Premessa
1) Per questo
mio intervento ho scelto questo titolo, “I
tormenti di Tasso”, perché questo è l’aspetto che mi ha sempre affascinato
di Tasso, appunto il suo essere perennemente tormentato, mai in pace con se
stesso, inquieto e inquietante, lacerato
da contraddizioni tali da condurlo al manicomio. Non so se lo sapete, ma
Tasso, per volere del duca di Ferrara, Alfonso II d’Este, fu rinchiuso nel
manicomio di Sant’Anna per ben 7 anni, dal 1579 al 1586 (aveva dato in
escandescenze al matrimonio del duca; in un’altra occasione aveva lanciato un
coltello contro un servo; aveva manie di persecuzione).
2) Ricordo che
da ragazzo non avevo capito, e tanto meno amato, la poesia di Tasso. Ho
cominciato a interessarmi a lui all’università, figurarsi, quando leggevo Il male oscuro
di Giuseppe Berto. Berto, che in quel romanzo racconta delle ansie e delle
nevrosi che lo facevano stare male fisicamente, a un certo punto si sente
colpito da quel male oscuro proprio mentre stava passando in auto dalle parti
di Ferrara e gli viene in mente che potrebbe farsi ricoverare al Sant’Anna,
tanto sente simile il suo male al male di Tasso.
3) Poi ho
scoperto che Tasso è stato un mito per i
grandi romantici dell’Ottocento: per Leopardi, anzitutto, ma Goethe, Byron,
Stendhal avevano voluto visitare il Sant’Anna e gli ultimi due addirittura si
erano fatti rinchiudere nella cella in cui era stato rinchiuso Tasso, per
provare le sue stesse sensazioni, per sentirsi simili a lui.
4) Ho quindi
cominciato a leggere la sua opera, in particolare la Gerusalemme Liberata, e ne sono rimasto affascinato. Se dovessi
dire che cosa mi affascina di Tasso – oltre alle particolari inquietudini di
cui parlerò – è il fatto che si tratta di un poeta dotato di una straordinaria
sensibilità per l’amore e per la morte. Freud diceva che eros e thanatos, appunto l’amore e la morte, l’istinto di vita e
l’istinto di distruzione ad autodistruzione,
sono le due pulsioni fondamentali che determinano la vita umana. Ci sono dei poeti particolarmente
sensibili, e Tasso è uno di questi, all’eros e allo stesso tempo impauriti ed
attratti dal pensiero della morte. A questa categoria, secondo me,
appartengono altri due poeti, quanto mai distanti da Tasso, ma a lui vicini per
questo aspetto: uno è Petrarca e un altro è Pascoli.
5) Tasso ha
scritto anche altre opere di diverso genere, ma il suo capolavoro è senz’altro il poema la Gerusalemme liberata, e io parlerò di questo, spesso
confrontandolo con l’Orlando furioso,
il poema di argomento cavalleresco che Ariosto aveva elaborato un cinquantennio
prima presso la stessa corte di Ferrara, perché da questo confronto meglio risaltano quelli che ho chiamato “i tormenti
di Tasso”.
6) Devo
confessare che, preparando questo intervento, qualche pentimento l’ho avuto
sulla scelta dell’argomento, perché Tasso
non è un poeta di facile lettura, ha un tono aulico, sia come lessico che
come sintassi, quindi, siccome leggerò delle ottave, temo che non siano sempre
di immediata comprensione. Oltre a ciò, ho
dovuto selezionare alcuni episodi, più funzionali alla mia interpretazione,
tralasciandone altri altrettanto interessanti.
Il viaggiatore inquieto
7) L’inquietudine
di Tasso si manifesta già nel suo passare di corte in corte senza mai fermarsi
definitivamente. Nei primi anni segue il padre, che era anche lui un letterato
e gentiluomo di corte, ora a Urbino presso i Della Rovere, poi a Venezia, a
Padova, a Mantova; quindi a Ferrara, dal
1565 al 1575, gli anni forse più sereni della sua vita, e gli anni della
composizione delle opere più significative: una favola pastorale, l’Aminta, e il poema eroico, la Liberata. Poi ricomincia a girovagare:
Roma, Sorrento (dove era nato e dove
viveva sua sorella), Mantova, Urbino, Torino, quindi di nuovo Ferrara.
Dal Rinascimento alla Controriforma
8) Consideriamo
ora il contesto storico culturale in cui si trova ad operare Tasso, e, per
meglio capire le sue problematiche, confrontiamolo con quello in cui, appena
mezzo secolo prima, nella stessa Ferrara, si era trovato ad operare Ariosto. Ariosto era vissuto nel pieno Rinascimento,
nell’età in cui l’uomo, con la sua intelligenza e le sue capacità, era al
centro di tutto; un’età laica,
in cui il poeta non sentiva vincoli alla
propria creatività, poteva dare libero sfogo alla fantasia, senza scrupoli
morali e religiosi e senza la preoccupazione di dover seguire delle regole
precise per la composizione del suo poema: e il Furioso è lì a dimostrarcelo, con la miriade di avventure che si intrecciano, che si interrompono, si
riprendono, senza altra regola che il piacere che possono dare “le donne, i cavallier, l’armi, gli amori /
le cortesie, l’audaci imprese” che il poeta canta.
9) Con Tasso siamo
nella seconda metà del Cinquecento, negli anni
della cosiddetta Controriforma, gli anni in cui la Chiesa di Roma, tramite la Santa Inquisizione, controlla e condanna
tutto ciò che è sospetto di eresia. Naturalmente gli intellettuali, gli
scrittori, i produttori di cultura, sono particolarmente nel mirino. Il tempo della libertà creativa è finito,
c’è un ritorno forte
del motivo religioso, sia all’interno delle coscienze, come autentica
ansia morale, sincero tormento per il peccato, sia all’esterno, perché c’è la paura di essere inquisiti e condannati
per eresia. Significativamente, il secolo si chiude con la condanna al
rogo di Giordano Bruno (17 febbraio del 1600).
10) Non c’è
dubbio che questa atmosfera si riversi come un’ossessione su Tasso, il quale
per tutta la vita è tormentato da dubbi morali, addirittura chiede lui
stesso di essere esaminato dall’Inquisizione, rivede e corregge il
poema, toglie e aggiunge, al fine di produrre un’opera che non contenga
ambiguità dottrinali, che sia riconosciuta come perfettamente ortodossa. Non so
se lo sapete, alla fine ha rivisto il poema portandolo da 20 a 24 canti,
togliendo alcuni episodi e intitolandolo Gerusalemme
conquistata. Ma questo rifacimento sarà presto dimenticato, per i lettori il
capolavoro resterà sempre la Liberata.
L’ossessione per le regole
11) Ma
l’ossessione dell’ortodossia lo perseguita non solo sul piano delle regole
religiose, ma anche su quello delle regole artistiche. Come c’è
un’ortodossia religiosa, c’è un’ortodossia poetica da seguire, ed è
quella indicata dalla Poetica di Aristotele per il poema epico (la
pubblicazione della nuova traduzione del padovano Francesco Robortello,
aveva acceso le discussioni su quel testo). A differenza di Ariosto, che compone
liberamente, seguendo la propria fantasia e il proprio senso interiore della
giusta misura (dell’armonia), Tasso vuole comporre un poema che non
deroghi dalle regole aristoteliche, relative alle unità di tempo, di luogo, di
azione, di protagonista.
12) L’obiettivo
che Tasso persegue è l’unità, l’unità contro la molteplicità, l’unità contro la
dispersione. E questo è già significativo, sembra
che Tasso senta se stesso lacerato, frantumato, e cerchi un centro in cui
ricomporre in maniera unitaria la propria coscienza. Di questa ossessiva
ricerca non aveva bisogno Ariosto,
nella cui coscienza, e dunque nella sua opera, esisteva a priori una unità
antropocentrica, come, qualche secolo prima, non ne aveva bisogno Dante, la cui opera esprime una unità
teocentrica che è già indubitabile nella sua coscienza.
13) E dunque, per Tasso ci deve essere unità di tempo, il che vuol dire che le
vicende si devono svolgere in un tempo definito (nel caso della Liberata, si tratta degli ultimi mesi
dell’assedio di Gerusalemme da parte dei crociati fino alla sua conquista),
laddove nel Furioso non c’è assolutamente questa preoccupazione, le vicende si
svolgono in un tempo indefinito e indefinitamente aperto.
14) Anche il luogo deve essere unitario,
in questo caso Gerusalemme. Ogni fuoriuscita da questo luogo (cosa che infatti
succede a cavalieri – Rinaldo e Tancredi – che si fanno attrarre da altro che
non dal dovere di compiere la missione di liberare il santo sepolcro) deve
prevedere il rientro: a questo luogo – e
a questo dovere – tutto deve ritornare. Nel Furioso invece i luoghi
variano continuamente, dal reale all’immaginario, dalla Francia all’Africa
all’Asia, addirittura alla luna.
15) Unitaria deve essere l’azione (l’assedio
e la conquista di Gerusalemme) e unico deve essere il protagonista (Goffredo,
scelto da Dio perché porti a termine l’impresa). Le digressioni,
ovvero le avventure di Rinaldo e Tancredi, sono devianze che si esauriscono con
il rientro nell’azione centrale. Nel Furioso
le azioni sono molteplici (o tutt’al più riconducibili a tre grandi filoni: la guerra fra
cristiani e pagani, la pazzia di Orlando, le vicende di Ruggero) e non esiste, malgrado il titolo, un solo
protagonista (Rinaldo e Ruggero stanno alla pari con Orlando).
16) Per questo,
è stato detto, la Liberata è una “opera chiusa”,
nel senso che è ben delimitata nell’inizio (Dio, tramite l’arcangelo Gabriele,
affida a Goffredo il comando supremo perché sia liberato il santo sepolcro) e
nella conclusione (Goffredo scioglie il voto inginocchiandosi davanti al santo
sepolcro liberato). Il Furioso invece è una “opera aperta”,
perché, se l’avete presente, non ha un vero inizio, comincia in medias res in quanto riprende la
storia interrotta nell’Orlando innamorato di Boiardo, e non ha una vera
conclusione, visto che l’ultimo episodio – il duello fra Ruggero e Rodomonte –
è solo un episodio come tanti, non ha valore risolutivo, si potrebbe continuare
benissimo con altri canti e altri episodi.
17) Inoltre nel
poema di Tasso le vicende devono avere una base storica,
non devono essere di pura invenzione (nel caso della Liberata, si tratta della prima crociata, guidata da Goffredo di
Buglione alla fine dell’XI secolo) e tutto
ciò che si inventa su questa base deve essere verosimile. La verità
storica invece non interessava né Ariosto né Boiardo: nel Furioso si parla di una
battaglia di Parigi, che non è mai esistita, l’unico personaggio storico è il
re Carlo, ma le sue vicende, come quelle dei personaggi del poema, sono pura
invenzione.
18) Per questo
aspetto non conta tanto l’ossessione per le regole, conta soprattutto
l’ossessione religiosa. Per Tasso la
storicità delle vicende che si narrano è fondamentale per il valore moralmente
educativo che l’opera deve avere. Concedersi alla pura invenzione vuol dire
lasciarsi sedurre dal piacere, e questo è moralmente diseducativo. Fateci caso,
la rivendicazione del vero storico come base dell’opera letteraria è tipica
degli scrittori cattolici. Manzoni
grosso modo si attiene allo stesso principio: con i Promessi sposi scrive un romanzo storico e ciò che è inventato
deve essere rigorosamente verosimile.
Il confronto dei proemi: il Furioso
19) Se
confrontiamo ora le ottave introduttive dei due poemi, tutto questo si vede
chiaramente. Ecco il Furioso:
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le
cortesie, l’audaci imprese io canto,
che
furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa
il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo
l’ire e i giovenil furori
d’Agramante
lor re, che si diè vanto
di
vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
L’incipit è già una chiara dichiarazione che non c’è una vicenda unica e centrale, ma si narreranno le molteplici avventure di guerra e d’amore di cui sono protagonisti le donne e i cavalieri. Quanto ai Mori che vengono in Francia dall’Africa per fare guerra a Carlo (per vendicare la morte di Troiano: si riferisce a vicende che erano nell’Orlando innamorato, di cui il Furioso vuole essere la continuazione) non è un fatto storico, visto che un simile passaggio, caso mai, c’è stato al tempo di Carlo Martello; e nemmeno sono personaggi storici Agramante e Troiano. Poi continua:
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa
non detta in prosa mai né in rima:
che
per amor venne in furore e matto,
d’uom
che sí saggio era stimato prima;
se
da colei che tal quasi m’ha fatto,
che
’l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me
ne sará però tanto concesso,
che
mi basti a finir quanto ho promesso.
Qui si annuncia che un argomento, non l’unico, sarà la vicenda di Orlando che divenne pazzo per amore. Quindi, invece delle tradizionale invocazione alla Musa, segue, in modo sorridente, una sorta di preghiera alla propria donna (era una certa Alessandra Benucci) perché non lo faccia impazzire d’amore come ha fatto Angelica con Orlando, perché gli lasci il senno necessario per portare a termine l’opera. Segue la dedica al signore:
Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento
e splendor del secol nostro,
Ippolito,
aggradir questo che vuole
e
darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel
ch’io vi debbo, posso di parole
pagare
in parte e d’opera d’inchiostro;
né
che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.
Questa è la dedica cortigiana, encomiastica, al cardinale Ippolito d’Este, al cui servizio si trovava Ariosto. L’innalzamento del tono, quando ci si riferisce al cardinale, cui il poeta contrappone umilmente, con falsa modestia, se stesso e la propria opera, è da intendersi ironicamente, visto che sappiamo che Ariosto non aveva grande stima del cardinale, non lo riteneva generoso né capace di apprezzare la poesia. Quindi aggiunge:
Voi sentirete fra i piú degni eroi,
che
nominar con laude m’apparecchio,
ricordar
quel Ruggier, che fu di voi
e
de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto
valore e’ chiari gesti suoi
vi
farò udir, se voi mi date orecchio,
e
vostri alti pensier cedino un poco,
sí che tra lor miei versi abbiano loco.
Qui si enuncia l’altro filone narrativo, degno quanto quello di Orlando, che riguarda la vicenda d’amore di Ruggero (cavaliere pagano, che per amore si convertirà al cristianesimo) e Bradamante (guerriera cristiana), dal cui matrimonio si voleva che fossero discesi i signori d’Este. Nei versi finali ritorna evidente l’ironia nei confronti del cardinale sui cui “alti pensieri” Ariosto aveva forti dubbi.
Il confronto dei proemi: la Liberata
20) E queste sono le ottave introduttive della Liberata:
Canto
l’arme pietose, e ’l Capitano
Che
’l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto
egli oprò col senno e con la mano;
Molto
soffrì nel glorioso acquisto:
E
invan l’Inferno a lui s’oppose; e invano
s’armò
d’Asia e di Libia il popol misto:
Chè
’l Ciel gli diè favore, e sotto ai santi
Segni ridusse i suoi compagni erranti.
Nei primi due versi sono enunciati con precisione l’azione centrale e il protagonista, il Capitano, cioè Goffredo. Qui non ci sono “cortesie” e “audaci imprese”, ma si cantano le “arme pietose”, cioè si canta una guerra combattuta per pietas, per dovere religioso, per liberare “il gran sepolcro” “di Cristo”, non per mostrare il proprio valore. Si dice poi che al Capitano si opposero l’inferno e il “popol misto” d’Asia e di Libia, ma furono dalla sua parte il cielo e un popolo non misto, ma unito, perché Goffredo fu capace di ricondurre sotto il segno della croce “i compagni erranti”, cioè quei compagni che si erano allontanati dall’esercito e dall’assedio (e sono Tancredi e Rinaldo: erranti nel doppio senso della parola, che vagano altrove rispetto al luogo dell’azione e che sono in errore, sbagliano, perché vengono meno al loro dovere). Notate il riferimento al cielo e all’inferno, perchè questa è un’altra questione importante. Il cosiddetto “meraviglioso”, ovvero magie, incantesimi, insomma il soprannaturale, erano elementi caratteristici del poema cavalleresco. Nel Furioso c’è il mago Atlante, c’è la maga Alcina, c’è un cavallo alato e altre cose simili. Anche Tasso accoglie il soprannaturale, ma deve essere un soprannaturale cristiano, e pertanto verosimile: agiscono demoni infernali a fianco dei pagani e agiscono gli angeli del cielo a sostegno dell’esercito cristiano. Ed ecco ora le due ottave di invocazione alla musa, ottave difficili, segnate da un tono solenne, perché si tratta di una invocazione seria, profondamente convinta, non sorridente ed anche un po’ irridente come quella che Ariosto rivolgeva alla propria donna:
O Musa, tu, che di caduchi allori
Non
circondi la fronte in Elicona,
Ma
su nel Cielo infra i beati cori
Hai
di stelle immortali aurea corona;
Tu
spira al petto mio celesti ardori,
Tu
rischiara il mio canto, e tu perdona
S’intesso
fregj al ver, s’adorno in parte
D’altri diletti, che de’ tuoi le carte.
Sai che là corre il mondo, ove più versi
Di
sue dolcezze il lusinghier Parnaso;
E
che ’l vero condito in molli versi,
I
più schivi allettando ha persuaso.
Così
all’egro fanciul porgiamo aspersi
Di
soavi licor gli orli del vaso:
Succhi
amari, ingannato, intanto ei beve,
E dall’inganno suo vita riceve.
La musa è una musa cristiana, non pagana, non abita in Elicona (come le muse pagane), ma in cielo; il poeta le chiede non solo ispirazione, ma anche perdono perché “intesse fregi al ver”, cioè perché non si limita a riportare la verità storica, ma la abbellisce con delle invenzioni. Ma questo lo faccio, dice il poeta, perché così, con le storie piacevoli, attraggo i lettori e questi, una volta attratti, traggono beneficio dal grande valore morale dell’opera. E’ quello che si fa quando si dà una medicina amara ad un bambino: si cosparge di zucchero l’orlo del bicchiere, così lui sente il dolce, ma intanto beve la medicina che lo farà guarire. Ed ecco ora, altrettanto sincera e convinta, la dedica al signore, Alfonso d’Este, una dedica così diversa da quella falsamente solenne e sostanzialmente ironica che Ariosto aveva rivolto al cardinale Ippolito:
Tu magnanimo Alfonso, il qual ritogli
Al
furor di fortuna, e guidi in porto
Me
peregrino errante, e fra gli scoglj,
E
fra l’onde agitato, e quasi absorto;
Queste
mie carte in lieta fronte accogli,
Che
quasi in voto a te sacrate i’ porto.
Forse
un dì fia, che la presaga penna
Osi scriver di te quel ch’or n’accenna.
È ben ragion, (s’egli averrà ch’in pace
Il
buon popol di Cristo unqua si veda,
E
con navi e cavalli al fero Trace
Cerchi
ritor la grande ingiusta preda,)
Ch’a
te lo scettro in terra o, se ti piace
L’alto
imperio de’ mari a te conceda.
Emulo
di Goffredo, i nostri carmi
Intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi.
Tu sei colui, dice il poeta rivolto ad Alfonso, che ha dato un porto a me che rischiavo di naufragare, hai dato un po’ di pace alla mia vita travagliata (e noi sappiamo che questa è la pura verità, perché solo lì, a Ferrara, e solo in quegli anni, Tasso ha trovato la tranquillità ed ha interrotto il suo continuo peregrinare di corte in corte). Dunque accetta questo poema, che io offro a te come un voto sacro. Ed io ti auguro di poter guidare l’esercito o la flotta cristiana, se mai capiterà che il popolo cristiano voglia indire una nuova crociata per togliere di nuovo ai Turchi (“al fero Trace”) “la grande ingiusta preda”, cioè il santo sepolcro, di cui loro si sono impadroniti ingiustamente (i tempi erano quelli, ricordiamo che nel 1571 c’era stata la battaglia di Lepanto, in cui la flotta cristiana aveva sconfitto quella turca e in Europa circolava l’idea di una nuova crociata).
La differenza di ideologia fra i due poemi
21) Consideriamo ora l’aspetto ideologico del poema, i valori che vuole comunicare e confrontiamolo ancora una volta con il Furioso. La Liberata vuole essere un poema altamente educativo, dal punto di vista morale e religioso. Ciò di cui si narra è la lotta del bene contro il male; in opposizione ai cristiani, che rappresentano il bene, non c’è una religione diversa, ma altrettanto degna: c’è la volontà del male, con cui non ci può essere niente in comune. Che di questo si tratti (cioè di una lotta fra il bene e il male, e non di una contesa fra due diverse religioni) è dimostrato dal fatto che nella guerra parallela che coinvolge la divinità, l’avversario del dio cristiano (o di Cristo) non è il dio musulmano (o Maometto), ma satana stesso. Piccola parentesi: quando facevo lezione mi capitava di avere degli alunni musulmani e facevo fatica a spiegare questo; non pareva tanto bello che i fedeli di un’altra religione fossero presentati come fedeli del demonio…
22) Nel Furioso l’aspetto religioso è del tutto secondario, non più di un pretesto per consentire le audaci imprese dei cavalieri; e i cavalieri, cristiani e pagani, hanno in comune lo stesso codice d’onore (nel I canto Rinaldo e Ferraù interrompono il duello per inseguire Angelica in groppa allo stesso cavallo: e Ariosto commenta “Oh gran bontá de’ cavallieri antiqui! / Eran rivali, eran di fé diversi, / e si sentian degli aspri colpi iniqui / per tutta la persona anco dolersi; / e pur per selve oscure e calli obliqui / insieme van senza sospetto aversi”), credono negli stessi valori, perseguono gli stessi obiettivi, realizzano se stessi in avventure individuali, d’amore e di guerra. In Tasso invece l’avventura è devianza (deviante è l’individualismo, e dunque “compagni erranti” sono Rinaldo e Tancredi), il cavaliere deve compiere una missione religiosa (e collettiva), in nome della quale deve rinunciare alla libera autodeterminazione ed assoggettare la sua volontà a quella del capitano (che è poi la volontà di Dio).
Il discorso di Satana
23) Ma se ora
leggiamo le ottave della Liberata in
cui Satana convoca i diavoli e rivolge loro un discorso per esortarli ad andare
in aiuto dei pagani, non possiamo non
avvertire il segno di contraddizione che alberga nell’animo di Tasso:
Tartarei
Numi, di seder più degni
Là
sovra il Sole, ond’è l’origin vostra,
Che
meco già dai più felici regni
Spinse
il gran caso in questa orribil chiostra;
Gli
antichi altrui sospetti, e i fieri sdegni
Noti
son troppo, e l’alta impresa nostra.
Or
colui regge a suo voler le stelle,
E noi siam giudicate alme rubelle.
Poi ricorda che sono stati cacciati dal cielo e relegati “in questo abisso oscuro”, dove addirittura il figlio del nemico, cioè di Dio, ha osato mettere piede e ha prelevato delle anime che ha portato con sé in cielo.
Ma
chè rinnovo i miei dolor parlando?
Chi
non ha già l’ingiurie nostre intese?
Ed
in qual parte si trovò, nè quando
Ch’egli
cessasse dalle usate imprese?
Non
più dèssi alle antiche andar pensando,
Pensar
dobbiamo alle presenti offese.
Deh non vedete
omai come egli tenti
Tutte al suo culto richiamar le genti?
Noi
trarrem neghittosi i giorni, e l’ore,
Nè
degna cura fia che ’l cor n’accenda?
E
soffrirem che forza ognor maggiore
Il
suo popol fedele in Asia prenda?
E
che Giudea soggioghi, e che ’l suo
onore,
Che ’l nome suo
più si dilati e stenda?
Che suoni in
altre lingue, e in altri carmi
Si scriva, e incida in nuovi bronzi, e marmi?
Che
sian gl’Idoli nostri a terra sparsi?
Che i nostri
altari il mondo a lui converta?
Ch’a
lui sospesi i voti, a lui sol’arsi
Siano
gl’incensi, ed auro e mirra offerta?
Ch’ove a noi
tempio non solea serrarsi,
Or via non resti
all’arti nostre aperta?
Che
di tant’alme il solito tributo
Ne manchi, e in voto regno alberghi Pluto?
Ah
non fia ver, chè non sono anco estinti
Gli spirti in
noi di quel valor primiero,
Quando
di ferro e d’alte fiamme cinti
Pugnammo
già contra il celeste impero.
Fummo,
io nol nego, in quel conflitto vinti;
Pur non mancò
virtute al gran pensiero:
Ebbero i più
felici allor vittoria;
Rimase a noi d’invitto ardir la gloria.
Il passo è esemplare perché mette in luce il cosiddetto “bifrontismo
spirituale” o doppio codice o conflittualità interna, presente nella Liberata.
Qui Satana non è rappresentato come il
male assoluto, ma come un combattente valoroso che ha osato ribellarsi, in
nome della libertà, non al bene assoluto, ma a un potere autoritario che non
tollera il pluralismo e che intende imporre un dominio universale, riducendo al
silenzio ogni altra voce. Si capisce allora come dietro la metafora
della guerra fra cristiani e musulmani sia rappresentato il conflitto fra due codici ideologici di
comportamento: quello laico, pluralista, libertario (di cui sono campioni i
pagani) e quello religioso, universalista (imperialista), autoritario (di cui
sono campioni i cristiani). E si capisce anche che i cristiani sono il modello di comportamento della Controriforma,
che combatte contro il modello di comportamento dell'età precedente,
fatto di libertà, laicismo, ecc., ovvero contro il mondo del Furioso
(sorprendentemente, qui, rappresentato dai pagani). Ne consegue questo
corollario: la lotta del “capitano”
contro i “compagni erranti”, per ricondurli al giusto comportamento,
rappresenta la lotta che l’ortodossia cattolica deve combattere contro l’eresia.
E infine si capisce anche come l'esigenza
aristotelica di unità sia l'esigenza di ordinare sotto un unico principio (come vogliono fare i cristiani sotto il
segno della croce) ciò che invece vorrebbe essere dispersivo, centrifugo,
diverso (tale è l'avventura cavalleresca, cosiccome la devianza eretica: ci si
lascia sedurre da altro che non dall'unico bene).
24) Potremmo dire che in un
certo senso Tasso si tradisce, certamente mostra appieno la lacerazione
della sua coscienza: aderisce certamente
al codice cristiano, ma sente il fascino dell’altro codice, quello pagano che,
sorprendentemente, rimanda ad ideali e valori propri del Rinascimento
(l’onore, il coraggio, la lealtà, la virtù nelle armi): non a caso a questi
ideali fa riferimento la pagana Clorinda
quando chiede ed ottiene da Aladino la liberazione di Olindo e Sofronia (ci dobbiamo affidare al valore guerriero,
dice, non alla magia nera); laddove Goffredo,
quando si rivolge all’esercito per sollecitarlo all’ultima impresa, sostiene
che le vittorie dei cristiani sono
soprattutto “opera del Cielo”). Di qui quello che i lettori hanno sempre
avvertito, ovvero la freddezza dei
personaggi positivi (Goffredo, Pier l'eremita) e la simpatia per gli sconfitti (da Satana, appunto, che appare
come un campione del libero pensiero, ai “compagni erranti”, tipo Rinaldo e
Tancredi, che si lasciano sedurre dall'"avventura" invece di
corrispondere al "servizio"). Si direbbe insomma che Tasso aveva
qualche ragione quando si faceva esaminare dall’Inquisizione: sentiva che la
sua coscienza era autenticamente lacerata, sottoposta ad impulsi contrastanti.
L’attrazione per l’eros:
Tancredi e Clorinda
25) Lo stesso contrasto si può
avvertire fra un sincero anelito religioso e un altrettanto sincera attrazione
per ciò che è sensuale, una raffinata sensibilità per l’erotismo. Questo si
vede già nella favola pastorale (l’Aminta), ma si ritrova in alcune
ottave della Liberata. Fra le altre, a me sembrano particolarmente rivelatrici quelle che descrivono l’innamoramento di
Tancredi per Clorinda e infine il loro duello mortale. Prima di leggerle,
bisognerà dire qualcosa sui due personaggi. Clorinda è una valorosa guerriera
pagana, che però, con elmo ed armatura, sembra un uomo. E’ stata addestrata
come un guerriero, ed è stata educata nella religione musulmana, non sa di
essere figlia di una madre cristiana che l’avrebbe voluta cristiana, lo
scoprirà solo prima del duello fatale. Tancredi se ne è innamorato perdutamente
quando l’ha vista un giorno sulla riva di un fiume dove si era tolta l’elmo per
rinfrescare la faccia:
Quivi a lui d'improviso una donzella
tutta, fuor che la fronte, armata apparse:
era pagana, e là venuta anch'ella
per l'istessa cagion di ristorarse.
Egli mirolla, ed ammirò la bella
sembianza, e d'essa si compiacque, e n'arse.
Oh meraviglia! Amor, ch'a pena è nato,
già grande vola, e già trionfa armato.
Ella d'elmo coprissi, e se non era
ch'altri quivi arrivàr, ben l'assaliva.
Partì dal vinto suo la donna altera,
ch'è per necessità sol fuggitiva;
ma l'imagine sua bella e guerriera
tale ei serbò nel cor, qual essa è viva;
e sempre ha nel pensiero e l'atto e 'l loco
in che la vide, esca continua al foco.
26) L’aveva poi incontrata di nuovo, nel furore di una battaglia, e anche allora un colpo le aveva fatto saltare l’elmo e Tancredi non aveva avuto più la forza di combattere, anzi le aveva dichiarato il suo amore, lasciandola interdetta:
Clorinda intanto ad incontrar l’assalto
Va di Tancredi, e pon la lancia in resta.
Ferirsi alle visiere, e i tronchi in alto
Volaro, e parte nuda ella ne resta:
Chè, rotti i laccj all’elmo suo, d’un salto
(Mirabil colpo!) ei le balzò di testa:
E le chiome dorate al vento sparse,
Giovane donna in mezzo ’l campo apparse.
Lampeggiar gli occhj, e folgorar gli sguardi
Dolci nell’ira, or che sarian nel riso?
Tancredi, a chè pur pensi? a chè pur guardi?
Non riconosci tu l’amato viso?
Quest’è pur quel bel volto, onde tutt’ardi:
Tuo core il dica, ov’è il suo esempio inciso:
Questa è colei che rinfrescar la fronte
Vedesti già nel solitario fonte.
Ei ch’al
cimiero, ed al dipinto scudo
Non badò prima, or, lei veggendo, impetra.
Ella, quanto può meglio, il capo ignudo
Si ricopre, e l’assale; ed ei s’arretra.
Va contra gli altri, e ruota il ferro crudo;
Ma però da lei pace non impetra;
Che minacciosa il segue, e volgi, grida:
E di due morti in un punto lo sfida.
Percosso
il cavalier non ripercote;
Nè sì dal ferro a riguardarsi attende,
Come a guardar i begli occhj e le gote,
Ond’Amor l’arco inevitabil tende.
Fra sè dicea: “van le percosse vote
Talor che la sua destra armata scende:
Ma colpo mai del bello ignudo volto
Non cade in fallo, e sempre il cor m’è colto”.
Risolve
alfin, benchè pietà non spere,
Di non morir, tacendo, occulto amante.
Vuol ch’ella sappia ch’un prigion suo fere
Già inerme, e supplichevole e tremante.
Onde le dice: “o tu che mostri avere
Per nemico me sol fra turbe tante,
Usciam di questa mischia; ed in disparte
Io potrò teco, e tu meco provarte.
Così me’
si vedrà s’al tuo s’agguaglia
Il mio valore”; ella accettò l’invito:
E come esser senz’elmo a lei non caglia,
Gía baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
Recata s’era in atto di battaglia
Già la Guerriera, e già l’avea ferito;
Quand’egli, “or ferma, disse; e siano fatti
Anzi la pugna della pugna i patti”.
Fermossi, e lui di pauroso audace
Rendè in quel punto il disperato amore.
“I patti sian, dicea, poichè tu pace
Meco non vuoi, che tu mi tragga il core.
Il mio cor, non più mio, s’a te dispiace
Ch’egli più viva, volontario more.
È tuo gran tempo: e tempo è ben che trarlo
Omai tu debba; e non debb’io vietarlo:
Ecco, le
braccia inchino, e t’appresento
Senza difesa il petto: or che nol fiedi?
Vuoi ch’agevoli l’opra? io son contento
Trarmi l’usbergo or or, se nudo il chiedi”.
Distinguea forse in più duro lamento
I suoi dolori il misero Tancredi;
Ma calca l’impedisce intempestiva
De’ Pagani e de’ suoi che soprarriva.
Cedean cacciati dallo stuol Cristiano
I Palestini, o sia temenza od arte.
Un de’ persecutori, uomo inumano,
Videle sventolar le chiome sparte,
E da tergo in passando, alzò la mano
Per ferir lei ne la sua ignuda parte;
Ma Tancredi gridò, che se n’accorse,
E con la spada a quel gran colpo accorse.
Pur non
gì tutto invano, e ne’ confini
Del bianco collo il bel capo ferille.
Fu levissima piaga, e i biondi crini
Rosseggiaron così d’alquante stille,
Come rosseggia l’or che di rubini
Per man d’illustre artefice sfaville.
Ma il Prence infuriato, allor si spinse
Addosso a quel villano, e ’l ferro strinse.
Quel si
dilegua, e questi acceso d’ira
Il segue; e van come per l’aria strale.
Ella riman sospesa, ed ambo mira
Lontani molto, nè seguir le cale:
Ma co’ suoi fuggitivi si ritira;
Talor mostra la fronte, e i Franchi assale:
Or si volge, or rivolge, or fugge, or fuga;
Nè si può dir la sua caccia, nè fuga.
27) Notate come lei rimanga interdetta per le parole e per il comportamento di Tancredi: ascolta, incredula, la dichiarazione d’amore di Tancredi e poi, come stordita, subisce le vicende seguenti (è salvata da Tancredi, che devia un colpo a lei diretto; ferita di striscio, osserva “sospesa” Tancredi che insegue l’assalitore) e, vieppiù, quando si ritira coi suoi (il suo fuggire e poi voltarsi contro il nemico è, sì, una tattica di combattimento, ma è anche il segno di una perplessità esistenziale, messa in moto da quelle inaspettate parole d’amore). E notate come ripetutamente compaia il richiamo alla nudità (per ben cinque volte): del capo o del collo, ma è uno svelamento della natura femminile che porta con sé trasparenti implicazioni sensuali. Ed anche il sangue che riga il collo di lei e schizza sui suoi capelli biondi non evoca orrore, ma qualcosa di piacevole, visto il paragone che descrive l’immagine: “ne’ confini / del bianco collo il bel capo ferille. / Fu levissima piaga, e i biondi crini / rosseggiaron così d’alquante stille, / come rosseggia l’or che di rubini / per man d’illustre artefice sfaville.”
28) Qualcuno ha parlato di un destino
larvale di Clorinda, nel senso che la
educazione virile che ha ricevuto, il suo indossare l’armatura, costituiscono
una sorta di scorza che copre e nasconde la sua vera natura che è femminile.
Ma è nel duello finale con Tancredi che questa scorza è destinata a rompersi,
la larva si schiude e Clorinda si rivela pienamente donna.
29) Insieme ad Argante, un valoroso guerriero pagano, Clorinda è uscita
da Gerusalemme assediata e ha dato fuoco alla torre di legno che i crociati
hanno costruito per assaltare le mura della città. Dopo l’azione Argante riesce
a rientrare dentro le mura, Clorinda invece, trattenuta in uno scontro con un
guerriero cristiano, trova chiuse le porte; Tancredi la vede, non la riconosce
perché per l’occasione non indossa la sua solita armatura, la insegue e la
affronta in duello. E’ un duello feroce, senza risparmio di colpi:
Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
degno a cui
sua virtú si paragone.
Va girando
colei l’alpestre cima
verso altra
porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli
impetuoso, onde assai prima
che giunga,
in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si
volge e grida: "O tu, che porte,
che corri
sí?" Risponde: "E guerra e morte."
"Guerra e morte avrai;" disse "io non rifiuto
darlati, se
la cerchi", e ferma attende.
Non vuol
Tancredi, che pedon veduto
ha il suo
nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna
l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza
l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a
ritrovar non altrimenti
che duo tori
gelosi e d’ira ardenti.
(….)
Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion
costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i
colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie
l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade
orribilmente urtarsi
a mezzo il
ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il
piè fermo e la man sempre ’n moto,
né scende
taglio in van, né punta a vòto.
L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la
vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre
al ferir, sempre a la fretta
stimol novo
s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or
piú si mesce e piú ristretta
si fa la
pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’
pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con
gli elmi insieme e con gli scudi.
Tre volte
il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed
altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al
ferro, e l’uno e l’altro il tinge
con molte piaghe;
e stanco ed anelante
e questi e
quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.
A questo punto Tancredi rompe il silenzio e chiede all’avversario, che sta battendosi così valorosamente, di rivelargli il suo nome.
Risponde la feroce: "Indarno chiedi
quel c’ho
per uso di non far palese.
Ma chiunque
io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei
due che la gran torre accese."
Arse di
sdegno a quel parlar Tancredi,
e: "In
mal punto il dicesti"; indi riprese
"il tuo
dir e ’l tacer di par m’alletta,
barbaro
discortese, a la vendetta."
Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,
benché
debili in guerra. Oh fera pugna,
u’ l’arte in
bando, u’ già la forza è morta,
ove, in
vece, d’entrambi il furor pugna!
Oh che
sanguigna e spaziosa porta
fa l’una e
l’altra spada, ovunque giugna,
ne l’arme e
ne le carni! e se la vita
non esce,
sdegno tienla al petto unita.
(…)
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ’l viver
di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di
punta
che vi s’immerge e ’l sangue avido
beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già
sente
morirsi, e ’l piè le manca egro e
languente.
Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine
minacciando incalza e preme.
Ella, mentre
cadea, la voce afflitta
movendo,
disse le parole estreme;
parole ch’a
lei novo un spirto ditta,
spirto di
fé, di carità, di speme:
virtú ch’or
Dio le infonde, e se rubella
in vita fu,
la vuole in morte ancella.
"Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora,
al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sí;
deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave."
Tancredi si precipita ad un vicino ruscello, riempie d’acqua l’elmo e torna per battezzare Clorinda morente. Le toglie l’elmo e naturalmente la riconosce. Si fa forza per non svenire e la battezza. Lei muore e anche lui perde i sensi (anche lui ha perso molto sangue nel duello). Morirebbe, se non fosse che passa una pattuglia di Franchi e lo porta in salvo.
Il duello si configura, a tratti, come un abbraccio, dietro i due guerrieri si intravedono i due amanti (Tre volte il cavalier la donna stringe / con le robuste braccia; ed altrettante / da que’ nodi tenaci ella si scinge; / nodi di fer nemico, e non d’amante: si noti il contrasto fra l’irruenza maschile di lui e l’eleganza muliebre di lei che “si scinge”). Infine, nell’ottava che descrive il colpo mortale si attua lo scioglimento-rivelazione (Spinge egli il ferro nel bel sen di punta / che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve; / e la veste, che d’or vago trapunta / le mammelle stringea tenera e leve, / l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente / morirsi, e ‘l pié le manca egro e languente). Non vediamo più la corazza, il rivestimento militare di Clorinda, ma la veste “tenera e leve”, “d’or vago trapunta”; né vediamo le membra indurite, cui si accennava nella presentazione, ma il “bel seno”, “le mammelle” su cui aderisce, leggera e trasparente, la sottoveste. Di contro, la violenza del “ferro”, che viene “spinto” “di punta” e che fa sì che sgorghi un “caldo fiume” di sangue: nell’atto in cui si squarcia la larva d’acciaio, il destino di donna di Clorinda si realizza nell’immagine dell’evento nuziale. La metamorfosi si compie nel momento della morte, ma l’atto che dà la morte è, in maniera trasparente, l’atto coniugale (tutti gli elementi vi alludono: la durezza del ferro che trafigge, la tenerezza delle membra di lei, il caldo fiume, il languore finale: la violenza trapassa in raffinato erotismo)
30) Elementi di erotismo si possono trovare anche in altri episodi, elementi a volte sottintesi, magari nascosti dietro i buoni sentimenti, come nell’episodio di Olindo e Sofronia, a volte invece espliciti, come nell’episodio di Rinaldo sedotto e soggiogato da Armida nelle isole Fortunate. Ma Armida è una maga incantatrice, che ha il compito di sedurre i cavalieri cristiani perché dimentichino il loro dovere di liberare il santo sepolcro. Dunque la sua sensualità è assolutamente peccaminosa, il male a cui ci si deve sottrarre, il negativo demoniaco che si oppone alla volontà di Dio e che quindi sarà sconfitto. Ma nel caso di Clorinda la sensualità emerge inaspettata, involontaria, non è opera del male, perché Clorinda ha buoni sentimenti, è sì pagana, ma per errore, tant’è che alla fine chiede il battesimo; ciò nonostante la sensualità è sempre peccaminosa, perché confligge con il dovere religioso, dunque sarà in qualche modo camuffata, allusa, lasciata intravvedere, a testimonianza, ancora una volta, della doppiezza della coscienza di Tasso.
La grande morte di Argante e Solimano
31) Vorrei infine leggere alcune ottave che chiariscono il carattere e il valore dei guerrieri pagani nei momenti finali dell’assedio, quando ormai soccombono di fronte all’ultimo assalto dei crociati e vanno incontro al loro destino di morte. I guerrieri in questione sono Argante e Solimano. Argante è il più forte guerriero pagano, Gerusalemme è ormai espugnata, ma lui continua a combattere come un leone, non vuol darsi per vinto se non da morto: “e pugna sol fra gli inimici avolto, / più che morir temendo esser respinto; / e vuol morendo anco parer non vinto”. E’ raggiunto da Tancredi, che lo sfida a battersi con lui in "singolar tenzone":
Escon della Cittade, e dan le spalle
Ai padiglion delle accampate genti:
E se ne van dove un girevol calle
Gli porta per secreti avvolgimenti:
E ritrovano ombrosa angusta valle
Tra più colli giacer; non altrimenti
Che se fosse un teatro: o fosse ad uso
Di battaglie, e di cacce intorno chiuso.
Quì si fermano entrambi: e pur sospeso
Volgeasi
Argante alla Cittade afflitta.
Vede Tancredi che ’l Pagan difeso
Non è di scudo, e ’l suo lontano ei gitta.
Poscia lui dice: “or
qual pensier t’ha preso?
Pensi ch’è
giunta l’ora a te prescritta?
S’antivedendo
ciò timido stai,
È il tuo timore intempestivo omai”.
“Penso,
risponde, alla Città del regno
Di Giudea antichissima
Regina,
Che vinta or
cade; e indarno esser sostegno
Io procurai
della fatal ruina.
E ch’è poca vendetta al mio disdegno
Il capo tuo, che ’l Cielo or mi destina”.
Tacque, e incontra si van con gran risguardo:
Chè ben conosce l’un l’altro gagliardo.
Il duello finirà con la vittoria di Tancredi e la morte di Argante. Ma nel momento in cui quest’ultimo si volge verso Gerusalemme e rimane “sospeso”, pensieroso, dimostra una statura, una consapevolezza del senso delle vicende umane, ben superiore a quella di Tancredi, il quale meschinamente insinua che l’esitazione di Argante sia dovuta alla sua paura di morire. Argante invece vede in quel momento la caducità della vita, il destino di morte che riguarda non solo gli uomini, ma le città e i regni. E in questo è in sintonia con lo stesso autore, il quale aveva espresso pensieri simili di fronte alle rovine di Cartagine (ci passano davanti Carlo e Ubaldo, inviati verso le isole Fortunate alla ricerca di Rinaldo): “Giace l’alta Cartago; appena i segni / Dell’alte sue ruine il lido serba. / Muojono le Città, muojono i regni: / Copre i fasti e le pompe arena ed erba: / E l’uom d’esser mortal par che si sdegni: / O nostra mente cupida e superba!”
32) Una statura altrettanto grande dimostra Solimano, il capo dei predoni arabi, il quale si è asserragliato nella torre di Davide, osserva la battaglia che si svolge per le strade, quindi decide di gettarsi nella mischia e di affrontare il suo destino:
Or mentre in guisa tal fera tenzone
è
tra 'l fedel essercito e 'l pagano,
salse in cima a la torre ad un balcone
e
mirò, benché lunge, il fer Soldano;
mirò, quasi in teatro od in agone,
l'aspra tragedia de lo stato umano:
i vari assalti e 'l fero orror
di morte
e i gran giochi del caso e de la
sorte.
74 Stette attonito alquanto e stupefatto
a
quelle prime viste; e poi s'accese,
e
desiò trovarsi anch'egli in atto
nel periglioso campo a l'alte imprese.
Né pose indugio al suo desir, ma ratto
d'elmo s'armò, ch'aveva ogn'altro arnese:
-
Su su, - gridò - non più, non più dimora:
convien ch'oggi si vinca o che si mora. -
75 O che sia forse il proveder divino
che spira in lui la furiosa mente,
perché quel giorno sian del palestino
imperio le reliquie in tutto spente;
o che sia ch'a la morte omai vicino
d'andarle incontra stimolar si
sente,
impetuoso e rapido disserra
la porta, e porta inaspettata guerra.
Uccide molti nemici, finché incontra Rinaldo che ha appena abbattuto, con un colpo tremendo, il pagano Adrasto
104 Lo stupor, di spavento e d'orror
misto,
il sangue e i cori a i circostanti agghiaccia,
e
Soliman, ch'estranio colpo ha visto,
nel cor si turba e impallidisce in faccia,
e chiaramente il suo morir
previsto,
non si risolve e non sa quel che faccia;
cosa insolita in lui, ma che non regge
de gli affari qua giù l'eterna legge?
105 Come vede talor torbidi sogni
ne' brevi sonni suoi l'egro o l'insano,
pargli ch'al corso avidamente agogni
stender le membra, e che s'affanni invano,
ché ne' maggiori sforzi a' suoi bisogni
non corrisponde il piè stanco e la mano,
scioglier talor la lingua e parlar vòle,
ma non seguon la voce o le parole;
106 così
allora il Soldan vorria rapire
pur se stesso a l'assalto e se
ne sforza,
ma non conosce in sé le solite
ire,
né sé conosce a la scemata
forza.
Quante
scintille in lui sorgon d'ardire,
tante un secreto suo terror n'ammorza:
volgonsi nel suo cor diversi sensi,
non che fuggir, non che ritrarsi
pensi.
107 Giunge all'irresoluto il vincitore,
e
in arrivando (o che gli pare) avanza
e
di velocitade e di furore
e
di grandezza ogni mortal sembianza.
Poco ripugna quel; pur mentre more,
già non oblia la generosa
usanza:
non fugge i colpi e gemito non
spande,
né atto fa se non se altero e grande.
33) Solimano ha già visto, guardando dalla torre, “l'aspra tragedia de lo stato umano: / i vari
assalti e 'l fero orror di morte / e i gran giochi del caso e de la sorte”.
Nella sua mente si è già insinuato il
dubbio sulla insensatezza delle vicende umane; avverte come tragica la
condizione umana, vede l’orrore di morte portato dalla guerra. Quindi
si lancia nella mischia, ma sa di andare incontro alla morte. Quando vede la
furia di Rinaldo, ha “chiaramente il suo
morir previsto”; vorrebbe battersi, lanciarsi all’assalto, ma non ne ha la
forza (come succede, dice il poeta, a chi in sogno vorrebbe correre e non
riesce, vorrebbe parlare e non riesce); non
è viltà, perché “non che
fuggir, non che ritrarsi pensi” e poi “non
fugge i colpi e gemito non spande, né atto fa se non se altero e grande”. La morte gli fa paura, ma anche lo
attrae, perché ormai è pervaso dal dubbio profondo sul senso della vita,
non solo della sua vita, ma di ogni vita umana. Che sia un pagano infedele
a mettere in dubbio il senso della vita potrebbe essere coerente con il
presupposto che il senso lo può dare soltanto la vera fede, quella cristiana. Ma se un po’ della angoscia esistenziale
che paralizza Solimano trapassa nella coscienza cristiana di Tasso, allora
abbiamo un’altra prova dei suoi tormenti, allora anche per lui la vita perde di
senso e tutto vacilla, oserei dire anche la fede.
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