lunedì 17 agosto 2015

Ulisse in Pascoli

 

Il sonno di Odisseo (dai Poemi conviviali)

 
Partendo del testo omerico (Odissea, X) che racconta in pochi versi del momento in cui, dopo nove giorni di navigazione, i compagni di Ulisse, invidiosi delle ricchezze che presumono che lui stia portando ad Itaca, aprono gli otri in cui Eolo aveva benevolmente rinchiusi i venti contrari alla navigazione, Pascoli costruisce un poemetto (sette strofe) carico di significati allusivi ed inquietanti (come è proprio della sua sensibilità). Ulisse vede all’orizzonte “non sapea che nero: nuvola o terra?”, ma sfinito si addormenta. Le strofe che seguono (collegate da precise simmetrie, richiami e parallelismi) descrivono l’avvicinarsi della nave all’isola e, come in una ripresa cinematografica, il comparire del porcaro Eumeo intento al suo lavoro, dell’”eccelsa casa” di Ulisse (da cui si sente provenire il suono del “garrulo telaio” di Penelope), di Telemaco che aspetta nel porto appoggiato alla lancia “dalla bronzea punta”, del cane Argo che corre scodinzolando, di Laerte che interrompe il lavoro dei campi per guardare “l’infinito mare” appoggiato alla marra. Ma poi gli otri vengono aperti, la nave è trascinata lontano, Odisseo si sveglia e vede ancora quel “non sapea che nero”. Dunque è tutto un sogno, o almeno così sembra: le immagini appaiono in una loro fissità a-temporale (come è proprio del ricordo e del sogno) e il preciso parallelismo fra il momento dell’addormentamento e quello del risveglio fanno pensare che l’unica cosa reale che Ulisse vede sia quel “non sapea che nero” (allusione al male, alla morte?) e che tutto ciò che sta nel mezzo sia la visione sognata (espressione di un desiderio che mai si realizza, sempre sfugge?)
 

Il ritorno (da Odi e inni)

 
Ulisse, accompagnato dai Feaci, sbarca ad Itaca. Dorme, viene depositato sulla spiaggia insieme a tutti i suoi beni e i Feaci ripartono. Quando l’eroe si sveglia, crede di essere stato ingannato, perché non riconosce in quella terra aspra e rocciosa la sua Itaca, l’isola dei suoi ricordi, della fonte Aretusa, dell’antro delle ninfe, degli alberi fioriti. E’ una fanciulla che viene alla fonte per lavare le vesti a rivelargli che quella è proprio Itaca, e lo invita a guardare la trasparenza dell’acqua per riconoscere che quella è proprio la fonte Aretusa. Ulisse guarda, si specchia nella fonte, vede se stesso vecchio e rugoso, stenta a riconoscersi. Con amarezza capisce che non è l’isola ad essere cambiata, ma lui stesso (“Io era, io era mutato! / Tu, patria, sei come a quei giorni! / Io, sì, mio soave passato, / ritorno, ma tu non ritorni…/”). La gloria e la bellezza sono nel ricordo, non esistono più; il presente è la triste banalità del quotidiano. Nel finale, il coro delle ninfe lo invita a mordere il fiore del loto: solo così troverà la serenità e potrà rivedere, in sogno, le vicende irrevocabili del passato.
 

L’ultimo viaggio (dai Poemi conviviali)

 
Il vecchio Ulisse è stanco della vita in Itaca, vuole riprendere il mare insieme ai vecchi compagni (che lo hanno sempre aspettato, tenendo pronta la nave) al pitocco Iro e all’aedo Femio; vuole rivedere i luoghi indimenticabili del passato, rivivere le proprie avventure, accompagnato dal canto eternatore dell’aedo. Ma ciò che la prima volta era sembrato grande ed eroico si rivela ora banale e quotidiano. All’isola di Circe non si sentono i leoni che ruggiscono, né si sente il canto della maga, se non di notte, come in sogno. L’aedo muore, e la sua cetra resta appesa a un albero. All’isola di Polifemo non ci sono ciclopi, ma, in quello che fu l’antro del gigante, solo un pastore che li accoglie ospitale; dice di non avere mai visto ciclopi, ma bensì l’occhio rosso di un monte (un vulcano) che faceva piovere (eruttava) pietre nel mare. All’isola delle sirene, dove l’eroe vorrebbe ora sentire quel canto senza essere legato da funi all’albero maestro, non vede altro che scogli, dall’aspetto di sirene, verso cui una corrente “rapida e soave” trascina la nave. Ulisse vorrebbe sapere la verità su se stesso e sul senso della vita (“Son io! Son io, che torno per sapere!”), anche a costo di aggiungere le sue alle altre ossa che biancheggiano sugli scogli (“Solo mi resta un attimo. Vi prego! / Ditemi almeno chi son io! Chi ero!”) . Sugli scogli si sfascia la nave di Ulisse, ma le onde del mare lo trasportano fin sulla spiaggia dell’isola di Calypso, la Nasconditrice. La dea (l’unica che dunque esiste veramente) ritrova morto l’uomo che rifiutò il suo amore e rifiutò l’immortalità che lei gli offriva, per ritornare al mare e al suo dolore. Ed è lei che svela l’attesa verità: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, / ma meno morte, che non esser più!”; il segreto è il non essere mai nato; questo, rispetto alla morte, al “non esser più”, è un nulla maggiore, un “più nulla”, ma meno doloroso della morte, “meno morte”, in quanto esclude l’attraversamento della vita, l’esperienza del dolore e, soprattutto, la coscienza del nulla da cui si emerge e in cui si precipita).
E dunque il vecchio Ulisse è come un Don Chisciotte cui Sancho Panza mostra l’inconsistenza dei suoi sogni: non sirene, ma scogli, non il ciclope, ma un vulcano (non i giganti, ma i mulini a vento). La vita eroica è pura illusione, esiste nel canto degli aedi, nel sogno, nel ricordo; nella vita reale esiste la banalità del quotidiano, incapace di riempire di senso la vita. Ma d’altra parte non c’è altro senso che quello rivelato da Calypso, ed è la terribile verità della sapienza silenica.
 
 

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