Cosa insegna la naturae species ratioque su morte o reincarnazione
1)
Tale conoscenza ci dice che tutta la realtà è costituita di atomi, i
quali, aggregandosi fra loro, formano i corpi. Anche l’anima[1] è fatta
di atomi, più leggeri e meno connessi di quelli del corpo. La morte non è altro che una disaggregazione di tali atomi, sia di
quelli del corpo che di quelli dell’anima. E’
l’idea che l’anima persista, e con essa persistano la coscienza e la memoria, a
generare angoscia, mentre invece con la disaggregazione degli atomi cessa ogni forma di coscienza e di
sensibilità. Ci dà angoscia il vederci inumati sotto terra o cremati in
un rogo, ma è perché proiettiamo la nostra coscienza e sensibilità laddove
coscienza e sensibilità non esistono più.
2)
Con
la morte non esiste più la nostra individualità cosciente, come non esisteva
prima che nascessimo; e come nessuna sofferenza abbiamo
patito prima della nascita, così nessuna sofferenza patiremo dopo la morte. E quand’anche in futuro gli atomi si
ricomponessero allo stesso modo, ricostituendo la stessa individualità (è
l’ipotesi della cosiddetta metempsicosi,
ovvero della rinascita o reincarnazione),
ebbene, nemmeno questo ci riguarderebbe, perché sarebbe sempre un altro io, senza alcuna memoria dell’io precedente.
Nel poema non c’è la pulsione di
morte, ma sì l’orrore per la guerra
3)
Con tutto ciò, che c’entrano l’amore e
la morte, Eros e Thanatos, nel senso in cui ne parlava Freud? Certo, se Eros
inteso come pulsione sessuale può essere riconosciuto in quel bisogno naturale
che deve essere soddisfatto di cui parla Lucrezio, lo stesso non può dirsi
di Thanatos, inteso da Lucrezio non
come una pulsione distruttiva ed autodistruttiva, ma – abbiamo visto – come
un pensiero angosciante da cui bisogna liberarsi. Tuttavia anche nel poema di Lucrezio si può individuare
una pulsione aggressiva che induce alla guerra, portatrice di morte.
4)
Quando parla di guerra Lucrezio parla
della sua ferocia (fera
moenera militiai, belli fera moenera, i feroci doveri
di guerra) e inorridisce
pensando che “un solo giorno (una dies) manda alla morte (dat exitio) molte migliaia di uomini
schierati in battaglia (multa virum sub
signis milia ducta)” (V, vv. 999-1000).
…
e il riconoscimento di una pulsione aggressiva e distruttiva
5)
Ma Lucrezio dice anche un’altra cosa,
davvero interessante, pensando a ciò che sin dall’antichità spinse gli uomini a
perfezionare i propri armamenti: “Vollero fare questo non tanto per una
speranza di vittoria (facere id non tam
vincendi spe voluerunt), quanto
per infliggere ai nemici motivi di
pianto (quam dare quod gemerent
hostes), e perché quegli stessi nemici perissero, in quanto inferiori di
numero e meno armati” (V, vv. 1346-1349). E’ un passo a cui non viene dato,
negli studi su Lucrezio, il rilievo che meriterebbe. Come non vedere in questi
versi il riconoscimento da parte di
Lucrezio dell’esistenza di una pulsione aggressiva e distruttiva? Qui si
dice che per gli uomini la vittoria in battaglia è secondaria rispetto al
piacere di far soffrire e uccidere i nemici. Si gode del pianto dei
nemici e del fatto che possano essere uccisi in quanto “inferiori di numero e
meno armati”. Ricordate le parole di Freud? “Non esiste in noi alcun ribrezzo
istintivo per lo spargimento di sangue. Noi siamo i discendenti di una serie
infinita di generazioni di assassini. La brama di uccidere l’abbiamo nel sangue”
L’inno a Venere
6)
Ma una ancora più bella associazione, secondo
me, con il pensiero di Freud, la troviamo se leggiamo l’introduzione al poema, il celeberrimo inno a Venere. Ma
come, si sono chiesti molti lettori, il poeta che dice che gli dei sono
estranei alla vicende umane (il che equivale, se ci pensate bene, a negarne
l’esistenza), dedica un inno ad una dea, prega, come vedremo, per un suo
intervento? Il problema si risolve se si pensa che Venere, in quanto dea dell’amore, del piacere (Lucrezio la chiama hominum divumque voluptas,
piacere degli uomini e degli dei) e
della fecondità, è assunta come
simbolo della forza generatrice della natura; dunque in lei Lucrezio
personifica quella forza, quell’istinto
che spinge gli uomini e gli animali ad amare e a riprodursi. L’inno si
apre infatti con una celebrazione della primavera, che è la stagione in cui la
potenza di Venere, ovvero l’istinto ad
amare e a riprodurre la vita, fa sentire maggiormente la sua forza.
Leggo, in traduzione, i bellissimi versi della prima parte:
Venere che dai la vita (alma Venus),… poiché grazie a te ogni genere di esseri
animati è concepito e vede, (una volta) nato, la luce del sole: te, dea, te
fuggono i venti, te ed il tuo arrivo le nuvole del cielo, per te la terra
industriosa fa crescere i fiori soavi, per te sorridono le distese marine, e,
rasserenato, il cielo brilla di una luce diffusa. Infatti, non appena la bellezza
del giorno primaverile si svela, ed il soffio fecondo del favonio, liberato,
prende forza (il favonio è un vento
primaverile, perciò chiamato genitabilis,
fecondo, vivificatore, perché stimola ad amare e quindi a generare nuove vite)
per prima cosa gli uccelli del cielo annunciano te e il tuo arrivo, o dea,
colpiti in cuore dalla tua potenza. Quindi le bestie feroci e le greggi balzano
qua e là per i pascoli rigogliosi ed attraversano i fiumi vorticosi: così
(ciascuna bestia), presa dal (tuo) fascino, ti segue desiderosa ovunque tu
voglia condurla. Infine per i mari ed i monti ed i fiumi impetuosi e per le
frondose dimore degli uccelli ed i campi verdeggianti, ispirando a tutti nel
cuore un soave sentimento d’ amore, fai sì che con desiderio propaghino le loro
generazioni stirpe per stirpe.
La preghiera a Venere perché
trattenga Marte
7)
Quindi il poeta chiede alla dea di
sostenerlo in questa impresa di scrivere un poema sulla natura dedicato a Gaio Memmio, suo amico e protettore.
Senonchè
Memmio è impegnato in guerra (Lucrezio non lo dice e noi non sappiamo di quale
guerra si tratti) e quindi non può ascoltare gli insegnamenti della filosofia
epicurea. Bisogna che le armi tacciano, e a tal fine il poeta implora Venere (la dea dell’amore,
portatrice di vita) perché col suo fascino, con la sua capacità di seduzione, trattenga Marte (il dio della guerra, dunque un’altra divinità, assunta come simbolo di distruzione e di morte, di
cui la guerra è portatrice) e così facendo indebolisca la sua potenza e gli impedisca di scatenarsi sui campi
di battaglia: in altre parole, perché l’amore vinca sulla morte:
Fa’ che i feroci
impegni della guerra, per mare e
per terra, spenti, si acquetino. Infatti
tu sola puoi giovare ai mortali con una tranquilla pace, perché le feroci opere
della guerra (le) governa Marte potente nelle armi, che spesso si abbandona sul
tuo grembo…
8)
Marte “spesso si abbandona sul tuo grembo”. Segue un’immagine
memorabile in cui Lucrezio descrive questo abbandono: il dio ha posato il suo
capo sul grembo di Venere e, vinto dall’eterna ferita d’amore (aeterno devictus vulnere amoris), a
bocca aperta (inhians), respirando
supino il respiro della dea (eque tuo
pendet resupini spiritus ore), fissa su di lei il suo sguardo bramoso (pascit amore avidos visus). E questo è
il momento, per te, o Venere, di “abbracciare da sopra col tuo corpo santo lui
sdraiato” (hunc tu, diva, tuo recubantem
corpore sancto circumfusa super) e chiedere e ottenere “una placida pace
per i Romani” (I, vv. 33-40).
Venere può debilitare Marte come
Eros può debilitare Thanatos
9)
L’idea
di Lucrezio, qui espressa, è che solo la forza dell’amore possa annullare, o
almeno indebolire, la forza della guerra, della distruzione, della morte.
Non mi pare difficile riconoscere in
Venere e Marte le due potenze celesti di cui parla Freud: sono opposti, ma sono in stretta
relazione fra loro (sono addirittura amanti nella immagine di Lucrezio)
e, analogamente, come, per Lucrezio, solo
Venere può frenare Marte, così Freud è convinto che solo Eros può bloccare la
potenza distruttiva di Thanatos. Ricordiamo che cosa scriveva nella
lettera a Einstein:
Se la propensione alla guerra è un prodotto
della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di
questa pulsione, l’Eros.
10)
E
ricordiamo il finale del saggio su Il
disagio della civiltà in cui Freud, pur ribadendo il suo pessimismo della ragione circa
il destino dell’umanità (Mi manca il
coraggio – scriveva – di erigermi a
profeta di fronte ai miei simili e accetto
il rimprovero di non sapere portare loro nessuna consolazione), concludeva
con parole di speranza:
E ora c’è (solo) da aspettarsi che
l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, faccia uno sforzo per
affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale.
Allo
stesso modo Lucrezio spera che la
potenza di Venere annulli, o almeno indebolisca, la potenza di Marte.
[1]
Lucrezio distingue fra animus (che è la parte razionale dell’uomo, la mente, e ha sede nel petto) e anima
(che è il principio vitale ed è diffusa in tutto il corpo). Sono
entrambi costituiti di atomi, quindi soggetti alla disaggregazione, ovvero alla
morte.
Nessun commento:
Posta un commento