La poesia di Montale
Premessa
1.
Presentare Montale non è impresa facile,
sia perché non si tratta di un poeta di
facile comprensione, sia perché ci sono diversi momenti nella sua produzione, diversi pur nella persistenza
di una tematica di fondo. Io ho cercato di delineare un percorso, che in
qualche modo dia conto di questi diversi momenti, e l’ho fatto sostenendo il
mio discorso con la lettura di alcune poesie, scelte, a mio giudizio, fra le
più belle e significative – e ovviamente, per necessità di tempo, trascurandone
altre, altrettanto belle e significative.
2. Leggo
le poesie e cerco di spiegarle letteralmente e di interpretarle. L’impresa,
dicevo, non è sempre facile. A volte ci
aiuta lo stesso Montale, il quale, appositamente interpellato, ha fornito
dei chiarimenti sul senso di alcuni versi e di alcune immagini. Altre volte la comprensione letterale e
l’interpretazione allegorica a me sembrano totalmente affidate al lettore.
Una
linea che parte da Pascoli…
3.
Montale è un poeta che si colloca
pienamente nella tradizione poetica del nostro Novecento, nel senso che non è
difficile riconoscere nella sua poesia ascendenze
che rimandano ai due maestri della poesia italiana del Novecento, ovvero
Pascoli e D’Annunzio.
4.
Dico Pascoli, ma meglio dovrei dire
quella linea che congiunge Pascoli ai poeti crepuscolari e che si caratterizza
per la predilezione delle cosiddette
“piccole cose”, per l’introduzione in poesia di cose, oggetti
tradizionalmente esclusi, in quanto appartenenti alla realtà “bassa”, alla
quotidianità, e quindi indegni della “altezza” della poesia. Pascoli, in una
lettera del 1899 al pittore Antony de Witt, indicava in questo
modo l’intenzione di estendere il diritto di cittadinanza in poesia a tutti gli
elementi della realtà: “Le anime e le
cose, sieno esse grandi o piccole, buone o cattive, belle o brutte, hanno tutte
un quid poetico in esse celato, celato più o meno: il poeta ve lo coglie e ne
fa la poesia: come l’ape che, sia il fiore amaro o dolce, grande o piccolo, sia
trifoglio o rosa, vistoso o umile, ne estrae sempre quel miele.”
5.
E’ un pensiero perfettamente coerente con la
cosiddetta “poetica del fanciullino”:
il poeta è un fanciullo, e dunque è attratto ed emozionato non solo da ciò che
è grande e vistoso, ma anche da ciò che è piccolo ed apparentemente insignificante.
6.
Chi conosce la poesia di Pascoli sa bene
come gli elementi che costituiscono il paesaggio della campagna, ma anche le
piccole cose, gli oggetti della vita quotidiana siano sempre nominati con
precisione: gli alberi non sono mai genericamente alberi, ma meli, peri,
ciliegi, faggi, ecc.; gli uccelli non saranno uccelli, ma puffini, tordi,
cinciallegre, ecc.. Del resto si pensi che Pascoli ha dedicato un poemetto alla piadina, un altro al bucato…
7.
Certo, nella poesia di Pascoli c’è
dell’altro, Pascoli è un visionario,
sente come pochi altri la contiguità fra il mondo dei vivi e il mondo dei
morti, dietro le piccole cose si nascondono sensazioni e sentimenti
inquietanti. Ma questa sua predilezione per il tono basso della poesia ha fatto
scuola, i poeti crepuscolari, in polemica antidannunziana, lo riprendono e lo
esasperano.
…
passa per Gozzano
8.
Se Pascoli aveva parlato del trifoglio
per rivendicare la dignità poetica delle piccole cose, Gozzano, il più
significativo dei crepuscolari, va ancora più in là. Sentite questi versi
tratti da La signorina Felicita:
Sei
quasi brutta, priva di lusinga
nelle
tue vesti quasi campagnole,
ma
la tua faccia buona e casalinga,
ma
i bei capelli di color di sole,
attorti
in minutissime trecciuole,
ti
fanno un tipo di beltà fiamminga...
E
rivedo la tua bocca vermiglia
così
larga nel ridere e nel bere,
e
il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto
sparso d'efelidi leggiere
e
gli occhi fermi, l'iridi sincere
azzurre d'un
azzurro di stoviglia...
Tu
m'hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva
una blandizie femminina.
Tu
civettavi con sottili schermi,
tu
volevi piacermi, Signorina:
e
più d'ogni conquista cittadina
mi
lusingò quel tuo voler piacermi!
Ogni
giorno salivo alla tua volta
pel
soleggiato ripido sentiero.
Il
farmacista non pensò davvero
un'amicizia
così bene accolta,
quando
ti presentò la prima volta
l'ignoto
villeggiante forestiero.
Talora
- già la mensa era imbandita -
mi
trattenevi a cena. Era una cena
d'altri
tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia
semplice e fiorita
e
il commento dei cibi e Maddalena
decrepita,
e la siesta e la partita...
Per
la partita, verso ventun'ore
giungeva
tutto l'inclito collegio
politico
locale: il molto Regio
Notaio,
il signor Sindaco, il Dottore;
ma
- poiché trasognato giocatore -
quei
signori m'avevano in dispregio...
M'era
più dolce starmene in cucina
tra
le stoviglie a vividi colori:
tu
tacevi, tacevo, Signorina:
godevo
quel silenzio e quegli odori
tanto
tanto per me consolatori,
di
basilico d'aglio di cedrina...
Maddalena
con sordo brontolio
disponeva
gli arredi ben detersi,
rigovernava
lentamente ed io,
già
smarrito nei sogni più diversi,
accordavo
le sillabe dei versi
sul
ritmo eguale dell'acciottolio.
9.
Al di là del trifoglio pascoliano, per
rimanere al mondo vegetale, ci sono le piante
da cucina, il basilico, l’aglio, la cedrina. E ci sono anche, con
tutt’altro valore rispetto a Pascoli, le piccole cose della quotidianità: il gatto, la falena, le stoviglie…
10.
Montale
amava Gozzano, diceva di lui che era stato “il primo che abbia dato scintille facendo
cozzare l’aulico col prosaico ”, in quanto “fondò la sua poesia sull’urto, o choc, di una materia psicologicamente
povera, frusta, apparentemente adatta ai soli toni minori, con una sostanza
verbale ricca, gioiosa, estremamente compiaciuta di sé ”. Fare cozzare
l’aulico col prosaico, è una modalità, vedremo, propria anche di Montale:
Gozzano lo fa continuamente, ad esempio, nella strofa in cui descrive la
bellezza “quasi campagnola” di
Felicita, accosta – nel luogo della rima, dove il rilievo è maggiore – una
parola della quotidianità come “casalinga” ad una parola, “fiamminga”,
che evoca un riferimento coltissimo alla pittura; ma anche sotto, le “iridi
sincere” degli occhi sono accostate
all’azzurro delle stoviglie. Ma sentite anche questa strofa:
Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi.... E non mediti Nietzsche....
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda....
11.
La scintilla scocca grazie
all’accostamento, in rima, fra una parola del lessico quotidiano come “camicie”
e il nome di un filosofo di altissimo livello (Nietzsche).
…
e arriva a Montale: I limoni
12.
Ebbene, se c’è una poesia di Montale che
senz’altro rivela, proprio nell’incipit, l’appartenenza dello stesso a questa
linea che va da Pascoli ai crepuscolari, è I limoni, nella prima raccolta, Ossi di seppia (1925-28):
Ascoltami, i
poeti laureati
si muovono
soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le
gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.
Vedi, in
questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
Ma
l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.
13.
La polemica contro i “poeti laureati” (quelli cinti da una corona di alloro, quelli con
la voce forte e chiara, come Carducci o D’Annunzio) si concretizza nel
riferimento a piante rare e illustri (altro che il trifoglio di Pascoli o il
basilico, l’aglio e la cedrina di Gozzano): a tali piante Montale oppone gli “erbosi
fossi”, i “ciuffi delle canne” e
gli “alberi dei limoni”.
I
limoni:
la tematica
14.
Ma è una poesia, questa, che già enuncia
pienamente la tematica cara a Montale. Montale avverte un senso di estraneità rispetto al mondo circostante,
si sente in “disarmonia” o “inadatto”
(sono parole che usa lui stesso; e aggiunge anche: mi sentivo come rinchiuso in una “campana di vetro”).
Il mondo fenomenico, nel quale viviamo, gli pare falso, inautentico, eppure è il mondo che ci contiene, come una
prigione dalla quale non si può evadere. Non a caso sono spesso nominati
oggetti che indicano la chiusura, l’impedimento, il muro in particolare: “l’erto
muro” in In limine, lo “scalcinato muro” in Non chiederci la parola, la “muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” in Meriggiare pallido e assorto, “la
rete che ci stringe” ancora in In
limine; e si potrebbe continuare.
15.
Ma ci sono occasioni, momenti miracolosi, in cui sembra aprirsi uno squarcio,
sembra rompersi la rete che ci imprigiona, ed è possibile, per un momento, attingere ad una verità profonda, entrare
in una dimensione di autenticità e sentirsi finalmente in armonia. Vedere il
giallo dei limoni e sentirne l’odore è uno di questi momenti (questo il senso
delle strofe 2 e 3).
16.
Ma è un momento precario, destinato a
venir meno. Tale è il senso del passaggio
dalla campagna alla città e dalla stagione estiva a quella invernale: nell’inverno
cittadino si ricompone l’inganno usuale della realtà fenomenica, un inganno
rotto occasionalmente dalla vista, “tra
gli alberi di una corte” del giallo dei limoni.
I
limoni:
il linguaggio e il “correlativo oggettivo”
17.
Qualche osservazione sul linguaggio.
Anche Montale, come Gozzano, ama far cozzare l’aulico col prosaico: agli elementi della quotidianità (si
pensi ad esempio ad una espressione propria del parlato quale “Io, per me, amo le strade…) sono associate parole o espressioni colte o
rare: sparuta (l’anguilla) susurro (con una esse sola), piove (usato transitivamente), divertite (è un latinismo), cimase (parola già in Pascoli e
Gozzano), s’affolta (per s’addensa). Anche
la sintassi, pur abbastanza lineare, non è priva di ricercatezza: oltre al piove usato transitivamente, sottolineo
il ricorrere dell’anastrofe (agguantano i
ragazzi, si ascolta il susurro, … tace la guerra, ci riporta il tempo,
s’affolta il tedio, ecc.)
18.
Ma Montale è anche molto attento alla
musicalità, al livello fonico della poesia: i richiami in rima sono frequenti,
non solo a fine di verso, ma anche interni (laureati,
usati; dolcezza, ricchezza; indaga, dilaga; umana, allontana); notevole la
rima in chiasmo al v. 42 (avara, amara,
con richiamo fonico anche con anima).
Ma i legami fonici sono anche dati da assonanze e consonanze (piante, acanti; muove, odore; portone, corte).
19.
A me non sembra casuale anche l’uso
nelle prime strofe di parole dal suono
duro, aspro, quasi a significare, sul piano fonico, l’asprezza del vivere:
tali sono le ricorrenti parole con la doppia zeta (pozzanghere, mezzo, ragazzi, viuzze, gazzarre, azzurro) affiancate
ad altre dal suono altrettanto duro (seccate,
agguantano, ciuffi).
20.
Ma notiamo già un’altra caratteristica
della poesia di Montale: è una poesia
“di cose” – ha detto un critico – non
“di parole”, e voleva dire che quella di Montale non è una poesia della
parola pura, della parola unica e significativa che emerge dal silenzio, come
per Ungaretti, che appunto isola la parola nel verso perché esprima appieno
l’intensità del suo significato. Montale
nomina cose, oggetti concreti (li nomina con precisione, in questo è
pascoliano), rifugge, per quanto possibile, dalle astrazioni. Gli oggetti
diventano così gli emblemi, o meglio, per usare un’espressione tratta da Eliot,
il “correlativo oggettivo” del suo
stato d’animo, del suo sentire. Qui, ad esempio, gli erbosi fossi, le pozzanghere,
l’anguilla, i ciuffi della canne, gli alberi
dei limoni; e poi più avanti l’anello
che non tiene, il filo da
disbrogliare, ecc.).
Il
“correlativo oggettivo”: Spesso il male
di vivere ho incontrato
21.
E’ una caratteristica che vediamo bene
in un’altra poesia, fra le più famose, Spesso il male di viere ho incontrato:
Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
22.
Il male di vivere è rappresentato, nella
prima quartina, con tre “cose” concrete,
tre elementi della natura: il rivo
strozzato che gorgoglia (una strettoia, dove l’acqua del ruscello fatica a
passare, e il suo gorgogliare sembra un lamento), l'incartocciarsi della foglia riarsa (una foglia rinsecchita dal
sole, che si accartoccia, e in questo accartocciarsi c’è la sofferenza
determinata dalla perdita dei fluidi vitali: del resto il motivo dell’aridità, della secchezza, è ricorrente nella poesia
montaliana, particolarmente negli Ossi,
vero e proprio correlativo oggettivo di una condizione esistenziale desolata,
prosciugata e svuotata: la terra
polverosa e seccata dal sole è il luogo della privazione e della negatività.
Lo stesso titolo della raccolta rimanda a questo motivo, visto che gli ossi di seppia non sono che un relitto,
quanto mai inaridito, della vita organica), infine il cavallo stramazzato al suolo evoca con potenza il male di
vivere.
23.
Nella seconda quartina sono indicati i
correlativi oggettivi dell’unico “bene” possibile, ovvero di quella che Montale
chiama “la divina Indifferenza”.
L’indifferenza – con la i maiuscola e detta “divina” perché propria degli dei,
come già sosteneva la filosofia epicurea – ovvero la capacità di non lasciarsi
coinvolgere dalla sofferenza del mondo, di vivere, diceva Epicuro, in
condizione di atarassia, è oggettivata da tre elementi: la statua nella sonnolenza del meriggio (qui compare la figura
umana, ma pietrificata, come lo è la statua, e quindi capace di indifferenza), la nuvola, il falco alto levato (sono elementi che rimandano al cielo, e quindi
ad una distanza rispetto ai mali della terra, del resto non si può non
rilevare l’opposizione fra ciò che sta in alto, e che ha a che fare con la “divina Indifferenza”, e ciò che sta in
basso – gli elementi della prima quartina – e che ha a che fare con il male di
vivere).
24.
Ma si noti anche l’opposizione fra i suoni duri e
aspri della prima quartina (strozzato,
gorgoglia, incartocciarsi, riarsa, stramazzato) e quelli senz’altro chiari e distesi della seconda quartina, in
particolare nell’ultimo verso (…la
nuvola, e il falco alto levato).
Le
occasioni:
il motivo della memoria e la difficoltà di comprensione
25.
Dicevo che la possibilità di fuoriuscire
dalla condizione di inautenticità, di spezzare l’anello che non tiene, di
trovare una smagliatura nella rete che ci imprigiona, è concessa in alcuni
momenti, in alcune occasioni. Un’altra
di queste possibilità è data dalla memoria. La capacità di restare
attaccati ad un ricordo, particolarmente ad un ricordo condiviso, il ricordo di
un episodio felice, di un volto, di una figura femminile significativa, sembra essere la garanzia di avere
afferrato qualcosa che appartiene alla vita vera, autentica, qualcosa che
resiste al logoramento del tempo. E’ un motivo che ricorre nella seconda
raccolta, Le occasioni (1939).
26.
Rispetto agli Ossi, si tratta di poesie di comprensione più difficile, per il
semplice fatto che, mentre negli Ossi
gli oggetti simbolici erano accompagnati, per così dire, da una spiegazione (si
pensi a I limoni o a Spesso il male di vivere…), ne Le occasioni gli oggetti, gli eventi,
compaiono senza alcun chiarimento sul senso della loro presenza, appartengono
alla memoria del poeta, sono legati a vicende della sua vita che, ovviamente,
il lettore non conosce. Del resto è lo stesso Montale che dice di aver pensato
alla poesia come “a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio
senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e
il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto, bisognava esprimere l’oggetto
e tacere l’occasione-spinta”.
La
difficoltà di comprensione: La speranza
di pure rivederti
27.
Per spiegare ancora meglio, ascoltate
questa breve poesia:
La speranza
di pure rivederti
m’abbandonava;
m’abbandonava;
e mi chiesi
se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:
ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:
(a Modena,
tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).
28.
Il senso delle prime due strofe è
abbastanza chiaro, ma decisamente
enigmatica pare la terza strofa, con quel riferimento ad un servo gallonato che
trascina due sciacalli al guinzaglio. Ci ha pensato lo stesso Montale, in
un articolo sul “Corriere della Sera”, a spiegare l’occasione-spinta. Ed ecco
qua: “Un pomeriggio d’estate Mirco si trovava a Modena e passeggiava sotto i
portici. Angosciato com’era e sempre assorto nel suo "pensiero
dominante", stupiva che la vita gli presentasse come dipinte o riflettesse
su uno schermo tante distrazioni. Era un giorno troppo gaio per un uomo non
gaio. Ed ecco apparire a Mirco un vecchio in divisa gallonata che trascinava
con una catenella due riluttanti cuccioli color sciampagna, due cagnuoli che a
una prima occhiata non parevano né lupetti, né bassotti, né volpini. Mirco si
avvicinò al vecchio e gli chiese: "Che cani sono questi?" E il
vecchio secco e orgoglioso: "Non sono cani, sono siacalli". (Così pronunciò da buon settentrionale incolto; e scantonò poi
con la sua pariglia). Clizia amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita
a vederli! Pensò Mirco. E da quel giorno non lesse il nome di Modena senza
associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli. Strana,
persistente idea. Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per
emanazione? Che fossero un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua
decadenza, della sua fine? Fatti consimili si ripeterono spesso; non apparvero
più sciacalli ma altri strani prodotti della boîte à surprise (scatola a sorpresa) della vita: cani
barboni, scimmie, civette sul trespolo, menestrelli, ... E sempre sul vivo
della piaga scendeva il lenimento di un balsamo. Una sera Mirco si trovò alcuni
versi in testa, prese una matita e un biglietto del tranvai (l’unica carta che
avesse nel taschino) e scrisse queste righe: "La speranza di pure rivederti – m’abbandonava; – e mi chiesi se
questo che mi chiude – ogni senso di te, schermo d’immagini, – ha i segni della
morte o dal passato – è in esso, ma distorto e fatto labile, – un tuo
barbaglio." S’arrestò, cancellò il punto fermo e lo sostituì con due punti
perché sentiva che occorreva un esempio che fosse anche una conclusione. E
terminò così: "(a Modena fra i
portici, – un servo gallonato trascinava – due sciacalli al
guinzaglio)". Dove la parentesi voleva isolare l’esempio e suggerire un
tono di voce diverso, lo stupore di un ricordo intimo e lontano. (...) Ho
toccato un punto (un punto solo) del problema dell’oscurità o dell’apparente
oscurità di certa arte d’oggi: quella che nasce da un’estrema concentrazione e
da una confidenza forse eccessiva nella materia trattata.”
29.
Dunque, ecco il senso: la speranza di
rivederti ancora mi abbandonava; mi chiesi se questo schermo di immagini (le
immagini della multiforme realtà quotidiana) che mi impedisce di sentirti e
vederti fosse un presagio di morte oppure ci fosse in esso un segno luminoso (un tuo barbaglio), per quanto debole,
della tua presenza. E questa ambiguità è testimoniata proprio dal ricordo dei
due sciacalli, che il poeta non sa se “fossero inviati da lei, quasi per emanazione”,
quindi fossero un segno della sua presenza, o fossero invece un segno della
decadenza e della fine.
La
casa dei doganieri
Anna degli Uberti (Annetta/Arletta) |
30.
Ma vediamo una delle più note poesie de Le occasioni, La casa dei doganieri:
Tu non
ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza
da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo
ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh
l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende ...)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende ...)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
31.
La casa dei doganieri era un edificio
della Guardia di Finanza a Monterosso,
dove Montale negli anni giovanili trascorreva l’estate, ed era – così sembra
dal testo – il luogo dell’incontro, o degli incontri, con la donna cui il poeta
si rivolge con il “tu”. E’ una donna che compare anche negli Ossi di seppia (e il cui ricordo torna
anche nelle poesie più tarde) e a cui il poeta ha dato il nome di Annetta o Arletta. Ho detto che così sembra dal testo, ma in realtà si tratta di un ricordo
immaginario, o dell’immagine di un ricordo, visto quel che ha detto lo
stesso Montale: “La casa dei doganieri fu
distrutta quando avevo sei anni. La fanciulla in questione non potè mai
vederla; andò verso la morte, ma io lo seppi molti anni dopo”; e in
un’altra occasione ha detto che si trattava di una villeggiante conosciuta a
Monterosso e morta giovane: “Per quel
poco che visse, forse lei non s’accorse nemmeno che io esistevo”.
32.
In questa immaginazione, l’impossibilità
di condividere il ricordo (perché la donna è morta, o è lontana,
irrimediabilmente estranea alla vita del poeta) implica per il poeta la perdita di un punto di riferimento nel
percorso della vita, ne determina lo smarrimento,
il disorientamento: a questo
alludono gli oggetti evocati: la bussola impazzita, i dadi,
il cui calcolo non torna, il filo che si aggroviglia, la banderuola
che “gira senza pietà” (bella anche
l’immagine della casa che “s’allontana”:
sembra una ripresa cinematografica con uno zoom
all’incontrario, a indicare il dileguarsi del ricordo in un passato ormai
irrevocabile).
33.
In questo smarrimento in cui la
quotidianità del presente prende il sopravvento, ecco che ritorna un motivo
caro a Montale, quello della possibilità, o del desiderio, di spezzare la rete
che ci imprigiona (si pensi a I limoni),
di fuoriuscire da una dimensione che si sente inautentica, negativa, di trovare
un “varco”.
Ne I limoni erano il colore e l’odore
dei limoni, qui la luce intermittente di
una petroliera che passa in lontananza. Ma l’immagine dell’onda che “ripullula”,
che continua a infrangersi sulla scogliera, sembra indicare l’impossibilità
della fuoriuscita, un destino di immobilità segnato dal ripetersi degli stessi
fenomeni.
34.
Resta il verso finale, enigmatico: “Ed io non so
chi va e chi resta”. Mi affido a Montale che, interpellato in proposito,
dopo aver detto che la fanciulla morì, aggiunge: “Io restai e resto ancora. Non si sa chi abbia fatto la scelta migliore.
Ma verosimilmente non vi fu scelta.” Dunque, se “andare” e “restare”
equivalgono a morire e restare in vita, dire “Ed io non so chi va e chi resta”, significa
dire “non so chi sia morto veramente, lei o io, che vivo in una condizione di
immobilità simile alla morte”.
La dogana e
Silvia
35.
Del resto, riflettiamo anche sulla significatività del
luogo evocato: la casa dei doganieri. I
doganieri sono gli addetti ai confini, quindi quel luogo segnala un confine, che non può essere altro che quello fra la vita vera e vita falsa, vita
autentica e vita inautentica, e infine fra vita e morte. Non a caso è da
qui che si può intravedere “il varco”.
E allora il verso finale intende insinuare il dubbio che chi è biologicamente
morto, come Arletta, viva una vera vita, mentre chi è biologicamente vivo, come
il poeta, viva una vita simile alla morte.
36.
Un’ultima considerazione. Viene in mente A Silvia di Leopardi, perché in ambedue
le poesie ci si rivolge ad una fanciulla morta, ma l’incipit segnala un
rovesciamento di segno. In Leopardi
Silvia è invitata a ricordare (Silvia,
rimembri ancora…), Montale invece
afferma con nettezza l’impossibilità per la fanciulla di ricordare (Tu non ricordi, non solo nell’incipit,
ma ancora ai vv. 10 e 21). Ma le due
fanciulle sembrano accomunate da un carattere che le vede contemporaneamente
allegre e pensierose: “lieta e
pensosa” era Silvia ed aveva occhi “ridenti
e fuggitivi”, era “lieto” il “riso” di Annetta-Arletta, ma c’era in
lei il turbamento di un’inquietudine (“lo
sciame dei tuoi pensieri” “vi sostò
irrequieto”).
Clizia e Nuove stanze
Irma Brandeis (Clizia) |
37.
Ma la figura femminile più significativa, fra le tante
che compaiono nell’opera di Montale, è senz’altro quella di Clizia. Clizia è presente sia ne Le occasioni, sia nella terza raccolta, La
bufera e altro (1956). E’ lo pseudonimo (o, alla provenzale, il senhal) dietro cui si cela
un’italianista americana, Irma Brandeis, conosciuta da Montale a Firenze fra il
1932 e il 1939, quando la donna, di origine ebraica, tornò negli USA a seguito
delle leggi razziali. Clizia è nella
mitologia greca la ninfa innamorata del sole, ovvero del dio Apollo; da questi
rifiutata, si trasforma in eliotròpio o girasole e conserva il suo amore
guardando sempre verso il sole. Nell’opera di Montale diventa una novella Beatrice, una sorta di donna-angelo, o “visiting angel”, un angelo
visitatore. Come la Beatrice dantesca, così Clizia, che ha come punto di riferimento la luce del sole, può indicare
una via d’uscita dalla realtà negativa in cui viviamo, può guidare alla
salvezza.
38.
Ma Clizia è la
sacerdotessa di una religione laica, perché Apollo è anche il dio della
poesia e dunque la sua fedeltà ad Apollo
rappresenta la fedeltà ai valori della cultura e dell’intelligenza in un mondo
che sempre più sembra negarli, un mondo su cui incombe l’oppressione delle
dittature e infine la catastrofe della guerra. In questo senso due poesie
estremamente significative sono Nuove stanze (Le occasioni), scritta nella consapevolezza dell’imminenza della
guerra, e La primavera hitleriana (La
bufera e altro), scritta in occasione dell’incontro tra Hitler e Mussolini,
avvenuto a Firenze nel maggio del 1938. In entrambe Clizia rappresenta la
speranza che l’intelligenza e la cultura possano avere la meglio sulla barbarie
che incombe.
39.
Certo, in Nuove stanze
persiste il dubbio che il potere di Clizia, ovvero della cultura, sia
insufficiente: “follia di morte non si
placa a poco / prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo, / ma domanda altri
fuochi…”, ovvero altre armi, armi diverse da quelle della cultura. Ma nel
finale è affermata con forza la certezza che lo sguardo di quegli “occhi d’acciaio” possa resistere alla violenza dello “specchio ustorio” e infine vincere:
“… Ma resiste / e vince il premio della
solitaria / veglia chi può con te allo specchio ustorio / che accieca le pedine
opporre i tuoi / occhi d’acciaio.” La leggiamo:
Poi che gli ultimi fili di tabacco
al tuo gesto si spengono nel piatto
di cristallo, al soffitto lenta sale
la spirale del fumo
che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
guardano stupefatti; e nuovi anelli
la seguono, più mobili di quelli
delle tua dita.
torri e ponti è sparita
al primo soffio; s'apre la finestra
non vista e il fumo s'agita. Là in fondo,
altro stormo si muove: una tregenda
d'uomini che non sa questo tuo incenso,
nella scacchiera di cui puoi tu sola
comporre il senso.
Il mio dubbio d'un tempo era se forse
tu stessa ignori il giuoco che si svolge
sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:
follìa di morte non si placa a poco
prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo
ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
cortine che per te fomenta il dio
del caso, quando assiste.
Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
le sagome d'avorio in una luce
spettrale di nevaio. Ma resiste
e vince il premio della solitaria
veglia chi può con te allo specchio ustorio
che accieca le pedine opporre i tuoi
occhi
d'acciaio.
Clizia e La primavera hitleriana
40.
Questa stessa speranza ne La primavera hitleriana assume anche connotati religiosi. La leggiamo:
Folta la nuvola bianca delle falene impazzite[3]
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
forti come un battesimo nella lugubre attesa
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
Oh la piagata
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
fino a che il cieco sole che in te porti[23]
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
che salutano i mostri nella sera
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
41. Clizia qui è portatrice di una
salvezza non più individuale, ma “per tutti” (ripetuto due
volte, ai vv. 37 e 41). E il cupo pessimismo che domina nelle prime strofe e
che ha il suo culmine nella domanda “Tutto
per nulla, dunque?”, il pessimismo su una possibilità di salvezza affidata
all’intelligenza e alla cultura in un mondo popolato da demoni (“il messo infernale”, la “tregenda” – parola questa che ricorre
anche in Nuove stanze, e significa
proprio un’adunanza di diavoli) pronti a scatenare l’orrore della guerra,
sembra superato già in quella parentesi nella terza strofa, laddove una stella cadente pare presagire la
possibilità di un riscatto, evocato dal riferimento biblico agli angeli di
Tobia. E’ un ottimismo del cuore e della volontà, ribadito in conclusione,
nell’ultima strofa, così come è ribadita
la valenza religiosa che Clizia sembra assumere: non più solo intelligenza
e cultura, ma novello Cristo (“cristofora”), mediatrice fra cielo e terra, che
si annulla, si sacrifica (si abbàcini
nell’Altro e si distrugga in Lui) per l’intera umanità (per tutti).
Volpe e L’anguilla
Maria Luisa Spaziani (volpe) |
42. Ma è una
speranza che va delusa. L’incarnazione nella storia dei valori, cristiani e
umanistici, non si realizza. Ecco allora la
scoperta di un altro valore, quello della vitalità e della forza degli istinti.
Se Clizia è la donna-angelo, portatrice di valori intellettuali e morali,
un’altra figura femminile, la Volpe
(al secolo la poetessa Maria Luisa Spaziani) rappresenta il mondo concreto,
tutto terreno e materiale, dell’eros e della passione. Volpe – presente nella terza
raccolta, La bufera e altro – è l’anti-Beatrice
che può garantire solo una salvezza “privata” per il poeta, non per “tutti”,
come invece era annunciato da Clizia.
43. A Volpe sono
associate allegorie di animali (l’anguilla, il gallo cedrone) che indicano la strada della salvezza non nella cultura o
nei valori cristiani, ma nel fango
(e nella vitalità) dell’eros e degli istinti. L’anguilla, che risale dall’acqua e dalla melma alle vette degli
Appennini per andare a riprodursi, diventa in particolare l’emblema di questa
celebrazione della pura forza biologica.
E’ “sorella” di Clizia, ma testimone di una speranza che si annida in basso,
nel terreno, non in alto, nel cielo.
L’anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre più addentro, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando
una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,
nei fossi che declinano
dai balzi d’Appennino alla Romagna;
l’anguilla, torcia, frusta,
freccia d’Amore in terra
ruscelli pirenaici riconducono
a paradisi di fecondazione;
vita là dove solo
morde l’arsura e la desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto pare
di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli
dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?
44. Qui al topos montaliano del paesaggio arso e
desolato (ribadito più volte: pozze
d’acquamorta, i disseccati ruscelli pirenaici, morde l’arsura e la desolazione,
incarbonirsi, bronco seppellito) si contrappone la inesauribile vitalità
dell’anguilla, indicata da immagini di
luce e di energia (guizzo, torcia,
frusta, freccia d’Amore, anima verde, scintilla, iride breve).
45. Il “gemellaggio” fra l’iride-anguilla e
l’iride di Clizia (è lei, secondo tutti gli interpreti, la donna cui il
poeta si rivolge con la domanda retorica nei versi finali), ed anche la comunanza del fango in cui sono immersi
sia l’anguilla che Clizia, sembrano indicare la via di salvezza nella tenacia
con cui la forza vitale, la potenza dell’eros,
resistono alla negatività della storia.
La struttura
“anguillare” del testo
46. Una
riflessione va fatta anche sulla struttura
originale del testo. Qualcuno ha parlato di “struttura anguillare”. Infatti l’alternanza fra versi lunghi (di 14
sillabe) e versi brevi (di 7 sillabe) sembra
richiamare sia il profilo dell’anguilla sia il suo modo di procedere a zig zag.
Ma anche la struttura sintattica può ricordare il corpo allungato
dell’anguilla. La poesia è infatti costituita da un unico lungo periodo interrogativo (una interrogativa retorica),
che comincia con il complemento oggetto (l’anguilla)
e finisce con il soggetto e il verbo (puoi
tu non crederla). In mezzo, una serie di apposizioni che definiscono il
significato letterale ed allegorico dell’anguilla. L’ultima parola (sorella, tecnicamente il predicativo dell’oggetto), richiama
fonicamente (è quasi in rima) l’oggetto cui si riferisce (l’anguilla del primo verso). Ma l’anguilla è richiamata anche dal
ricorrere di parole in cui è presente la doppia liquida (la elle): capello, gorielli, ancora anguilla, ruscelli, scintilla, seppellito,
gemella, quella, brillare, sorella.
Le Conclusioni provvisorie: Il sogno del prigioniero
47. Ma una
salvezza solo privata, non “per tutti” (tale è definita in Anniversario: “il dono che
sognavo / non per me ma per tutti / appartiene a me solo”) equivale a una
sconfitta, ed ecco l’ultima sezione de La
bufera (Conclusioni provvisorie),
composta di due sole poesie, in cui nella prima (Piccolo testamento) si preannuncia la catastrofe del mondo
occidentale, cui resiste soltanto la fiammella di una poesia che ha
continuato, flebile ma tenace, a denunciare la negatività dell’esistenza; e
nella seconda (Il sogno del prigioniero) si
denuncia la condizione di prigionia in cui si vive (è una condizione esistenziale, a prescindere
da riferimenti a lager nazisti o gulag staliniani, che pure sono evidentemente
il motivo ispiratore) ed in cui si può solo sognare una vita diversa (cito il
verso finale, bellissimo: “il mio sogno di te non è finito”:
non è finita la speranza in un mondo diverso, ma quel tu rimanda ancora una
volta ad una figura femminile; che sia Clizia o Volpe non importa, perché ogni
significato allegorico porta in sé anche un significato letterale, e allora
questa è anche la dichiarazione di un
amore che non si estingue, di un amore che solo può liberare dalla
prigionia, può salvare dalla negatività dell’esistenza: L’attesa è lunga, / il mio sogno di te non è finito).
Albe e notti qui variano per pochi segni.
nei giorni di battaglia, mie sole ali,
un filo d'aria polare,
l'occhio del capoguardia dello spioncino,
crac di noci schiacciate, un oleoso
sfrigolio dalle cave, girarrosti
veri o supposti - ma la paglia é oro,
la lanterna vinosa é focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.
La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio d'oche ;
che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d'altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel paté
destinato agl'Iddii pestilenziali.
Tardo di mente, piagato
dal pungente giaciglio mi sono fuso
col volo della tarma che la mia suola
sfarina sull'impiantito,
coi kimoni cangianti delle luci
sciorinate all'aurora dai torrioni,
ho annusato nel vento il bruciaticcio
mi son guardato attorno, ho suscitato
iridi su orizzonti di ragnateli
e petali sui tralicci delle inferriate,
mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo è il minuto -
e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L'attesa é lunga,
il mio sogno di te non e finito.
Le Conclusioni provvisorie: Piccolo testamento
48. Leggiamo Piccolo testamento:
Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti
chierico rosso o nero.
Solo quest’iride posso
lasciarti a testimonianza
d’una fede che fu combattuta,
d’una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, del Hudson, della Senna
scuotendo l’ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.
Non è un’eredità, un portafortuna
che può reggere all’urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
non era fuga, l’umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.
49. Si era nel
dopo guerra, in tempi di feroci polemiche sul ruolo degli intellettuali, e da
sinistra si accusò Montale di essere un piccolo borghese, incapace di
comprendere i conflitti della storia, di partecipare, con la sua scrittura,
alle lotte per il progresso sociale. Montale rispose così: “L'argomento della mia poesia (...) è la
condizione umana in sé considerata: non questo o quello avvenimento storico.
Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo
coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio (...).
Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi
circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella
disarmonia.”
50. Piccolo testamento è ancora una risposta a quelle
accuse. La donna a cui il poeta si rivolge può essere Clizia o Volpe. Non
conta, perché qui è il poeta che difende la sua testarda coerenza, il senso
della sua poesia che è rimasta sempre
fedele ad una ostinata ricerca morale, mai sedotta da dogmi e ideologie (da lume di chiesa o d’officina / che alimenti
/ chierico rosso o nero).
51. Certo, quella della poesia è una luce debole (traccia madreperlacea di lumaca, smeriglio
di vetro, tenue bagliore) che non può reggere alla violenza della storia (all’urto dei monsoni); ma è pur sempre
una luce, e chi è capace di vederla e riconoscerla potrà salvarsi quando spenta ogni lampada / la sardana si
farà infernale, quando le forze del male che agiscono nella storia
prenderanno il sopravvento (la poesia è scritta nel 1953, e si sente qui l’angoscia per la possibilità di una
catastrofe nucleare).
La svolta di Satura
52.
Satura è pubblicata nel 1971, e
raccoglie poesie scritte dopo il 1964 (quindi dopo un lungo silenzio,
coincidente con il periodo del boom
economico e con l’affermarsi della moderna società di massa). Sono ancora
quattro sezioni: Xenia I e Xenia
II (il termine indicava in latino i
doni che si fanno ad un ospite nel momento in cui abbandona la casa che lo ha
accolto; le poesie sono infatti “donate”, come un’offerta votiva, alla moglie
morta. Drusilla Tanzi, indicata col senhal
di Mosca); Satura I e Satura II, in
cui prevalgono temi polemici e parodici (il titolo, che è anche quello della
raccolta, indica sia l’intento satirico dei componimenti, sia, nel suo
significato etimologico di satura lanx,
la varietà degli argomenti e dei motivi ispiratori).
53.
La novità (una vera e propria svolta) consiste nell’abbassamento del tono, sia nelle scelte
tematiche che lessicali; è una poesia
che tende alla prosa, che sembra rinunciare ad ogni ricercatezza retorica e
che, tematicamente, prende spunto da episodi della quotidianità, privati, o
comunque di cronaca più che di storia. Si veda in Piove la chiara parodia
de La pioggia nel pineto di
dannunziana memoria o ne La poesia l’effetto dissacratorio ottenuto usando facili
rime baciate (questione-ispirazione,
produce-conduce, surgelante-importante); ma si veda anche la polemica Lettera a Malvolio, in cui Montale
rivendica la propria coerenza intellettuale ed accusa
l’interlocutore-antagonista (Pasolini) di opportunismo.
54.
Caratteristica è anche l’autocitazione parodica, con cui
l’autore riprende, ironicamente, motivi e oggetti di sue poesie precedenti (c’è
quasi una negazione del valore simbolico e cognitivo che quegli elementi
possedevano originariamente; e comunque, certamente, un sorridere sulla presunzione della propria poesia, ma anche,
ambiguamente, un voler riproporre, su un registro più basso, la dignità e la coerenza del proprio
percorso intellettuale: si veda in Botta
e risposta I la molteplicità di riferimenti a cose e persone degli Ossi e delle Occasioni).
Mosca
Drusilla Tanzi (Mosca) |
55.
Quanto a Mosca, si tratta di una figura
femminile ben diversa sia da Clizia (di cui non possiede la valenza divina e
salvifica) che da Volpe (di cui non possiede la vitalità quasi animalesca): la
sua capacità è quella di vedere (pur
essendo le sue pupille “tanto offuscate”)
dietro il velo della realtà che appare, di riconoscere e demistificare gli
inganni delle ideologie, e dunque di guidare, col suo solido buon senso, il
poeta stesso nel groviglio del mondo. Dunque si potrebbe dire che la figura di
Clizia sta a quella di Mosca come la poesia delle raccolte precedenti (con il
suo tono alto, i suoi rimandi metafisici, le sue allegorie) sta alla poesia di Satura (con il suo tono basso, che non
vagheggia grandi valori, ma che tuttavia non rinuncia ad esistere e a
pronunciare qualche parola di verità). Leggiamo Ho sceso dandoti il braccio:
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
Le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
56. Ma sono
anche le poesie in cui ricorre il
pensiero dei morti, in cui torna
l’idea di una contiguità fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. E’
un’idea molto pascoliana e già presente ne Le
occasioni (ricordate La casa dei
doganieri e quel verso finale: “Ed io
non so chi va e chi resta”), ma anche ne La bufera (L’arca, A mia
madre, Voce giunta con le folaghe, Proda di Versilia). Ed ecco in Satura, una poesia di quattro versi,
dedicata Mosca:
Avevamo studiato per l'aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.
[1]
Il miraggio.
[2]
Campana di Firenze che annunciava un pericolo.
[3] Montale ricorda che ci fu quel
giorno un’invasione di farfalle bianche, e poi una morìa a causa del freddo
improvviso.
[22] Come nell’epigrafe – Né quella che a veder lo sol si gira –
sono versi tratti da un sonetto attribuito a Dante.
[28] Torna il motivo dell’aridità, qui
correlativo oggettivo di un mondo devastato dall’ideologia nazifascista. Ai “greti arsi del sud” si contrappongono i
“ghiacci e le riviere” del nord, ove
si sta recando Clizia.
[29]
Rigagnoli.
[30]
Fossati.
[31]
Viva, vitale.
[32]
Ramo secco, ricoperto di terra.
[33]
La stessa anguilla, o i suoi occhi.
[34]
Gli uccelli, ma anche gli aerei.
[35]
Le torri di guardia.
[36]
Ciambella toscana di pane dolce.
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