martedì 18 novembre 2025

AMORE E MORTE: DA FREUD A LUCREZIO (V parte)

 

Cosa insegna la naturae species ratioque su morte o reincarnazione

1)    Tale conoscenza ci dice che tutta la realtà è costituita di atomi, i quali, aggregandosi fra loro, formano i corpi. Anche l’anima[1] è fatta di atomi, più leggeri e meno connessi di quelli del corpo. La morte non è altro che una disaggregazione di tali atomi, sia di quelli del corpo che di quelli dell’anima. E’ l’idea che l’anima persista, e con essa persistano la coscienza e la memoria, a generare angoscia, mentre invece con la disaggregazione degli atomi cessa ogni forma di coscienza e di sensibilità. Ci dà angoscia il vederci inumati sotto terra o cremati in un rogo, ma è perché proiettiamo la nostra coscienza e sensibilità laddove coscienza e sensibilità non esistono più.

2)    Con la morte non esiste più la nostra individualità cosciente, come non esisteva prima che nascessimo; e come nessuna sofferenza abbiamo patito prima della nascita, così nessuna sofferenza patiremo dopo la morte. E quand’anche in futuro gli atomi si ricomponessero allo stesso modo, ricostituendo la stessa individualità (è l’ipotesi della cosiddetta metempsicosi, ovvero della rinascita o reincarnazione), ebbene, nemmeno questo ci riguarderebbe, perché sarebbe sempre un altro io, senza alcuna memoria dell’io precedente.

Nel poema non c’è la pulsione di morte, ma sì l’orrore per la guerra

3)    Con tutto ciò, che c’entrano l’amore e la morte, Eros e Thanatos, nel senso in cui ne parlava Freud? Certo, se Eros inteso come pulsione sessuale può essere riconosciuto in quel bisogno naturale che deve essere soddisfatto di cui parla Lucrezio, lo stesso non può dirsi di Thanatos, inteso da Lucrezio non come una pulsione distruttiva ed autodistruttiva, ma – abbiamo visto – come un pensiero angosciante da cui bisogna liberarsi. Tuttavia anche nel poema di Lucrezio si può individuare una pulsione aggressiva che induce alla guerra, portatrice di morte.

4)    Quando parla di guerra Lucrezio parla della sua ferocia (fera moenera militiai, belli fera moenera, i feroci doveri di guerra) e inorridisce pensando che “un solo giorno (una dies) manda alla morte (dat exitio) molte migliaia di uomini schierati in battaglia (multa virum sub signis milia ducta)” (V, vv. 999-1000).

… e il riconoscimento di una pulsione aggressiva e distruttiva

5)    Ma Lucrezio dice anche un’altra cosa, davvero interessante, pensando a ciò che sin dall’antichità spinse gli uomini a perfezionare i propri armamenti: “Vollero fare questo non tanto per una speranza di vittoria (facere id non tam vincendi spe voluerunt), quanto per infliggere ai nemici motivi di pianto (quam dare quod gemerent hostes), e perché quegli stessi nemici perissero, in quanto inferiori di numero e meno armati” (V, vv. 1346-1349). E’ un passo a cui non viene dato, negli studi su Lucrezio, il rilievo che meriterebbe. Come non vedere in questi versi il riconoscimento da parte di Lucrezio dell’esistenza di una pulsione aggressiva e distruttiva? Qui si dice che per gli uomini la vittoria in battaglia è secondaria rispetto al piacere di far soffrire e uccidere i nemici. Si gode del pianto dei nemici e del fatto che possano essere uccisi in quanto “inferiori di numero e meno armati”. Ricordate le parole di Freud? “Non esiste in noi alcun ribrezzo istintivo per lo spargimento di sangue. Noi siamo i discendenti di una serie infinita di generazioni di assassini. La brama di uccidere l’abbiamo nel sangue

L’inno a Venere

6)      Ma una ancora più bella associazione, secondo me, con il pensiero di Freud, la troviamo se leggiamo l’introduzione al poema, il celeberrimo inno a Venere. Ma come, si sono chiesti molti lettori, il poeta che dice che gli dei sono estranei alla vicende umane (il che equivale, se ci pensate bene, a negarne l’esistenza), dedica un inno ad una dea, prega, come vedremo, per un suo intervento? Il problema si risolve se si pensa che Venere, in quanto dea dell’amore, del piacere (Lucrezio la chiama hominum divumque voluptas, piacere degli uomini e degli dei) e della fecondità, è assunta come simbolo della forza generatrice della natura; dunque in lei Lucrezio personifica quella forza, quell’istinto che spinge gli uomini e gli animali ad amare e a riprodursi. L’inno si apre infatti con una celebrazione della primavera, che è la stagione in cui la potenza di Venere, ovvero l’istinto ad amare e a riprodurre la vita, fa sentire maggiormente la sua forza. Leggo, in traduzione, i bellissimi versi della prima parte:

Venere che dai la vita (alma Venus),… poiché grazie a te ogni genere di esseri animati è concepito e vede, (una volta) nato, la luce del sole: te, dea, te fuggono i venti, te ed il tuo arrivo le nuvole del cielo, per te la terra industriosa fa crescere i fiori soavi, per te sorridono le distese marine, e, rasserenato, il cielo brilla di una luce diffusa. Infatti, non appena la bellezza del giorno primaverile si svela, ed il soffio fecondo del favonio, liberato, prende forza (il favonio è un vento primaverile, perciò chiamato genitabilis, fecondo, vivificatore, perché stimola ad amare e quindi a generare nuove vite) per prima cosa gli uccelli del cielo annunciano te e il tuo arrivo, o dea, colpiti in cuore dalla tua potenza. Quindi le bestie feroci e le greggi balzano qua e là per i pascoli rigogliosi ed attraversano i fiumi vorticosi: così (ciascuna bestia), presa dal (tuo) fascino, ti segue desiderosa ovunque tu voglia condurla. Infine per i mari ed i monti ed i fiumi impetuosi e per le frondose dimore degli uccelli ed i campi verdeggianti, ispirando a tutti nel cuore un soave sentimento d’ amore, fai sì che con desiderio propaghino le loro generazioni stirpe per stirpe. 

La preghiera a Venere perché trattenga Marte

7)    Quindi il poeta chiede alla dea di sostenerlo in questa impresa di scrivere un poema sulla natura dedicato a Gaio Memmio, suo amico e protettore. Senonchè Memmio è impegnato in guerra (Lucrezio non lo dice e noi non sappiamo di quale guerra si tratti) e quindi non può ascoltare gli insegnamenti della filosofia epicurea. Bisogna che le armi tacciano, e a tal fine il poeta implora Venere (la dea dell’amore, portatrice di vita) perché col suo fascino, con la sua capacità di seduzione, trattenga Marte (il dio della guerra, dunque un’altra divinità, assunta come simbolo di distruzione e di morte, di cui la guerra è portatrice) e così facendo indebolisca la sua potenza e gli impedisca di scatenarsi sui campi di battaglia: in altre parole, perché l’amore vinca sulla morte:

Fa’ che i feroci impegni della guerra, per  mare e per  terra, spenti, si acquetino. Infatti tu sola puoi giovare ai mortali con una tranquilla pace, perché le feroci opere della guerra (le) governa Marte potente nelle armi, che spesso si abbandona sul tuo grembo…

8)    Marte “spesso si abbandona sul tuo grembo”. Segue un’immagine memorabile in cui Lucrezio descrive questo abbandono: il dio ha posato il suo capo sul grembo di Venere e, vinto dall’eterna ferita d’amore (aeterno devictus vulnere amoris), a bocca aperta (inhians), respirando supino il respiro della dea (eque tuo pendet resupini spiritus ore), fissa su di lei il suo sguardo bramoso (pascit amore avidos visus). E questo è il momento, per te, o Venere, di “abbracciare da sopra col tuo corpo santo lui sdraiato” (hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto circumfusa super) e chiedere e ottenere “una placida pace per i Romani” (I, vv. 33-40). 

Venere può debilitare Marte come Eros può debilitare Thanatos

9)    L’idea di Lucrezio, qui espressa, è che solo la forza dell’amore possa annullare, o almeno indebolire, la forza della guerra, della distruzione, della morte. Non mi pare difficile riconoscere in Venere e Marte le due potenze celesti di cui parla Freud: sono opposti, ma sono in stretta relazione fra loro (sono addirittura amanti nella immagine di Lucrezio) e, analogamente, come, per Lucrezio, solo Venere può frenare Marte, così Freud è convinto che solo Eros può bloccare la potenza distruttiva di Thanatos. Ricordiamo che cosa scriveva nella lettera a Einstein:

Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione, l’Eros.

10)       E ricordiamo il finale del saggio su Il disagio della civiltà in cui Freud, pur ribadendo il suo pessimismo della ragione circa il destino dell’umanità (Mi manca il coraggio – scriveva – di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non sapere portare loro nessuna consolazione), concludeva con parole di speranza:

E ora c’è (solo) da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, faccia uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale.

Allo stesso modo Lucrezio spera che la potenza di Venere annulli, o almeno indebolisca, la potenza di Marte.



[1] Lucrezio distingue fra animus (che è la parte razionale dell’uomo, la mente, e ha sede nel petto) e anima (che è il principio vitale ed è diffusa in tutto il corpo). Sono entrambi costituiti di atomi, quindi soggetti alla disaggregazione, ovvero alla morte.

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