senza una reale efficacia nei riguardi dell’organismo sociale; ed è impossibile non accorgersi del tono rassegnato con cui Manzoni, dopo aver celebrato le virtù del Cardinale o dell’Innominato, constata che la società è rimasta qual era prima del loro intervento.
 
L’originalità di questa interpretazione consiste nell’attribuire a Manzoni un atteggiamento critico nei confronti delle conclusioni cui arriva Renzo nel finale. I famosi “ho imparato”, con cui Renzo enuncia la dottrina del rifiuto della politica, non sarebbero il positivo che Manzoni vuole insegnare ai suoi lettori (come gli hanno sempre imputato i suoi critici “laici”: si vedano, ad esempio, Gramsci e Moravia), ma il negativo di cui Manzoni prende atto con “desolata rassegnazione”.
  

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