venerdì 7 agosto 2015

Caratteri della tragedia manzoniana

Nuova moralità della tragedia manzoniana

 
Esisteva una condanna della immoralità della tragedia, in quanto eccitatrice di passioni. Per Manzoni tale immoralità deriva dalla sua particolare verisimiglianza, determinata dalla sua fedeltà alle, presunte, unità aristoteliche (di luogo e di tempo): si produce così una sorta di identificazione fra tempo dello spettatore e tempo dell’azione scenica, identificazione che induce al coinvolgimento emotivo (e inibisce la riflessione critica).
Liberarsi dalle unità pseudo-aristoteliche vuol dire favorire un processo di estraniazione nello spettatore, che diventa giudice (e non più “complice”) dell’azione; e l’idea del coro come commento esterno all’azione (del resto già di A. W. Schlegel[1]) è ulteriore testimonianza di tale intenzione (di fare dello spettatore un giudice estraniato)[2].
L’argomento, poi, non saranno le passioni amorose, ma il mistero cristiano del dolore incolpevole patito dal giusto, di cui Cristo è l’archetipo (dell’eroe innocente, che è quindi figura Christi: sarà Carmagnola o Adelchi o Ermengarda): perché questo è il messaggio più alto che il cristiano possa assumere dalla storia. 
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[1]Nelle sue Lezioni sull’arte e la letteratura drammatica  (tenute a Vienna fra il 1809 e il 1811) c’è anche il rifiuto delle unità pseudo-aristoteliche; tale rifiuto (specificamente, come in Manzoni, delle unità di tempo e di luogo) sarà poi ripreso da V. Hugo, in quell’altro “manifesto” del romanticismo europeo che è la Prefazione al Cromwell  (1827).
[2]Si noti come tale atteggiamento ricordi l’“effetto di estraniazione” (VerfremdungsEffekt) predicato da Brecht.

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