MONTALE (lezioni 2)


La poesia di Montale
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Premessa

1.      Presentare Montale non è impresa facile, sia perché non si tratta di un poeta di facile comprensione, sia perché ci sono diversi momenti nella sua produzione, diversi pur nella persistenza di una tematica di fondo. Io ho cercato di delineare un percorso, che in qualche modo dia conto di questi diversi momenti, e l’ho fatto sostenendo il mio discorso con la lettura di alcune poesie, scelte, a mio giudizio, fra le più belle e significative – e ovviamente, per necessità di tempo, trascurandone altre, altrettanto belle e significative.

2.      Leggo le poesie e cerco di spiegarle letteralmente e di interpretarle. L’impresa, dicevo, non è sempre facile. A volte ci aiuta lo stesso Montale, il quale, appositamente interpellato, ha fornito dei chiarimenti sul senso di alcuni versi e di alcune immagini. Altre volte la comprensione letterale e l’interpretazione allegorica a me sembrano totalmente affidate al lettore.



Una linea che parte da Pascoli…



3.      Montale è un poeta che si colloca pienamente nella tradizione poetica del nostro Novecento, nel senso che non è difficile riconoscere nella sua poesia ascendenze che rimandano ai due maestri della poesia italiana del Novecento, ovvero Pascoli e D’Annunzio.

4.      Dico Pascoli, ma meglio dovrei dire quella linea che congiunge Pascoli ai poeti crepuscolari e che si caratterizza per la predilezione delle cosiddette “piccole cose”, per l’introduzione in poesia di cose, oggetti tradizionalmente esclusi, in quanto appartenenti alla realtà “bassa”, alla quotidianità, e quindi indegni della “altezza” della poesia. Pascoli, in una lettera del 1899 al pittore Antony de Witt, indicava in questo modo l’intenzione di estendere il diritto di cittadinanza in poesia a tutti gli elementi della realtà:Le anime e le cose, sieno esse grandi o piccole, buone o cattive, belle o brutte, hanno tutte un quid poetico in esse celato, celato più o meno: il poeta ve lo coglie e ne fa la poesia: come l’ape che, sia il fiore amaro o dolce, grande o piccolo, sia trifoglio o rosa, vistoso o umile, ne estrae sempre quel miele.”

5.      E’ un pensiero perfettamente coerente con la cosiddetta “poetica del fanciullino”: il poeta è un fanciullo, e dunque è attratto ed emozionato non solo da ciò che è grande e vistoso, ma anche da ciò che è piccolo ed apparentemente insignificante.

6.      Chi conosce la poesia di Pascoli sa bene come gli elementi che costituiscono il paesaggio della campagna, ma anche le piccole cose, gli oggetti della vita quotidiana siano sempre nominati con precisione: gli alberi non sono mai genericamente alberi, ma meli, peri, ciliegi, faggi, ecc.; gli uccelli non saranno uccelli, ma puffini, tordi, cinciallegre, ecc.. Del resto si pensi che Pascoli ha dedicato un poemetto alla piadina, un altro al bucato

7.      Certo, nella poesia di Pascoli c’è dell’altro, Pascoli è un visionario, sente come pochi altri la contiguità fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, dietro le piccole cose si nascondono sensazioni e sentimenti inquietanti. Ma questa sua predilezione per il tono basso della poesia ha fatto scuola, i poeti crepuscolari, in polemica antidannunziana, lo riprendono e lo esasperano.



… passa per Gozzano



8.      Se Pascoli aveva parlato del trifoglio per rivendicare la dignità poetica delle piccole cose, Gozzano, il più significativo dei crepuscolari, va ancora più in là. Sentite questi versi tratti da La signorina Felicita:

Sei quasi brutta, priva di lusinga

nelle tue vesti quasi campagnole,

ma la tua faccia buona e casalinga,

ma i bei capelli di color di sole,

attorti in minutissime trecciuole,

ti fanno un tipo di beltà fiamminga...



E rivedo la tua bocca vermiglia

così larga nel ridere e nel bere,

e il volto quadro, senza sopracciglia,

tutto sparso d'efelidi leggiere

e gli occhi fermi, l'iridi sincere

azzurre d'un azzurro di stoviglia...



Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi

rideva una blandizie femminina.

Tu civettavi con sottili schermi,

tu volevi piacermi, Signorina:

e più d'ogni conquista cittadina

mi lusingò quel tuo voler piacermi!



Ogni giorno salivo alla tua volta

pel soleggiato ripido sentiero.

Il farmacista non pensò davvero

un'amicizia così bene accolta,

quando ti presentò la prima volta

l'ignoto villeggiante forestiero.



Talora - già la mensa era imbandita -

mi trattenevi a cena. Era una cena

d'altri tempi, col gatto e la falena

e la stoviglia semplice e fiorita

e il commento dei cibi e Maddalena

decrepita, e la siesta e la partita...



Per la partita, verso ventun'ore

giungeva tutto l'inclito collegio

politico locale: il molto Regio

Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;

ma - poiché trasognato giocatore -

quei signori m'avevano in dispregio...



M'era più dolce starmene in cucina

tra le stoviglie a vividi colori:

tu tacevi, tacevo, Signorina:

godevo quel silenzio e quegli odori

tanto tanto per me consolatori,

di basilico d'aglio di cedrina...



Maddalena con sordo brontolio

disponeva gli arredi ben detersi,

rigovernava lentamente ed io,

già smarrito nei sogni più diversi,

accordavo le sillabe dei versi

sul ritmo eguale dell'acciottolio.



9.      Al di là del trifoglio pascoliano, per rimanere al mondo vegetale, ci sono le piante da cucina, il basilico, l’aglio, la cedrina. E ci sono anche, con tutt’altro valore rispetto a Pascoli, le piccole cose della quotidianità: il gatto, la falena, le stoviglie

10.  Montale amava Gozzano, diceva di lui che era stato “il primo che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico col prosaico ”, in quanto “fondò la sua poesia sull’urto, o choc, di una materia psicologicamente povera, frusta, apparentemente adatta ai soli toni minori, con una sostanza verbale ricca, gioiosa, estremamente compiaciuta di sé ”. Fare cozzare l’aulico col prosaico, è una modalità, vedremo, propria anche di Montale: Gozzano lo fa continuamente, ad esempio, nella strofa in cui descrive la bellezza “quasi campagnola” di Felicita, accosta – nel luogo della rima, dove il rilievo è maggiore – una parola della quotidianità come “casalinga” ad una parola, “fiamminga”, che evoca un riferimento coltissimo alla pittura; ma anche sotto, le “iridi sincere” degli occhi sono accostate all’azzurro delle stoviglie. Ma sentite anche questa strofa:



Tu non fai versi. Tagli le camicie

per tuo padre. Hai fatta la seconda

classe, t’han detto che la Terra è tonda,

ma tu non credi.... E non mediti Nietzsche....

Mi piaci. Mi faresti più felice

d’un’intellettuale gemebonda....



11.  La scintilla scocca grazie all’accostamento, in rima, fra una parola del lessico quotidiano come “camicie” e il nome di un filosofo di altissimo livello (Nietzsche).



… e arriva a Montale: I limoni



12.  Ebbene, se c’è una poesia di Montale che senz’altro rivela, proprio nell’incipit, l’appartenenza dello stesso a questa linea che va da Pascoli ai crepuscolari, è I limoni, nella prima raccolta, Ossi di seppia (1925-28):

Ascoltami, i poeti laureati

si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità. 

13.   La polemica contro i “poeti laureati” (quelli cinti da una corona di alloro, quelli con la voce forte e chiara, come Carducci o D’Annunzio) si concretizza nel riferimento a piante rare e illustri (altro che il trifoglio di Pascoli o il basilico, l’aglio e la cedrina di Gozzano): a tali piante Montale oppone gli “erbosi fossi”, i “ciuffi delle canne” e gli “alberi dei limoni”.



I limoni: la tematica



14.  Ma è una poesia, questa, che già enuncia pienamente la tematica cara a Montale. Montale avverte un senso di estraneità rispetto al mondo circostante, si sente in  “disarmonia” o “inadatto” (sono parole che usa lui stesso; e aggiunge anche: mi sentivo come rinchiuso in una “campana di vetro”). Il mondo fenomenico, nel quale viviamo, gli pare falso, inautentico, eppure è il mondo che ci contiene, come una prigione dalla quale non si può evadere. Non a caso sono spesso nominati oggetti che indicano la chiusura, l’impedimento, il muro in particolare: “l’erto muro” in In limine, lo “scalcinato muro” in Non chiederci la parola, la “muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” in Meriggiare pallido e assorto, “la rete che ci stringe” ancora in In limine; e si potrebbe continuare.

15.  Ma ci sono occasioni, momenti miracolosi, in cui sembra aprirsi uno squarcio, sembra rompersi la rete che ci imprigiona, ed è possibile, per un momento, attingere ad una verità profonda, entrare in una dimensione di autenticità e sentirsi finalmente in armonia. Vedere il giallo dei limoni e sentirne l’odore è uno di questi momenti (questo il senso delle strofe 2 e 3).

16.  Ma è un momento precario, destinato a venir meno. Tale è il senso del passaggio dalla campagna alla città e dalla stagione estiva a quella invernale: nell’inverno cittadino si ricompone l’inganno usuale della realtà fenomenica, un inganno rotto occasionalmente dalla vista, “tra gli alberi di una corte” del giallo dei limoni.



I limoni: il linguaggio e il “correlativo oggettivo”



17.  Qualche osservazione sul linguaggio. Anche Montale, come Gozzano, ama far cozzare l’aulico col prosaico: agli elementi della quotidianità (si pensi ad esempio ad una espressione propria del parlato quale “Io, per me, amo le strade…) sono associate parole o espressioni colte o rare: sparuta (l’anguilla) susurro (con una esse sola), piove (usato transitivamente), divertite (è un latinismo), cimase (parola già in Pascoli e Gozzano), s’affolta (per s’addensa). Anche la sintassi, pur abbastanza lineare, non è priva di ricercatezza: oltre al piove usato transitivamente, sottolineo il ricorrere dell’anastrofe (agguantano i ragazzi, si ascolta il susurro, … tace la guerra, ci riporta il tempo, s’affolta il tedio, ecc.)

18.  Ma Montale è anche molto attento alla musicalità, al livello fonico della poesia: i richiami in rima sono frequenti, non solo a fine di verso, ma anche interni (laureati, usati; dolcezza, ricchezza; indaga, dilaga; umana, allontana); notevole la rima in chiasmo al v. 42 (avara, amara, con richiamo fonico anche con anima). Ma i legami fonici sono anche dati da assonanze e consonanze (piante, acanti; muove, odore; portone, corte).

19.  A me non sembra casuale anche l’uso nelle prime strofe di parole dal suono duro, aspro, quasi a significare, sul piano fonico, l’asprezza del vivere: tali sono le ricorrenti parole con la doppia zeta (pozzanghere, mezzo, ragazzi, viuzze, gazzarre, azzurro) affiancate ad altre dal suono altrettanto duro (seccate, agguantano, ciuffi).

20.  Ma notiamo già un’altra caratteristica della poesia di Montale: è una poesia “di cose” – ha detto un critico – non “di parole”, e voleva dire che quella di Montale non è una poesia della parola pura, della parola unica e significativa che emerge dal silenzio, come per Ungaretti, che appunto isola la parola nel verso perché esprima appieno l’intensità del suo significato. Montale nomina cose, oggetti concreti (li nomina con precisione, in questo è pascoliano), rifugge, per quanto possibile, dalle astrazioni. Gli oggetti diventano così gli emblemi, o meglio, per usare un’espressione tratta da Eliot, il “correlativo oggettivo” del suo stato d’animo, del suo sentire. Qui, ad esempio, gli erbosi fossi, le pozzanghere, l’anguilla, i ciuffi della canne, gli alberi dei limoni; e poi più avanti l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare, ecc.).



Il “correlativo oggettivo”: Spesso il male di vivere ho incontrato



21.  E’ una caratteristica che vediamo bene in un’altra poesia, fra le più famose, Spesso il male di viere ho incontrato:



Spesso il male di vivere ho incontrato

era il rivo strozzato che gorgoglia

era l'incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.



Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.



22.  Il male di vivere è rappresentato, nella prima quartina, con tre “cose” concrete, tre elementi della natura: il rivo strozzato che gorgoglia (una strettoia, dove l’acqua del ruscello fatica a passare, e il suo gorgogliare sembra un lamento), l'incartocciarsi della foglia riarsa (una foglia rinsecchita dal sole, che si accartoccia, e in questo accartocciarsi c’è la sofferenza determinata dalla perdita dei fluidi vitali: del resto il motivo dell’aridità, della secchezza, è ricorrente nella poesia montaliana, particolarmente negli Ossi, vero e proprio correlativo oggettivo di una condizione esistenziale desolata, prosciugata e svuotata: la terra polverosa e seccata dal sole è il luogo della privazione e della negatività. Lo stesso titolo della raccolta rimanda a questo motivo, visto che gli ossi di seppia non sono che un relitto, quanto mai inaridito, della vita organica), infine il cavallo stramazzato al suolo evoca con potenza il male di vivere.

23.  Nella seconda quartina sono indicati i correlativi oggettivi dell’unico “bene” possibile, ovvero di quella che Montale chiama “la divina Indifferenza”. L’indifferenza – con la i maiuscola e detta “divina” perché propria degli dei, come già sosteneva la filosofia epicurea – ovvero la capacità di non lasciarsi coinvolgere dalla sofferenza del mondo, di vivere, diceva Epicuro, in condizione di atarassia, è oggettivata da tre elementi: la statua nella sonnolenza del meriggio (qui compare la figura umana, ma pietrificata, come lo è la statua, e quindi capace di indifferenza), la nuvola, il falco alto levato (sono elementi che rimandano al cielo, e quindi ad una distanza rispetto ai mali della terra, del resto non si può non rilevare l’opposizione fra ciò che sta in alto, e che ha a che fare con la “divina Indifferenza”, e ciò che sta in basso – gli elementi della prima quartina – e che ha a che fare con il male di vivere).

24.  Ma si noti anche l’opposizione fra i suoni  duri e aspri della prima quartina (strozzato, gorgoglia, incartocciarsi, riarsa, stramazzato) e quelli senz’altro chiari e distesi della seconda quartina, in particolare nell’ultimo verso (…la nuvola, e il falco alto levato).



Le occasioni: il motivo della memoria e la difficoltà di comprensione



25.  Dicevo che la possibilità di fuoriuscire dalla condizione di inautenticità, di spezzare l’anello che non tiene, di trovare una smagliatura nella rete che ci imprigiona, è concessa in alcuni momenti, in alcune occasioni. Un’altra di queste possibilità è data dalla memoria. La capacità di restare attaccati ad un ricordo, particolarmente ad un ricordo condiviso, il ricordo di un episodio felice, di un volto, di una figura femminile significativa, sembra essere la garanzia di avere afferrato qualcosa che appartiene alla vita vera, autentica, qualcosa che resiste al logoramento del tempo. E’ un motivo che ricorre nella seconda raccolta, Le occasioni (1939).

26.  Rispetto agli Ossi, si tratta di poesie di comprensione più difficile, per il semplice fatto che, mentre negli Ossi gli oggetti simbolici erano accompagnati, per così dire, da una spiegazione (si pensi a I limoni o a Spesso il male di vivere…), ne Le occasioni gli oggetti, gli eventi, compaiono senza alcun chiarimento sul senso della loro presenza, appartengono alla memoria del poeta, sono legati a vicende della sua vita che, ovviamente, il lettore non conosce. Del resto è lo stesso Montale che dice di aver pensato alla poesia come “a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto, bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta”.



La difficoltà di comprensione: La speranza di pure rivederti



27.  Per spiegare ancora meglio, ascoltate questa breve poesia:

La speranza di pure rivederti
m’abbandonava;

e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:

(a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).

28.  Il senso delle prime due strofe è abbastanza chiaro, ma decisamente enigmatica pare la terza strofa, con quel riferimento ad un servo gallonato che trascina due sciacalli al guinzaglio. Ci ha pensato lo stesso Montale, in un articolo sul “Corriere della Sera”, a spiegare l’occasione-spinta. Ed ecco qua:  Un pomeriggio d’estate Mirco si trovava a Modena e passeggiava sotto i portici. Angosciato com’era e sempre assorto nel suo "pensiero dominante", stupiva che la vita gli presentasse come dipinte o riflettesse su uno schermo tante distrazioni. Era un giorno troppo gaio per un uomo non gaio. Ed ecco apparire a Mirco un vecchio in divisa gallonata che trascinava con una catenella due riluttanti cuccioli color sciampagna, due cagnuoli che a una prima occhiata non parevano né lupetti, né bassotti, né volpini. Mirco si avvicinò al vecchio e gli chiese: "Che cani sono questi?" E il vecchio secco e orgoglioso: "Non sono cani, sono siacalli". (Così pronunciò da buon settentrionale incolto; e scantonò poi con la sua pariglia). Clizia amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita a vederli! Pensò Mirco. E da quel giorno non lesse il nome di Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli. Strana, persistente idea. Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua decadenza, della sua fine? Fatti consimili si ripeterono spesso; non apparvero più sciacalli ma altri strani prodotti della boîte à surprise (scatola a sorpresa) della vita: cani barboni, scimmie, civette sul trespolo, menestrelli, ... E sempre sul vivo della piaga scendeva il lenimento di un balsamo. Una sera Mirco si trovò alcuni versi in testa, prese una matita e un biglietto del tranvai (l’unica carta che avesse nel taschino) e scrisse queste righe: "La speranza di pure rivederti – m’abbandonava; – e mi chiesi se questo che mi chiude – ogni senso di te, schermo d’immagini, – ha i segni della morte o dal passato – è in esso, ma distorto e fatto labile, – un tuo barbaglio." S’arrestò, cancellò il punto fermo e lo sostituì con due punti perché sentiva che occorreva un esempio che fosse anche una conclusione. E terminò così: "(a Modena fra i portici, – un servo gallonato trascinava – due sciacalli al guinzaglio)". Dove la parentesi voleva isolare l’esempio e suggerire un tono di voce diverso, lo stupore di un ricordo intimo e lontano. (...) Ho toccato un punto (un punto solo) del problema dell’oscurità o dell’apparente oscurità di certa arte d’oggi: quella che nasce da un’estrema concentrazione e da una confidenza forse eccessiva nella materia trattata.”

29.  Dunque, ecco il senso: la speranza di rivederti ancora mi abbandonava; mi chiesi se questo schermo di immagini (le immagini della multiforme realtà quotidiana) che mi impedisce di sentirti e vederti fosse un presagio di morte oppure ci fosse in esso un segno luminoso (un tuo barbaglio), per quanto debole, della tua presenza. E questa ambiguità è testimoniata proprio dal ricordo dei due sciacalli, che il poeta non sa se “fossero inviati da lei, quasi per emanazione”, quindi fossero un segno della sua presenza, o fossero invece un segno della decadenza e della fine.



La casa dei doganieri
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Anna degli Uberti (Annetta/Arletta)

30.  Ma vediamo una delle più note poesie de Le occasioni, La casa dei doganieri:

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende ...)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

31.  La casa dei doganieri era un edificio della Guardia di Finanza a Monterosso, dove Montale negli anni giovanili trascorreva l’estate, ed era – così sembra dal testo – il luogo dell’incontro, o degli incontri, con la donna cui il poeta si rivolge con il “tu”. E’ una donna che compare anche negli Ossi di seppia (e il cui ricordo torna anche nelle poesie più tarde) e a cui il poeta ha dato il nome di Annetta o Arletta. Ho detto che così sembra dal testo, ma in realtà si tratta di un ricordo immaginario, o dell’immagine di un ricordo, visto quel che ha detto lo stesso Montale: “La casa dei doganieri fu distrutta quando avevo sei anni. La fanciulla in questione non potè mai vederla; andò verso la morte, ma io lo seppi molti anni dopo”; e in un’altra occasione ha detto che si trattava di una villeggiante conosciuta a Monterosso e morta giovane: “Per quel poco che visse, forse lei non s’accorse nemmeno che io esistevo”.

32.  In questa immaginazione, l’impossibilità di condividere il ricordo (perché la donna è morta, o è lontana, irrimediabilmente estranea alla vita del poeta) implica per il poeta la perdita di un punto di riferimento nel percorso della vita, ne determina lo smarrimento, il disorientamento: a questo alludono gli oggetti evocati: la bussola impazzita, i dadi, il cui calcolo non torna, il filo che si aggroviglia, la banderuola che “gira senza pietà” (bella anche l’immagine della casa che “s’allontana: sembra una ripresa cinematografica con uno zoom all’incontrario, a indicare il dileguarsi del ricordo in un passato ormai irrevocabile).

33.  In questo smarrimento in cui la quotidianità del presente prende il sopravvento, ecco che ritorna un motivo caro a Montale, quello della possibilità, o del desiderio, di spezzare la rete che ci imprigiona (si pensi a I limoni), di fuoriuscire da una dimensione che si sente inautentica, negativa, di trovare un “varco”. Ne I limoni erano il colore e l’odore dei limoni, qui la luce intermittente di una petroliera che passa in lontananza. Ma l’immagine dell’onda che “ripullula”, che continua a infrangersi sulla scogliera, sembra indicare l’impossibilità della fuoriuscita, un destino di immobilità segnato dal ripetersi degli stessi fenomeni.

34.  Resta il verso finale, enigmatico: “Ed io non so chi va e chi resta”. Mi affido a Montale che, interpellato in proposito, dopo aver detto che la fanciulla morì, aggiunge: “Io restai e resto ancora. Non si sa chi abbia fatto la scelta migliore. Ma verosimilmente non vi fu scelta.” Dunque, se “andare” e “restare” equivalgono a morire e restare in vita, dire Ed io non so chi va e chi resta”, significa dire “non so chi sia morto veramente, lei o io, che vivo in una condizione di immobilità simile alla morte”.



La dogana e Silvia



35.  Del resto, riflettiamo anche sulla significatività del luogo evocato: la casa dei doganieri. I doganieri sono gli addetti ai confini, quindi quel luogo segnala un confine, che non può essere altro che quello fra la vita vera e vita falsa, vita autentica e vita inautentica, e infine fra vita e morte. Non a caso è da qui che si può intravedere “il varco”. E allora il verso finale intende insinuare il dubbio che chi è biologicamente morto, come Arletta, viva una vera vita, mentre chi è biologicamente vivo, come il poeta, viva una vita simile alla morte. 

36.  Un’ultima considerazione. Viene in mente A Silvia di Leopardi, perché in ambedue le poesie ci si rivolge ad una fanciulla morta, ma l’incipit segnala un rovesciamento di segno. In Leopardi Silvia è invitata a ricordare (Silvia, rimembri ancora…), Montale invece afferma con nettezza l’impossibilità per la fanciulla di ricordare (Tu non ricordi, non solo nell’incipit, ma ancora ai vv. 10 e 21). Ma le due fanciulle sembrano accomunate da un carattere che le vede contemporaneamente allegre e pensierose: “lieta e pensosa” era Silvia ed aveva occhi “ridenti e fuggitivi”, era “lieto” il “riso” di Annetta-Arletta, ma c’era in lei il turbamento di un’inquietudine (“lo sciame dei tuoi pensieri” “vi sostò irrequieto”).



Clizia e Nuove stanze
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Irma Brandeis (Clizia)


37.  Ma la figura femminile più significativa, fra le tante che compaiono nell’opera di Montale, è senz’altro quella di Clizia. Clizia è presente sia ne Le occasioni, sia nella terza raccolta, La bufera e altro (1956). E’ lo pseudonimo (o, alla provenzale, il senhal) dietro cui si cela un’italianista americana, Irma Brandeis, conosciuta da Montale a Firenze fra il 1932 e il 1939, quando la donna, di origine ebraica, tornò negli USA a seguito delle leggi razziali. Clizia è nella mitologia greca la ninfa innamorata del sole, ovvero del dio Apollo; da questi rifiutata, si trasforma in eliotròpio o girasole e conserva il suo amore guardando sempre verso il sole. Nell’opera di Montale diventa una novella Beatrice, una sorta di donna-angelo, o “visiting angel”, un angelo visitatore. Come la Beatrice dantesca, così Clizia, che ha come punto di riferimento la luce del sole, può indicare una via d’uscita dalla realtà negativa in cui viviamo, può guidare alla salvezza.

38.  Ma Clizia è la sacerdotessa di una religione laica, perché Apollo è anche il dio della poesia e dunque la sua fedeltà ad Apollo rappresenta la fedeltà ai valori della cultura e dell’intelligenza in un mondo che sempre più sembra negarli, un mondo su cui incombe l’oppressione delle dittature e infine la catastrofe della guerra. In questo senso due poesie estremamente significative sono Nuove stanze (Le occasioni), scritta nella consapevolezza dell’imminenza della guerra, e La primavera hitleriana (La bufera e altro), scritta in occasione dell’incontro tra Hitler e Mussolini, avvenuto a Firenze nel maggio del 1938. In entrambe Clizia rappresenta la speranza che l’intelligenza e la cultura possano avere la meglio sulla barbarie che incombe.

39.  Certo, in Nuove stanze persiste il dubbio che il potere di Clizia, ovvero della cultura, sia insufficiente: “follia di morte non si placa a poco / prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo, / ma domanda altri fuochi…”, ovvero altre armi, armi diverse da quelle della cultura. Ma nel finale è affermata con forza la certezza che lo sguardo di quegli “occhi d’acciaio” possa resistere alla violenza dello “specchio ustorio” e infine vincere: “… Ma resiste / e vince il premio della solitaria / veglia chi può con te allo specchio ustorio / che accieca le pedine opporre i tuoi / occhi d’acciaio.” La leggiamo:



Poi che gli ultimi fili di tabacco

al tuo gesto si spengono nel piatto

di cristallo, al soffitto lenta sale

la spirale del fumo

che gli alfieri e i cavalli degli scacchi

guardano stupefatti; e nuovi anelli

la seguono, più mobili di quelli

delle tua dita.



La morgana[1] che in cielo liberava

torri e ponti è sparita

al primo soffio; s'apre la finestra

non vista e il fumo s'agita. Là in fondo,

altro stormo si muove: una tregenda

d'uomini che non sa questo tuo incenso,

nella scacchiera di cui puoi tu sola

comporre il senso.



Il mio dubbio d'un tempo era se forse

tu stessa ignori il giuoco che si svolge

sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:

follìa di morte non si placa a poco

prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo

ma domanda altri fuochi, oltre le fitte

cortine che per te fomenta il dio

del caso, quando assiste.



Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco

tocco la Martinella[2] ed impaura

le sagome d'avorio in una luce

spettrale di nevaio. Ma resiste

e vince il premio della solitaria

veglia chi può con te allo specchio ustorio

che accieca le pedine opporre i tuoi

occhi d'acciaio.



Clizia e La primavera hitleriana



40.  Questa stessa speranza ne La primavera hitleriana assume anche connotati religiosi. La leggiamo:



Folta la nuvola bianca delle falene impazzite[3]

turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette[4], 

stende a terra una coltre su cui scricchia 

come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona

ora il gelo notturno che capiva[5] 

nelle cave segrete della stagione morta[6], 

negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai[7].



Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale 

tra un alalà di scherani, un golfo mistico[8] acceso

e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito, 

si sono chiuse le vetrine[9], povere 

e inoffensive benché armate anch’esse 

di cannoni e giocattoli di guerra, 

ha sprangato il beccaio che infiorava

di bacche il muso dei capretti uccisi, 

la sagra dei miti carnefici[10] che ancora ignorano il sangue 

s’è tramutata in un sozzo trescone[11] d’ali schiantate, 

di larve sulle golene[12], e l’acqua séguita a rodere 

le sponde[13] e più nessuno è incolpevole.



Tutto per nulla, dunque?[14] – e le candele 

Romane[15], a San Giovanni, che sbiancavano lente

l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii[16] 

forti come un battesimo nella lugubre attesa 

dell’orda (ma una gemma[17] rigò l’aria stillando

sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi 

gli angeli di Tobia, i sette,[18] la semina 

dell’avvenire) e gli eliotropi nati 

dalle tue mani – tutto arso e succhiato 

da un polline che stride come il fuoco

e ha punte di sinibbio[19]



                                      Oh la piagata

primavera[20] è pur festa se raggela 

in morte questa morte![21] Guarda ancora 

in alto, Clizia, è la tua sorte, tu

che il non mutato amor mutata serbi[22], 

fino a che il cieco sole che in te porti[23]

si abbàcini nell’Altro e si distrugga 

in Lui[24], per tutti. Forse le sirene, i rintocchi 

che salutano i mostri nella sera

della loro tregenda[25], si confondono già 

col suono che slegato[26] dal cielo, scende, vince – 

col respiro di un’alba che domani per tutti 

si riaffacci, bianca ma senz’ali 

di raccapriccio[27], ai greti arsi del sud…[28]



41.  Clizia qui è portatrice di una salvezza non più individuale, ma “per tutti” (ripetuto due volte, ai vv. 37 e 41). E il cupo pessimismo che domina nelle prime strofe e che ha il suo culmine nella domanda “Tutto per nulla, dunque?”, il pessimismo su una possibilità di salvezza affidata all’intelligenza e alla cultura in un mondo popolato da demoni (“il messo infernale”, la “tregenda” – parola questa che ricorre anche in Nuove stanze, e significa proprio un’adunanza di diavoli) pronti a scatenare l’orrore della guerra, sembra superato già in quella parentesi nella terza strofa, laddove una stella cadente pare presagire la possibilità di un riscatto, evocato dal riferimento biblico agli angeli di Tobia. E’ un ottimismo del cuore e della volontà, ribadito in conclusione, nell’ultima strofa, così come è ribadita la valenza religiosa che Clizia sembra assumere: non più solo intelligenza e cultura, ma novello Cristo (“cristofora”), mediatrice fra cielo e terra, che si annulla, si sacrifica (si abbàcini nell’Altro e si distrugga in Lui) per l’intera umanità (per tutti).



Volpe e L’anguilla
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Maria Luisa Spaziani (volpe)


42.  Ma è una speranza che va delusa. L’incarnazione nella storia dei valori, cristiani e umanistici, non si realizza. Ecco allora la scoperta di un altro valore, quello della vitalità e della forza degli istinti. Se Clizia è la donna-angelo, portatrice di valori intellettuali e morali, un’altra figura femminile, la Volpe (al secolo la poetessa Maria Luisa Spaziani) rappresenta il mondo concreto, tutto terreno e materiale, dell’eros e della passione. Volpe – presente nella terza raccolta, La bufera e altro è l’anti-Beatrice che può garantire solo una salvezza “privata” per il poeta, non per “tutti”, come invece era annunciato da Clizia.

43.  A Volpe sono associate allegorie di animali (l’anguilla, il gallo cedrone) che indicano la strada della salvezza non nella cultura o nei valori cristiani, ma nel fango (e nella vitalità) dell’eros e degli istinti. L’anguilla, che risale dall’acqua e dalla melma alle vette degli Appennini per andare a riprodursi, diventa in particolare l’emblema di questa celebrazione della pura forza biologica. E’ “sorella” di Clizia, ma testimone di una speranza che si annida in basso, nel terreno, non in alto, nel cielo.



L’anguilla, la sirena

dei mari freddi che lascia il Baltico

per giungere ai nostri mari,

ai nostri estuari, ai fiumi

che risale in profondo, sotto la piena avversa,

di ramo in ramo e poi

di capello in capello, assottigliati,

sempre più addentro, sempre più nel cuore

del macigno, filtrando

tra gorielli[29] di melma finché un giorno

una luce scoccata dai castagni

ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,

nei fossi che declinano

dai balzi d’Appennino alla Romagna;

l’anguilla, torcia, frusta,

freccia d’Amore in terra

che solo i nostri botri[30] o i disseccati

ruscelli pirenaici riconducono

a paradisi di fecondazione;

l’anima verde[31] che cerca

vita là dove solo

morde l’arsura e la desolazione,

la scintilla che dice

tutto comincia quando tutto pare

incarbonirsi, bronco seppellito[32];

l’iride breve[33], gemella

di quella che incastonano i tuoi cigli

e fai brillare intatta in mezzo ai figli

dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu

non crederla sorella?



44.  Qui al topos montaliano del paesaggio arso e desolato (ribadito più volte: pozze d’acquamorta, i disseccati ruscelli pirenaici, morde l’arsura e la desolazione, incarbonirsi, bronco seppellito) si contrappone la inesauribile vitalità dell’anguilla, indicata da immagini di luce e di energia (guizzo, torcia, frusta, freccia d’Amore, anima verde, scintilla, iride breve).

45.  Il “gemellaggio” fra l’iride-anguilla e l’iride di Clizia (è lei, secondo tutti gli interpreti, la donna cui il poeta si rivolge con la domanda retorica nei versi finali), ed anche la comunanza del fango in cui sono immersi sia l’anguilla che Clizia, sembrano indicare la via di salvezza nella tenacia con cui la forza vitale, la potenza dell’eros, resistono alla negatività della storia.



La struttura “anguillare” del testo



46.  Una riflessione va fatta anche sulla struttura originale del testo. Qualcuno ha parlato di “struttura anguillare”. Infatti l’alternanza fra versi lunghi (di 14 sillabe) e versi brevi (di 7 sillabe) sembra richiamare sia il profilo dell’anguilla sia il suo modo di procedere a zig zag. Ma anche la struttura sintattica può ricordare il corpo allungato dell’anguilla. La poesia è infatti costituita da un unico lungo periodo interrogativo (una interrogativa retorica), che comincia con il complemento oggetto (l’anguilla) e finisce con il soggetto e il verbo (puoi tu non crederla). In mezzo, una serie di apposizioni che definiscono il significato letterale ed allegorico dell’anguilla.  L’ultima parola (sorella, tecnicamente il predicativo dell’oggetto), richiama fonicamente (è quasi in rima) l’oggetto cui si riferisce (l’anguilla del primo verso). Ma l’anguilla è richiamata anche dal ricorrere di parole in cui è presente la doppia liquida (la elle): capello, gorielli, ancora anguilla, ruscelli, scintilla, seppellito, gemella, quella, brillare, sorella.



Le Conclusioni provvisorie: Il sogno del prigioniero



47.  Ma una salvezza solo privata, non “per tutti” (tale è definita in Anniversario: “il dono che sognavo / non per me ma per tutti / appartiene a me solo”) equivale a una sconfitta, ed ecco l’ultima sezione de La bufera (Conclusioni provvisorie), composta di due sole poesie, in cui nella prima (Piccolo testamento) si preannuncia la catastrofe del mondo occidentale, cui resiste soltanto la fiammella di una poesia che ha continuato, flebile ma tenace, a denunciare la negatività dell’esistenza; e nella seconda (Il sogno del prigioniero) si denuncia la condizione di prigionia in cui si vive (è una condizione esistenziale, a prescindere da riferimenti a lager nazisti o gulag staliniani, che pure sono evidentemente il motivo ispiratore) ed in cui si può solo sognare una vita diversa (cito il verso finale, bellissimo: “il mio sogno di te non è finito”: non è finita la speranza in un mondo diverso, ma quel tu rimanda ancora una volta ad una figura femminile; che sia Clizia o Volpe non importa, perché ogni significato allegorico porta in sé anche un significato letterale, e allora questa è anche la dichiarazione di un amore che non si estingue, di un amore che solo può liberare dalla prigionia, può salvare dalla negatività dell’esistenza: L’attesa è lunga, / il mio sogno di te non è finito).



Albe e notti qui variano per pochi segni.



Il zigzag degli storni[34] sui battifredi[35]

nei giorni di battaglia, mie sole ali,

un filo d'aria polare,

l'occhio del capoguardia dello spioncino,

crac di noci schiacciate, un oleoso

sfrigolio dalle cave, girarrosti

veri o supposti - ma la paglia é oro,

la lanterna vinosa é focolare

se dormendo mi credo ai tuoi piedi.



La purga dura da sempre, senza un perché.

Dicono che chi abiura e sottoscrive

può salvarsi da questo sterminio d'oche ;

che chi obiurga se stesso, ma tradisce

e vende carne d'altri, afferra il mestolo

anzi che terminare nel paté

destinato agl'Iddii pestilenziali.



Tardo di mente, piagato

dal pungente giaciglio mi sono fuso

col volo della tarma che la mia suola

sfarina sull'impiantito,

coi kimoni cangianti delle luci

sciorinate all'aurora dai torrioni,

ho annusato nel vento il bruciaticcio

dei buccellati[36] dai forni,

mi son guardato attorno, ho suscitato

iridi su orizzonti di ragnateli

e petali sui tralicci delle inferriate,

mi sono alzato, sono ricaduto

nel fondo dove il secolo è il minuto -



e i colpi si ripetono ed i passi,

e ancora ignoro se sarò al festino

farcitore o farcito. L'attesa é lunga,

il mio sogno di te non e finito.



Le Conclusioni provvisorie: Piccolo testamento



48.  Leggiamo Piccolo testamento:



Questo che a notte balugina

nella calotta del mio pensiero,

traccia madreperlacea di lumaca

o smeriglio di vetro calpestato,

non è lume di chiesa o d’officina

che alimenti

chierico rosso o nero.

Solo quest’iride posso

lasciarti a testimonianza

d’una fede che fu combattuta,

d’una speranza che bruciò più lenta

di un duro ceppo nel focolare.

Conservane la cipria nello specchietto

quando spenta ogni lampada

la sardana si farà infernale

e un ombroso Lucifero scenderà su una prora

del Tamigi, del Hudson, della Senna

scuotendo l’ali di bitume semi-

mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.

Non è un’eredità, un portafortuna

che può reggere all’urto dei monsoni

sul fil di ragno della memoria,

ma una storia non dura che nella cenere

e persistenza è solo l’estinzione.

Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato

non può fallire nel ritrovarti.

Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio

non era fuga, l’umiltà non era

vile, il tenue bagliore strofinato

laggiù non era quello di un fiammifero.



49.  Si era nel dopo guerra, in tempi di feroci polemiche sul ruolo degli intellettuali, e da sinistra si accusò Montale di essere un piccolo borghese, incapace di comprendere i conflitti della storia, di partecipare, con la sua scrittura, alle lotte per il progresso sociale. Montale rispose così:  L'argomento della mia poesia (...) è la condizione umana in sé considerata: non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio (...). Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia.” 

50.  Piccolo testamento è ancora una risposta a quelle accuse. La donna a cui il poeta si rivolge può essere Clizia o Volpe. Non conta, perché qui è il poeta che difende la sua testarda coerenza, il senso della sua poesia che è rimasta sempre fedele ad una ostinata ricerca morale, mai sedotta da dogmi e ideologie (da lume di chiesa o d’officina / che alimenti / chierico rosso o nero).

51.   Certo, quella della poesia è una luce debole (traccia madreperlacea di lumaca, smeriglio di vetro, tenue bagliore) che non può reggere alla violenza della storia (all’urto dei monsoni); ma è pur sempre una luce, e chi è capace di vederla e riconoscerla potrà salvarsi quando spenta ogni lampada / la sardana si farà infernale, quando le forze del male che agiscono nella storia prenderanno il sopravvento (la poesia è scritta nel 1953, e si sente qui l’angoscia per la possibilità di una catastrofe nucleare).



La svolta di Satura

52.  Satura è pubblicata nel 1971, e raccoglie poesie scritte dopo il 1964 (quindi dopo un lungo silenzio, coincidente con il periodo del boom economico e con l’affermarsi della moderna società di massa). Sono ancora quattro sezioni: Xenia I e Xenia II (il termine indicava in latino i doni che si fanno ad un ospite nel momento in cui abbandona la casa che lo ha accolto; le poesie sono infatti “donate”, come un’offerta votiva, alla moglie morta. Drusilla Tanzi, indicata col senhal di Mosca); Satura I e Satura II, in cui prevalgono temi polemici e parodici (il titolo, che è anche quello della raccolta, indica sia l’intento satirico dei componimenti, sia, nel suo significato etimologico di satura lanx, la varietà degli argomenti e dei motivi ispiratori).

53.  La novità (una vera e propria svolta) consiste nell’abbassamento del tono, sia nelle scelte tematiche che lessicali; è una poesia che tende alla prosa, che sembra rinunciare ad ogni ricercatezza retorica e che, tematicamente, prende spunto da episodi della quotidianità, privati, o comunque di cronaca più che di storia. Si veda in Piove la chiara parodia de La pioggia nel pineto di dannunziana memoria o ne La poesia l’effetto dissacratorio ottenuto usando facili rime baciate (questione-ispirazione, produce-conduce, surgelante-importante); ma si veda anche la polemica Lettera a Malvolio, in cui Montale rivendica la propria coerenza intellettuale ed accusa l’interlocutore-antagonista (Pasolini) di opportunismo.

54.   Caratteristica è anche l’autocitazione parodica, con cui l’autore riprende, ironicamente, motivi e oggetti di sue poesie precedenti (c’è quasi una negazione del valore simbolico e cognitivo che quegli elementi possedevano originariamente; e comunque, certamente, un sorridere sulla presunzione della propria poesia, ma anche, ambiguamente, un voler riproporre, su un registro più basso, la dignità e la coerenza del proprio percorso intellettuale: si veda in Botta e risposta I la molteplicità di riferimenti a cose e persone degli Ossi e delle Occasioni).



Mosca
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Drusilla Tanzi (Mosca)

55.  Quanto a Mosca, si tratta di una figura femminile ben diversa sia da Clizia (di cui non possiede la valenza divina e salvifica) che da Volpe (di cui non possiede la vitalità quasi animalesca): la sua capacità è quella di vedere (pur essendo le sue pupille “tanto offuscate”) dietro il velo della realtà che appare, di riconoscere e demistificare gli inganni delle ideologie, e dunque di guidare, col suo solido buon senso, il poeta stesso nel groviglio del mondo. Dunque si potrebbe dire che la figura di Clizia sta a quella di Mosca come la poesia delle raccolte precedenti (con il suo tono alto, i suoi rimandi metafisici, le sue allegorie) sta alla poesia di Satura (con il suo tono basso, che non vagheggia grandi valori, ma che tuttavia non rinuncia ad esistere e a pronunciare qualche parola di verità). Leggiamo Ho sceso dandoti il braccio:

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

Le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.



Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.



56.  Ma sono anche le poesie in cui ricorre il pensiero dei morti, in cui torna l’idea di una contiguità fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. E’ un’idea molto pascoliana e già presente ne Le occasioni (ricordate La casa dei doganieri e quel verso finale: “Ed io non so chi va e chi resta”), ma anche ne La bufera (L’arca, A mia madre, Voce giunta con le folaghe, Proda di Versilia). Ed ecco in Satura, una poesia di quattro versi, dedicata Mosca:



Avevamo studiato per l'aldilà

un fischio, un segno di riconoscimento.

Mi provo a modularlo nella speranza

che tutti siamo già morti senza saperlo.











 



[1] Il miraggio.
[2] Campana di Firenze che annunciava un pericolo.
[3] Montale ricorda che ci fu quel giorno un’invasione di farfalle bianche, e poi una morìa a causa del freddo improvviso.
[4] I parapetti dell’Arno.
[5] Era contenuto,
[6] L’inverno
[7] Si susseguono fino alle rive sabbiose dell’Arno.
[8]Nel teatro,dove avvenne l’incontro, lo spazio riservato all’orchestra .
[9] In festa.
[10] Ossimoro, a indicare i bottegai in festa.
[11] Immonda danza.
[12] Gli argini del fiume.
[13] Tutto procede come se tutto fosse naturale.
[14] Non è servita la presenza di Clizia, il valore della cultura?
[15] I fuochi d’artificio.
[16]Per la partenza di Clizia.
[17] Una stella cadente, una cometa.
[18] Nella Bibbia simboleggiano la semina del bene, destinata a dare frutti nel futuro.
[19] E’ un vento freddo del nord.
[20] La primavera ferita dal freddo e dalla caduta di farfalle.
[21] Se fa morire col suo gelo la morte rappresentata dall’orda.
[22] Come nell’epigrafe – Né quella che a veder lo sol si gira – sono versi tratti da un sonetto attribuito a Dante.
[23] La luce segreta dell’amore che conservi.
[24] Si annulli nella luce accecante del sole.
[25] Convegno di demoni.
[26] Disceso.
[27] Quelle delle farfalle.
[28] Torna il motivo dell’aridità, qui correlativo oggettivo di un mondo devastato dall’ideologia nazifascista. Ai “greti arsi del sud” si contrappongono i “ghiacci e le riviere” del nord, ove si sta recando Clizia.
[29] Rigagnoli.
[30] Fossati.
[31] Viva, vitale.
[32] Ramo secco, ricoperto di terra.
[33] La stessa anguilla, o i suoi occhi.
[34] Gli uccelli, ma anche gli aerei.
[35] Le torri di guardia.
[36] Ciambella toscana di pane dolce.

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