Analisi de La sera del dì di festa
- Dolce e chiara è la notte e senza vento,
- e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
- posa la luna, e di lontan rivela
- serena ogni montagna. O
donna mia,
- già tace ogni
sentiero, e pei balconi
- rara traluce la notturna
lampa:
- tu dormi, che
t'accolse agevol sonno
- nelle tue chete stanze; e non ti morde
- cura nessuna; e già
non sai né pensi
- Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
- tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
- appare in vista, a salutar m'affaccio,
- e l'antica natura onnipossente,
- che mi fece all'affanno.
A te la speme
- nego, mi disse, anche la
speme; e d'altro
- non brillin gli occhi tuoi se
non di pianto.
- Questo dì fu solenne:
or da' trastulli
- prendi riposo; e forse ti rimembra
- in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
- piacquero a te: non io,
non già ch'io speri,
- al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
- quanto a viver mi resti, e qui
per terra
- mi getto, e grido, e fremo.
Oh giorni orrendi
- in così verde etate!
Ahi, per la via
- odo non lunge il solitario canto
- dell'artigian, che riede a tarda notte,
- dopo i sollazzi, al
suo povero ostello;
- e fieramente mi si
stringe il core,
- a pensar come tutto al mondo passa,
- e quasi orma non lascia.
Ecco è fuggito
- il dì festivo, ed al festivo il giorno
- volgar succede, e
se ne porta il tempo
- ogni umano accidente.
Or dov'è il suono
- di que' popoli antichi? or dov'è il grido
- de' nostri avi famosi, e il grande impero
- di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
- che n'andò per la terra e l'oceano?
- Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
- il mondo, e più di lor non si ragiona.
- Nella mia prima età, quando s'aspetta
- bramosamente il dì festivo, or poscia
- ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
- premea le piume; ed
alla tarda notte
- un canto che s'udia per li
sentieri
- lontanando morire a poco a poco,
- già similmente mi
stringeva il core.
Gli elementi tipici della poetica leopardiana si possono riscontrare in maniera esemplare ne La sera del dì di festa, un
idillio del 1820. L’incipit famoso rimanda a versi omerici (Iliade,
VIII, 555 e sgg.), tanto cari a Leopardi che li aveva citati nel Discorso
come esempio della poesia antica che sa sollecitare i sentimenti con
semplicità, imitando la natura (e non in maniera artificiosa e forzata, come
fanno i romantici, che riproducono immagini e situazioni straordinarie):
Sì
come quando graziosi in cielo / rifulgon gli astri intorno della luna, / e
l’aere è senza vento, e si discopre / ogni cima de’ monti ed ogni selva / ed
ogni torre; allor che su nell’alto / tutto quanto l’immenso etra si schiude, /
e vedesi ogni stella, e ne gioisce / il pastor dentro all’alma.
Ed
è un incipit carico di suggestioni indefinite (più che per le parole evocative
dell’indefinito, che pure ci sono[1], per
la stessa atmosfera notturna e per la visione in lontananza delle montagne; e
poi, naturalmente, per quel canto notturno dell’artigiano udito in lontananza,
vera e propria cerniera fra le due parti che compongono l’idillio). Quel "posa"
(verbo che ritorna al verso 38) piaceva ad Ungaretti, il quale ci sentiva
un’eco del Trionfo petrarchesco (e Petrarca è il poeta sentimentale per
eccellenza), laddove, descrivendo la morte di Laura, si dice che "parea
posar come persona stanca"[2] (a
questo proposito, bisognerà notare che la scelta del verbo è dell’edizione
Starita del 1835, perché prima si era sempre letto "La luna si riposa,
e le montagne / si discopron da lungi"; ma il "posa"
era già entrato nell’edizione Piatti del 1831 a correzione dei versi 38-39, che
prima suonavano così: "Tutto è silenzio e pace, e tutto cheto / è ‘l
mondo, e più di lor non si favella").
Ma
è anche una poesia che non prescinde dalla conoscenza del vero, anzi se ne
nutre drammaticamente, in quanto fondata sul contrasto fra la serenità del
paesaggio (dolce e chiaro) e la sofferenza disperata del poeta (sofferenza che
si manifesta in forme titaniche, fortemente "patetiche", di
ascendenza, mi pare, alfieriana e ortissiana). Segue il canto solitario
dell’artigiano, ed è un’altra sensazione vaga e indefinita (proprio
quell’esempio citato nello Zibaldone); il canto, a sua volta, sollecita
non solo pensieri sullo scorrere del tempo (sulla sua infinitezza, per
contrasto, cosiccome il canto contrasta col silenzio: lo stesso effetto
provocato ne L’Infinito dallo stormire del vento tra le piante), ma
anche la rimembranza dell’infanzia (negli ultimi versi); di più, quel canto che
è sentito come il "doppio" di uno stesso canto udito nell’infanzia, è
senz’altro un bell’esempio di quella doppia visione di cui è capace l’uomo
"sensibile e imaginoso" (quale è il poeta).
Altre
osservazioni si possono fare, a partire dalla considerazione che l’idillio è
spesso sembrato ai lettori, nella sua struttura, un po’ disorganico,
frammentario, non perfettamente composto nei suoi elementi costituivi, in
sostanza, spezzato al verso 24 in due parti, apparentemente non
omogenee, disunite. Ma intanto quel verso, pur con la pausa imposta dalla
punteggiatura (che sancisce il passaggio da un motivo all’altro: dalla
disperazione individuale del poeta alla sensazione acustica del canto
dell’artigiano), ha una forte continuità metrica, segnata dalla sinalefe fra
"etate" ed "ahi"[3];
quindi introduce il motivo (l’evento acustico) che è la vera chiave di volta
del componimento, una chiave di volta che illumina anche retrospettivamente il
senso dell’idillio.
Allora
il notturno lunare con cui si apre il componimento, con il suo silenzio dopo i
rumori della festa, non solo si contrappone drammaticamente alla disperazione
del poeta (a significare la crudele indifferenza della natura di fronte al
dolore individuale), ma anche prefigura il silenzio in cui, nella seconda
parte, precipitano i grandi eventi della storia: un silenzio, quest’ultimo, in
cui tutto (il dolore individuale cosiccome la gloria dei popoli antichi),
annullandosi nell’infinito scorrere del tempo, perde di senso. Il ritorno nei
due contesti del verbo "posa" (v. 3 e v. 38) in
contrapposizione al "grido" (di disperazione del poeta, al v.
23; dei popoli antichi, al v. 34) avvalora questa lettura.
Data
la centralità del canto dell’artigiano (che quindi sembra avere una funzione
analoga a quella del vento che stormisce tra le piante, nell’Infinito),
tutto il resto (come bene ha messo in luce Luigi Blasucci)[4] si
assesta simmetricamente: silenzio e serenità della natura, gesticolazione
fisica e verbale del poeta ("grido"), canto dell’artigiano,
"grido" dei popoli antichi, silenzio in cui tutto precipita.
In
appendice, l’eco di quel canto nella memoria dell’infanzia (che crea grande
suggestione poetica, come è proprio della rimembranza): "già similmente
mi stringeva il core" quella sensazione di naufragio (altrettanto
"dolce"?) nell’infinità del tempo.
[1] Notte, lontan, notturna,
antica, antichi, tarda notte, lontanando, a poco a poco.
[2]
Straordinaria questa eco sentita da Ungaretti con alcuni dei versi fra i più
belli dell’intera letteratura italiana. Si tratta di una terzina che, nel
finale del Trionfo della morte,
descrive la morte di Laura: “Pallida no,
ma più che neve bianca / che senza venti in un bel colle fiocchi, /parea posar
come persona stanca”. Come possa il “posare” della luce lunare sul
paesaggio notturno ricordare il “posare” riferito al volto di Laura nella
quiete della morte, è cosa da chiedere alla sensibilità poetica di Ungaretti.
Ma certo, oltre alla quiete assoluta (del paesaggio notturno e della morte) che
quel verbo evoca, bisognerà notare come esso sia associato al colore bianco, del
pallore mortale (tramite il paragone con la neve in Petrarca), del chiarore
lunare (non nominato, ma implicito nel paesaggio notturno descritto da
Leopardi).
[3] Si tratta del fenomeno per
cui la vocale finale di una parola e quella iniziale della parola seguente si
pronunciano unite in un’unica sillaba (senza caduta o assorbimento dell’una
nell’altra – caso in cui si parla di elisione).
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