mercoledì 19 agosto 2015

La poesia dialettale: Belli

Belli conservatore
 
U. CARPI, Il poeta e la politica,
Liguori 1978, pp. 33-47.
 
Si tenta, nei confronti di Belli, un’operazione analoga a quella che si fa con Leopardi: visto che non lo si può abilitare come progressista-riformista rispetto ai suoi tempi, lo si vuole recuperare come rivoluzionario ante litteram, non subalterno al progetto borghese (che, nell’Ottocento, prende la forma del patriottismo risorgimentale).
In realtà, analogamente agli intellettuali della sua generazione (come Berchet), anche Belli si identifica con la classe sociale di mezzo, resta affascinato (attorno al ’30, all’epoca dei viaggi) dai fermenti politici e culturali di Milano. Ciò nonostante sarebbe una illazione (non confermabile) ritenere che la sua poesia dialettale esprima istanze progressiste, in sintonia con le aspirazioni della borghesia (ed ovviamente di quella settentrionale, che è trainante).
La sua poesia esprime invece una ideologia conservatrice, basata sulla convinzione di fondo che la società sia sostanzialmente immodificabile: e questo, perché si ritrova a vivere in una società, quale quella romana, priva di una vera borghesia (cioè di una “middle class” che non sia burocratico-impiegatizia, ma in grado di svolgere “un progetto alternativo di sviluppo economico-sociale ”), e quindi divisa fra i due estremi del Potere (che qui, con il suo aspetto teocratico, appare ancor più immodificabile) e della plebe (che si lagna, ma resta convinta dell’ineluttabilità del suo destino).
E in questa accettazione del dato sociale come dato naturale la visione del mondo di Belli si rivela subalterna alla struttura pre-capitalistica dello Stato papale.
 
La tesi è evidentemente polemica nei confronti di Asor Rosa; si vuol sostenere che la poesia di Belli è tout court espressione di una ideologia conservatrice (tale è l’approdo di un uomo che, nel periodo milanese, aveva concepito delle speranze, ma poi è deluso dalla realtà sociale in cui si trova a vivere); mistificante è invece attribuirle una valenza rivoluzionaria, guardandola col senno di poi, staccandola dal suo contesto storico, dal suo concreto farsi.
A me pare che siamo daccapo, come con Leopardi (e come con Verga): non si nega che dietro quell’opera ci sia una visione conservatrice; ma come negare l’efficacia dirompente di tale visione, in quanto demistifica le illusioni progressiste? In quanto mostra che fra la  inaccettabile situazione esistente e la “felicità” c’è un abisso non colmabile da un progressivo passaggio? E di quell’abisso Belli, Leopardi, Verga sono testimoni fedeli, a fronte della falsificazione attuata dai progressisti loro contemporanei.
 
 

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