La poesia di Pascoli
Introduzione
1) Presentando Pascoli,
la prima cosa da dire è che si tratta di un
poeta a lungo frainteso, perché visto come il poeta della semplice e
umile vita campestre, il poeta delle “piccole
cose”, laddove invece la sua poesia nasconde un carattere tormentato e
morboso, è densa di riferimenti inquietanti.
2) Dicevo in altre
occasioni che ci sono poeti dotati di una particolare
sensibilità per l’amore e per la morte, per eros
e thanatos, cioè per quelli
che Freud ritiene gli istinti fondamentali che determinano la vita umana.
Pascoli – come Petrarca, come Tasso – è uno di questi, attratto da eros e thanatos, o meglio, nel suo caso, attratto e impaurito. Una
rapida occhiata alla sua biografia aiuta a comprendere la sua personalità e quindi
anche il carattere profondo della sua poesia.
Dal
trauma infantile all’insegnamento universitario
3) Tutti sappiamo del
trauma infantile subìto, ovvero l’uccisione
del padre Ruggero (un’uccisione di cui i responsabili non furono mai
individuati), quando Giovanni aveva solo 12 anni. A questo lutto
– che naturalmente creò delle difficoltà economiche alla famiglia – ne
seguirono altri a breve distanza: la morte della madre, poi di una sorella e di
due fratelli. Sono eventi che segneranno per sempre il suo carattere e
determineranno il desiderio, che sempre lo accompagnerà, di ricostruire il nucleo famigliare d’origine,
di ricostruire il “nido” che i lutti avevano distrutto.
4) Studia in collegio a
Urbino, poi grazie a una borsa di studio si iscrive alla facoltà di Lettere a
Bologna. Qui venne addirittura
arrestato perché, aderendo alle idee socialiste, aveva partecipato ad
una manifestazione antigovernativa. Passò alcuni mesi in carcere ed anche
questa fu un’esperienza traumatica, tant’è che successivamente si ritirò da
ogni partecipazione politica, convinto dell’esistenza di una maligna forza
superiore che travolge oppressi ed oppressori, e quindi della necessità di una
fratellanza fra gli uomini.
5) Si laureò e cominciò
ad insegnare in vari licei in giro per l’Italia, chiamando a vivere con sé le due sorelle, Ida e Mariù (se le porta
dietro a Massa, poi a Livorno). Dopo la morte di Carducci, gli successe
nella cattedra di Letteratura italiana a Bologna (1905).
Il rapporto con le sorelle
6) Qualcosa di più
bisogna dire sul rapporto con le
sorelle. E’ un rapporto morboso, fatto di gelosie reciproche. Non ci sono relazioni amorose nella vita di
Giovanni, che condurrà fino alla morte, come lui stesso confessa, una vita
casta (per la verità, a un certo punto si era fidanzato con una cugina,
Imelde Morri di Rimini, ma di fronte alla disperazione della sorella Mariù,
rompe il fidanzamento). Vive con angoscia, e un periodo di depressione, il matrimonio
della sorella Ida, lo ritiene un tradimento, quasi un attentato alla
sacralità del nido. Con la sorella rimasta, Mariù, prende in affitto una
casa a Castelvecchio, nella campagna
lucchese, una casa che sarà la sua – e di Mariù – residenza definitiva. Un
ultimo particolare: Giovanni e Mariù a Castelvecchio dormivano in stanze
separate, ma avevano i letti con le testate accostate alla stessa parete,
sicchè dormivano con le teste a poca distanza l’una dall’altra, separate solo
da un muro sottile.
Myricae, ovvero la poesia delle piccole
cose
7) E vediamo ora il
cosiddetto “poeta delle piccole cose”. Il titolo della sua prima raccolta è Myricae,
ed è un titolo che evoca appunto le piccole cose, perché proprio in tal
senso era stato usato da Virgilio (un poeta caro a Pascoli, perché come lui
amante della campagna) nella IV Bucolica: “non omnis arbusta iuvant humilesque myricae”, non a tutti piacciono gli arbusti e
le umili tamerici, per dire che non a tutti piace una poesia di tono basso, una
poesia che non tratta di argomenti elevati, giacchè le tamerici sono degli
arbusti che nascono comunemente presso le spiagge, quindi una pianta umile, simbolo di una poesia umile.
8)
E dunque quel titolo, Myricae,
preannuncia una poesia semplice, che non
si propone di cantare grandi ideali, politici o morali – come è proprio
del cosiddetto “poeta vate”,
quale ad esempio era stato Carducci e quale, per certi versi, sarà D’Annunzio:
un poeta, cioè, che si fa interprete di valori e ideali patriottici e li comunica,
con un linguaggio alto, classicheggiante, alla comunità nazionale. E’ invece una
poesia, quella di Myricae, che vuole descrivere
l’umile mondo della campagna, le piccole cose della quotidianità, con un
linguaggio non alto, ma adeguato al mondo che descrive.
9)
Facendo riferimento al mondo vegetale, per Pascoli un’erba comune come il trifoglio ha dignità poetica tanto
quanto un fiore nobile come la rosa
(un fiore, questo, sempre prediletto dai poeti, mentre il trifoglio è sempre
stato escluso dalla poesia). Il concetto è espresso dallo stesso
Pascoli in una lettera del 1899 al pittore Antony de Witt: “Le anime e le cose, sieno esse grandi o
piccole, buone o cattive, belle o brutte, hanno tutte un quid poetico in esse
celato, celato più o meno: il poeta ve lo coglie e ne fa la poesia: come l’ape
che, sia il fiore amaro o dolce, grande o piccolo, sia trifoglio o rosa, vistoso o umile, ne estrae sempre quel
miele.”
10)
E’ un linguaggio non alto, ma sempre
tecnicamente preciso: alberi e uccelli non saranno mai nominati in
questo modo generico, ma sempre con precisione
botanica e ornitologica: il pero, il melo, il mandorlo, il moro, il
fringuello, la cornacchia, l’usignolo, il tordo ecc.. E’ famosa la sua polemica
con il Leopardi del Sabato del villaggio,
laddove si dice che la “donzelletta”
reca in mano un “mazzolin di rose e viole”;
è un’accoppiata sbagliata, un mazzolino inesistente, obietta Pascoli, perché le
viole fioriscono a marzo e le rose a maggio...
Le innovazioni linguistiche ed
espressive
11)
Ma ecco che dietro la semplicità e la quotidianità delle piccole cose del mondo
campestre si intravvede una visione della realtà tutt’altro che semplice, una visione turbata da sentimenti che
rimandano ad altro, ad una dimensione misteriosa ed inquietante. Ed
è una visione sostenuta da straordinarie
innovazioni linguistiche ed espressive.
12) Già in questa prima raccolta si vede infatti come Pascoli – da
questo punto di vista, appunto del linguaggio e della tecnica espressiva – sia un grande innovatore. Uno
degli aspetti che subito colpisce è una sorta di rappresentazione impressionistica della realtà, cioè una
rappresentazione fondata su impressioni
accostate per misteriose corrispondenze, priva di coordinazione
logico-temporale, di prospettiva spaziale: tutto è appiattito in primo
piano, come in quadro naif.
La
rappresentazione impressionistica: Sera
d’ottobre
13) Leggiamo,
ad esempio, una semplice poesia di Myricae,
Sera
d’ottobre, di sole due strofe; non una poesia delle più visionarie, ma
utile per capire la tecnica espressiva di Pascoli (metro: due quartine composte
da tre endecasillabi e un quinario):
Lungo la strada vedi
su la siepe
ridere a mazzi le vermiglie bacche:
nei campi arati tornano al presepe
tarde le vacche.
Vien per la strada un
povero che il lento
passo tra foglie stridule trascina:
nei campi intuona una fanciulla al vento
Fiore di spina!…
Sono accostate sullo
stesso piano le bacche rosse sulle
siepi, le vacche che tornano nella
stalla, un povero viandante che
cammina con lentezza sulle foglie secche, una fanciulla che canta. Ad ogni elemento sono dedicati due versi,
sono tutti in primo piano,
e tutti – che siano piccoli come le
bacche o grandi come le vacche – hanno la stessa dimensione (appunto, i due
versi). Tutto appare contemporaneamente, non c’è una sequenza
temporale, un prima e un dopo, e nemmeno una sequenza logica, perché niente di
logico lega i quattro elementi. Ci sono invece corrispondenze a-logiche (o
analogiche), associazioni da cogliere intuitivamente: le bacche rosse che vedi
“ridere a mazzi” sembrano opporsi
tanto alla lentezza con cui si muovono le vacche, quanto, e ancora di più, al
faticoso trascinarsi del povero che calpesta le “foglie stridule”; quest’ultimo infine si associa in maniera
misteriosa alla fanciulla che canta “fiore
di spina”: misteriosa, perché può essere di opposizione fra il povero viandante che fatica a camminare
(e dunque lo immaginiamo vecchio) e la giovane che si affaccia alla vita
cantando spensieratamente; ma quel canto che evoca non solo il fiore, ma
anche la spina, può essere complementare all’immagine precedente e insieme a
quella comunicare in conclusione un
sentimento non di spensieratezza, ma di tristezza. Infine, notate come nella
prima quartina prevalga la sensazione visiva (vediamo le bacche e le
vacche), nella seconda prevalga invece la sensazione uditiva (sentiamo
il canto della fanciulla, così come sentiamo lo scricchiolare delle foglie
sotto il passo del vecchio; lo stesso aggettivo “stridule” è onomatopeico,
cioè comunica non solo con il suo significato, ma anche con il suo suono).
L’onomatopea e il fono-simbolismo: Il fringuello cieco
14) L’onomatopea è una tecnica
espressiva prediletta da Pascoli, tanto che qualcuno (Contini) ha parlato di un
valore fono-simbolico della parola in
Pascoli, cioè dell’uso di un linguaggio
pre-grammaticale che si serve del suono, in particolare dell’onomatopea,
per comunicare significati. Ad esempio, è famoso quel verso della poesia Lavandare
(sempre da Myricae) che dice che
dalla gora (dove le lavandaie lavano i panni) si sente venire cadenzato “lo sciabordare
delle lavandare” e “sciabordare” riproduce il rumore che fanno i panni
sbattuti nell’acqua. Ma a Pascoli piaceva in particolare riprodurre il
verso degli uccelli. Sentite questa poesia tratta da I canti di Castelvecchio, Il fringuello cieco, dove
addirittura le parole pronunciate dai diversi uccelli intendono riprodurre il
verso degli stessi (metro: sestine di novenari)
Finch...
finchè nel cielo volai,
finch...
finch’ebbi il nido sul moro;
c’era un lume, lassù, in ma’ mai,
(espressione toscana spiegata da Pascoli:
“lontano lontano”)
un gran lume di fuoco e d’oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblio...
Il sole!... Ogni alba nella macchia,
ogni mattina per il brolo,
“Ci
sarà?„ chiedea la cornacchia;
“Non
c’è più!„ gemea l’assïuolo;
e cantava già l’usignolo:
“Addio
addio dio dio dio dio...„
Ma la lodola su dal grano
saliva a vedere ove fosse.
Lo vedeva lontan lontano
con le belle nuvole rosse.
E, scesa al solco donde mosse,
trillava: “C’è, c’è, lode a Dio!„
“Finch...
finchè non vedo, non credo„
però dicevo a quando a quando.
Il merlo
fischiava: “Io lo vedo„;
l’usignolo zittìa spiando.
Poi cantava gracile e blando:
“Anch’io
anch’io chio chio chio chio...„
Ma il dì ch’io persi cieli e nidi,
ahimè che fu vero, e s’è spento!
Sentii gli occhi pungermi, e vidi
che s’annerava lento lento.
Ed ora perciò mi risento:
“O
sol sol sol sol... sole mio?„
Tralascio l’interpretazione
della poesia, mi limito a dire che il dialogo fra i diversi uccelli
sull’esistenza del sole rimanda al problema della fede nell’esistenza di
Dio. La tralascio perché non è chiaro
(almeno a me) il punto di vista del fringuello (che ovviamente rappresenta il
punto di vista del poeta) sia prima che dopo l’accecamento. Riporto la poesia
perché è esemplare del cosiddetto fonosimbolismo pascoliano. Ci sono suoni che
imitano il verso del fringuello e si trasformano in parole (Finch...
finché nel cielo volai, finch...
finch'ebbi il nido sul moro, Finch... finché non vedo, non credo) e parole che si trasformano in suoni per riprodurre il verso
dell’usignolo (Addio,
addio dio dio dio dio...;
Anch'io anch'io chio chio chio chio...),
e ancora parole che, pur mantenendo il loro significato, intendono riprodurre il
verso, ora della allodola (C’è, c’è,
lode a Dio), ora della cornacchia (- Ci sarà? - chiedea la cornacchia), ora dell’assiuolo (-
Non c'è più! - gemea l'assiuolo).
L’analogia e la sinestesia
15) Prima di leggere altre poesie, sarà bene evidenziare altri due
strumenti espressivi, precisamente due figure retoriche, ampiamente usati da
Pascoli: la analogia e la sinestesia. Sono strumenti
sempre usati dai poeti, ma che, a fine Ottocento, sono prediletti dalla poesia
decadente e simbolista francese e diventano poi ricorrenti in tanta poesia del
Novecento. L’analogia non è altro
che l’associazione di due o più parole che sottintendono un paragone; il
nesso logico che costituisce il paragone è stato eliminato, resta l’immagine
espressa con le due (o più) parole associate, un’immagine affidata non più
alla comprensione logica, ma a quella intuitiva. Ad esempio, Montale in Meriggiare pallido e
assorto scrive del canto delle cicale che si leva dai “calvi picchi”,
ovvero dalle cime (degli alberi) prive di vegetazione, dunque calve come lo è
una testa priva di capelli; è una analogia facile da comprendere, meno facile
potrebbe essere questa di Ungaretti,
che in una poesia (Stelle) scrive: "Tornano in alto ad ardere le favole…"; logicamente le
favole non ardono, ma c’è una similitudine sottintesa fra le favole e le
stelle, per cui le favole sembrano brillare come brillano in cielo le stelle.
16) La sinestesia è una
particolare forma di analogia, che consiste nell’associazione di parole
appartenenti a sfere sensoriali diverse. Qualche esempio, per intenderci:
Dante nel V dell’Inferno, al momento di entrare nel girone dei lussuriosi,
dice: “Io venni in luogo d’ogni luce muto”, dunque associa una parola (luce) che ha a che fare con il senso
della vista ad una parola (muto) che
invece appartiene al senso dell’udito. O ancora un poeta del Novecento, Quasimodo,
nella poesia Alle fronde dei salici, scrive “all’urlo nero / della
madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo”,
dove “urlo nero” è una evidente
sinestesia.
Il fanciullino e il veggente
17) Queste modalità espressive corrispondono
all’idea che Pascoli ha del poeta, perché il poeta, per Pascoli, non vede la
realtà come la vede l’uomo adulto che la inquadra entro schemi razionali, o la
descrive oggettivamente con metodo scientifico. Il poeta è un fanciullo che non possiede categorie razionali e
scientifiche, ma intuisce la verità profonda delle cose, vede fra le cose delle
relazioni, delle corrispondenze, che sfuggono alla percezione abituale e che invece il fanciullo coglie ed
esprime con le sue naturali capacità analogiche e sinestetiche.
18) Il poeta
è dunque un “veggente”, “voyant”, come diceva Rimbaud. E pare
incredibile che un uomo dalla vita semplice, un poeta amante delle piccole
cose della campagna, sia accostabile a un poeta maledetto e trasgressivo come
Rimbaud. Eppure, sentite Rimbaud che dice che “il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato dereglement (sregolatezza,
disordine, deragliamento) di tutti i
sensi”, dunque il poeta deve fare uscire i sensi dai binari lungo i
quali l’uomo abitualmente percepisce la realtà; e in tal modo si immerge come
un palombaro sotto il velo delle apparenze quotidiane e giunge ad una verità
più profonda, “giunge all’ignoto! – continua Rimbaud – e anche
se, sbigottito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le
avrà pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e
innominabili… Dunque il poeta è un ladro di fuoco. Ha l’incarico dell’umanità,
degli animali addirittura;
egli dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che
riporta di laggiù ha forma, egli dà forma, se è informe, egli dà l’informe.”
19) Pascoli, con un linguaggio non così aggressivo,
ma pacato, esprime concetti simili quando enuncia la sua poetica del fanciullino: il poeta è colui che dà voce al
fanciullo che è dentro di noi, una voce che l’uomo adulto e razionale non
riesce più a sentire; il fanciullo vede la realtà con occhi diversi, ma proprio
per questo è capace di vedere ciò che i
sensi e la ragione, che corrono lungo i binari abituali, non riescono a vedere:
Egli è
quello, dunque, che ha paura al buio, perchè al buio vede o crede di vedere;
quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai;
quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle:
che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange
e ride senza perchè, di cose che
sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione…. Egli scopre nelle cose le somiglianze e
relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla
più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e
curiosità meglio che loquacità: impicciolisce
per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare….Fanciullo, che non sai ragionare se non a modo tuo, un
modo fanciullesco che si chiama profondo, perchè d’un tratto, senza farci
scendere a uno a uno i gradini del pensiero, ci trasporta nell’abisso della verità... Tu sei il fanciullo
eterno, che vede tutto con maraviglia, tutto come per la prima volta. L’uomo le cose interne ed esterne, non le
vede come le vedi tu.
20) Dunque il poeta vede una realtà diversa,
potremmo dire deformata, perché
vede piccolo ciò che è grande e grande ciò che è piccolo; vede “somiglianze e relazioni” “che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra
ragione” e così facendo “ci trasporta
nell’abisso della verità”, immediatamente, “d’un tratto, senza farci scendere a uno a uno i gradini del pensiero”,
cioè senza farci percorrere le tappe di un ragionamento logico. Non si può negare che Pascoli dica con
altre parole ciò che diceva Rimbaud. Il poeta dunque, anche se Pascoli
lo chiama “fanciullino”, è un “voyant”, un veggente, o anche, come piace dire a
me, un visionario. Dopo
di che bisogna dire che i poeti maledetti francesi non disdegnavano le droghe
per raggiungere quella “sregolatezza”
o “deragliamento” dei sensi di cui
parla Rimbaud. E certo questa non era una pratica a cui poteva dedicarsi il
mite Pascoli. E però a questo punto si usa fare una battuta, ricordando che il
poeta romagnolo molto apprezzava il sangiovese e forse questo gli bastava… E’
una battuta per quanto riguarda la produzione poetica, ma è accertato che
Pascoli facesse abuso di vino e di cognac, tanto che morì di cirrosi epatica.
Il
lampo
21) Vediamo ora una
poesia particolarmente visionaria, Il lampo, molto semplice, di pochi
versi (endecasillabi):
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra
ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.
E’ rappresentata
l’impressione di un attimo, l’attimo in cui la luce improvvisa di un lampo
illumina cielo e terra. Ma notate come quella terra “ansante, livida, in sussulto” sembri una persona sofferente, anzi,
agonizzante, sovrastata da un cielo “ingombro,
tragico, disfatto” che contribuisce a rafforzare quell’atmosfera
angosciante e minacciosa. Alla luce improvvisa del lampo compare per un
attimo una casa “bianca bianca”, sembra l’evocazione di un altro mondo, un’altra
dimensione, che però, “apparì sparì
d’un tratto”.
22) Ma quello che
sconcerta è il paragone che chiude il componimento: quella casa che appare e
scompare è paragonata ad un occhio “largo,
esterrefatto” che si apre e si chiude per piombare nella “notte nera”. Sconcerta perché non vediamo il nesso logico che spieghi
la presenza di quell’occhio, accostato agli altri elementi del paesaggio. Sembra un quadro surrealista, dove
vediamo la terra, il cielo, la casa bianca e l’occhio, grande quanto la casa.
Ci ha pensato Pascoli a suggerirci che quell’occhio è l’occhio del padre
morente che si apre per l’ultima volta prima di chiudersi per sempre. Ecco le
sue parole in una prefazione rimasta inedita:
I pensieri che tu, o padre mio benedetto, facesti in quel
momento… Il momento fu rapido… ma i pensieri non furono brevi e pochi. Quale
intensità di passione! Come un lampo in una notte buia: dura un attimo e ti
rivela tutto un cielo pezzato, lastricato, squarciato, affannato, tragico; una
terra irta, piena d’alberi neri che si inchinano e si svincolano, e case e
croci.
L’ossessione della morte: L’assiuolo
23) Ripeto dunque un
concetto fondamentale: quella
che apparentemente è una poesia di piccole cose si rivela invece una poesia
carica di simbolismi, fortemente allusiva, a volte angosciante. Ciò che
sembra una semplice descrizione del mondo della campagna rimanda invece ad
altro, alla solitudine e alla morte. La
presenza dei morti è costante, come se nel mondo di Pascoli – un mondo
segnato, abbiamo visto, dalla morte violenta del padre e poi dalla perdita di
altri famigliari – non ci fosse un
confine, una separazione fra i vivi e i morti, bensì una contiguità, una
compresenza. Se vogliamo immergerci in un testo per tanti versi
esemplare, leggiamo L’assiuolo (per
chi non lo sapesse l’assiuolo è un piccolo rapace notturno, simile al gufo)
(metro: quartine doppie di novenari con ultimo verso monosillabico):
Dov’era la luna? chè il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù...
Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù...
Su tutte le lucide vette (le cime degli
alberi illuminate dalla luna)
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?...);
e c’era quel pianto di morte...
chiù...
Nelle tre strofe c’è un ricorrente schema di
contrapposizione fra una prima quartina, che propone immagini serene
all’interno di un’atmosfera di attesa, e una seconda quartina gravida invece di
suggestioni inquietanti, riferimenti alla morte (che si concentrano
precipitando nel lugubre verso - il chiù - che chiude le strofe). Di strofa in strofa si avverte come un
crescendo di angoscia, visto che quel chiù
prima è chiamato “una voce dai campi”,
poi “singulto”, infine “pianto di morte”. In questo
senso la terza strofa è esemplare, sia perché il verso dell’assiuolo è finalmente chiamato
“pianto di morte”, sia perché l’immagine dei “finissimi sistri
d’argento” (e la conseguente evocazione di “invisibili porte che forse
non s’aprono più”) chiarisce inequivocabilmente l’angosciante sentimento di
morte che pervade l’intera poesia (inequivocabilmente, pur con i modi pascoliani, fatti di allusioni misteriose, associazioni
a-logiche - o pre-logiche - impressioni accostate e non spiegate
discorsivamente). Il suono prodotto dalle cavallette è associato
analogicamente ai sistri d’argento,
che sono antichi strumenti egizi propri del culto misterico di Iside, formati
da sottili lamine metalliche; il
suono dei sistri prometteva la resurrezione dopo la morte, ma Pascoli avverte
con angoscia quel suono, avverte che le “invisibili porte” della morte non si
apriranno mai più.
24) L’atmosfera magica ed indefinita è creata da una
serie di immagini analogiche (“alba di perla”, “soffi di
lampi”, “nebbia di latte”, “cullare del mare”, ecc.), che, appunto per
definizione, sottintendono ed elidono la logica argomentativa del paragone
(esemplare quel “il cielo / notava in un’alba di perla”, che significa:
il sorgere della luna è come un’alba, in cui si diffonde una luce chiara che
ricorda il bianco della perla e che sembra invadere il cielo come un liquido -
ove il cielo sembra nuotare; lo stesso vale per il verso delle cavallette, che
ricorda il suono che fanno i sistri: ma il paragone è saltato, e si dice, con
associazione immediata, che “squassavano le cavallette / finissimi sistri
d’argento”). Di grande rilievo è anche il simbolismo fonico (o
fonosimbolismo): l’allitterazione “nero di nubi” evoca
un’impressione minacciosa ed inquietante; lo stesso si può dire del “fru fru tra le fratte” (allitterazione ed onomatopea); nei “finissimi sistri d’argento”
il fonosimbolismo è scoperto, con l’insistenza sulle vocali dal suono sottile (sei ‘i’) e sulle sibilanti che intendono
riprodurre il verso delle cavallette (intenzione ripresa dai successivi “tintinni”
ed “invisibili”). Quanto alla struttura sintattica, la poesia è
un affollarsi di sensazioni, accostate l’una all’altra sia attraverso la collocazione
sistematica del verbo all’inizio del verso, sia attraverso un periodare
rigorosamente paratattico (non vi è una struttura sintattica
complessa, gerarchizzata secondo nessi logico-argomentativi, ovvero secondo
ipotassi; i membri si succedono uno dopo l’altro, per accostamento; il reale si frantuma in impressioni
isolate e il legame che le unisce non è logico, ma analogico, simbolico,
allusivo, segreto).
L’ossessione della morte: Nebbia
25) Il pensiero della morte, un pensiero che attrae e
fa paura allo stesso tempo, è ricorrente nella poesia di Pascoli. C’è una
poesia, tratta dai Canti di Castelvecchio, che dietro l’apparente semplicità
nasconde questo motivo della paura e dell’attrazione per la morte. Si intitola Nebbia
(metro: strofe composte da quattro novenari, intervallati da un ternario e con
un senario finale):
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli,
d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!
Ch'io veda soltanto la
siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valerïane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che danno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
Che vogliono ch'ami e che vada!
Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch'io veda il cipresso
là, solo,
qui, quest'orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
La nebbia è qui evocata come un muro che protegge la casa, il nido famigliare,
dalle “cose lontane” (tutte le strofe cominciano con lo stesso
verso: nascondi le cose lontane).
Sono le cose lontane letteralmente nello spazio (come fa la nebbia), ma
simbolicamente anche nel tempo, nel passato, che è il luogo dei lutti e della
morte (nascondimi quello che è morto).
Il poeta si sente rassicurato solo dalle cose vicine e presenti: la siepe dell’orto, le mura che han piene le crepe di valeriane, i due peschi, i due meli
(notate ancora: la siepe e le mura, come la nebbia, sono elementi
protettivi, che rinchiudono il nido, lo difendono dalla minaccia esterna,
dall’indefinito lontano; non può non venire in mente il confronto con la siepe dell’Infinito
leopardiano: quella siepe consentiva di lanciarsi con l’immaginazione nell’infinito al di là di essa, e in
quell’infinito di naufragare con dolcezza; al contrario la siepe pascoliana deve proteggere da quell’infinito che fa paura,
deve consentire di vedere soltanto ciò che è vicino, presente e concreto). Il male del mondo deve essere
dimenticato, e questo dolce oblio è
sottilmente evocato dalle valeriane
che crescono sulle mura (alla valeriana è associata la proprietà di
favorire il sonno, e quindi di sedare, di far dimenticare le ansie quotidiane), e altrettanto si può dire dei soavi lor mieli, ovvero dalle marmellate
che il poeta si propone di ottenere dai peschi e dai meli dell’orto. La
paura del mondo esterno, oltre la siepe e oltre la nebbia, è ribadita nella
quarta strofa: nascondi le cose lontane /
che vogliono ch'ami e che vada!. “Andare
e “amare” sono i due verbi che significano uscire dal nido e
affrontare il mondo esterno, pur a rischio del dolore e del pianto.
26) Ma infine ecco la conclusione, per certi versi inaspettata: il vero oblio sarà
solo al cimitero, nel sonno della morte. Io voglio vedere, dice il poeta, oltre
alle cose vicine, alle cose del mio orto protetto dalla siepe, solo
quel bianco di strada, la strada che conduce al cimitero, solo il cipresso
(pianta cimiteriale, evocativa della morte): solo queste cose, oltre quest’orto, cui presso / sonnecchia il
mio cane. Il cane di Pascoli si chiamava Gulì, ed anche lui, in questo contesto, sembra evocare la morte.
Il cane, nella classicità, è il custode dell’oltretomba, è Cerbero che sta
al confine fra il regno dei vivi e il regno dei morti; nel mondo egizio è
Anubi, che accompagna nell’oltetomba l’anima del defunto.
Eros e thanatos: Il gelsomino
notturno
27) Vediamo ora un’altra poesia, sempre tratta dai Canti di Castelvecchio, una poesia dove
il motivo di thanatos, della morte, si fonde e confonde con quello di eros,
della vita: Il gelsomino notturno (metro: strofe di quattro novenari):
E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora
che penso ai miei cari.
Sono apparse in
mezzo ai viburni (arbusti dai fiori
bianchi)
le farfalle
crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali
dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l’odore
di fragole rosse.
Splende un lume là
nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.
Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per
l’aia azzurra
va col suo pigolio
di stelle.
Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento...
È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna
molle e segreta,
non so che felicità nuova.
Composto – come ci dice lo stesso autore in un nota –
per le nozze dell’amico Gabriele Briganti, si tratta di un epitalamio, che celebra, in modi
simbolici ed allusivi, l’atto amoroso che si compie fra i due sposi e che porta
al concepimento del piccolo Dante Gabriele Giovanni. Il trasparente
simbolismo proposto è quello del fiore che apre i suoi petali sul far della
sera, esala un profumo penetrante per tutta la notte e si dispone quindi al
processo di fecondazione che al mattino è compiuto (nel calice “si cova non
so che felicità nova”). Parallelamente, il processo di fecondazione si
compie anche nella casa, come viene indicato da una serie di immagini allusive
(la casa che “bisbiglia”, il lume che si spegne “al primo piano”).
Ma è un epitalamio moderno, in quanto quell’evento
notturno, invece di risolversi in un inno gioioso alla fecondità, è
osservato dal poeta con turbamento ed è associato a riferimenti inquietanti.
Tali sono i riferimenti al mondo dei morti (v. 2: nell’ora che penso ai
miei cari; v. 12: nasce l’erba sopra le fosse; e ancora, inaspettatamente, v. 23, dove l’urna,
elemento funerario, diventa metafora del ventre femminile; ma anche,
secondo alcuni, al v. 4, in quanto le farfalle crepuscolari, che
pure contribuiscono alla fecondazione dei fiori, hanno sul dorso una macchia a forma
di teschio); ma tali sono anche i riferimenti ricorrenti al nido (v.
7: sotto l’ali dormono i nidi; vv. 13-14: un’ape
tardiva sussurra / trovando già prese le celle; v. 16:
la Chioccetta va col suo pigolio di stelle), un nido
da cui il poeta si sente escluso (è
lui stesso l’ape tardiva che trova già prese le celle), come si sente
escluso dal rito di fecondazione che si compie nella casa: non a caso è
sottolineata, attraverso la ripetizione insistita dell’avverbio “là”,
la collocazione esterna rispetto alla
casa del poeta che osserva (una collocazione che qualcuno ha definito
“voyeuristica”: v. 6: là sola una casa bisbiglia; v. 11: splende
un lume là nella sala).
28) Bisognerà concludere che i sentimento di
estraneità rispetto a quel nido induce il poeta a rifugiarsi nell’unico
nido da lui conosciuto, quello della sua infanzia al quale è rimasto
bloccato, quello traumaticamente distrutto, ma che continua ad esistere nella
memoria dei suoi cari defunti. La componente erotica associata all’evento
nuziale è avvertita dalla sensibilità fanciullesca del poeta (mai
giunta, come sappiamo, ad una esperta maturità da questo punto di vista; e
proprio perciò ricca delle inquietudini e dei turbamenti propri del fanciullo) ed è comunicata sia con l’insistere
sulle intense sensazioni olfattive
e cromatiche (esemplare l’odore di fragole rosse, in
cui il colore rosso - che richiama la passionalità, la carica sensuale
- è associato sinesteticamente all’odore dolce delle fragole, che
parimenti evoca sensualità) sia con il
riferimento (appena accennato, ma ben riconoscibile) alla violenza insista
nell’atto (i petali / un poco gualciti).
29) Dal punto di vista formale, colpisce la struttura
assolutamente paratattica del componimento. La narrazione procede per giustapposizione di immagini,
che si affiancano l’una all’altra senza alcuna articolazione
gerarchica, ma secondo quella immediata intuizione analogica che è propria del
“fanciullino”: si vedano, ad esempio, le sequenze dalla seconda alla quarta
strofa, dove il piccolo è associato al
grande (l’ape al cielo stellato), la
vita alla morte (il lume acceso nella casa alle fosse dei cimiteri), e dove
risalta quel paragone surreale fra i nidi che dormono sotto le ali e gli occhi sotto
le ciglia.
30) Dal punto di vista metrico, si nota
che i primi due novenari di ogni strofa hanno il primo accento in seconda sede
(e dunque un ritmo discendente), i secondi due hanno il primo accento in terza
sede (con ritmo ascendente). Tale bipartizione ritmica ha il suo
corrispondente anche sintattico, perché il secondo verso della strofa si
chiude sempre con un punto fermo. Ma a questo schema si sottrae l’ultima
strofa, sulla quale evidentemente si vuole attirare l’attenzione (l’atto si è
compiuto, il concepimento è avvenuto): i primi due versi sono spezzati dalla
punteggiatura interna e forti enjambement segnano i passaggi nei primi tre
versi (il primo dei quali è messo in ulteriore evidenza dalla rima
ipermetra petali – segreta).
La poesia più bella e inquietante: Digitale purpurea
31) Infine, una delle poesie di Pascoli più belle e
più suggestive, a mio giudizio; una poesia dove attraverso un simbolismo
piuttosto trasparente emerge quella particolare sensibilità di Pascoli per
l’eros, una sensibilità che alcuni hanno
definito morbosa, altri fanciullesca; un eros che attrae con la sua
dolcezza, ma che allo stesso tempo è respinto perchè inibito da divieti, dalla
minaccia di pericoli mortali. Parlo di Digitale purpurea, tratta dai Primi
poemetti. La digitale purpurea, per chi non lo sapesse, è una spiga
di fiori rossi a campanelle, punteggiate di macchioline color rosso cupo.
Racconta Mariù, la sorella di Pascoli, che in una parte del giardino del
collegio che lei aveva frequentato da ragazza c’era questa pianta, dall’odore
intenso e inebriante. La suora maestra aveva detto alle educande di non
avvicinarsi mai a quel fiore perché quell’odore era velenoso e faceva morire.
Questo mio racconto, dice sempre Mariù, ispirò a Giovanni il poemetto. “Il dialogo fra due ex compagne di convento,
Maria e Rachele, è di sua immaginazione. In Maria ha voluto raffigurare me, ma
Rachele l’ha creata lui”. E appunto il poemetto è costruito immaginando che
le due compagne di un tempo, la bionda Maria e la bruna Rachele, si incontrino
e ricordino i tempi della loro adolescenza in collegio. Il testo è diviso in
tre sezioni: nella prima c’è l’incontro fra le due compagne che ricordano i
luoghi e i tempi del collegio; nella seconda, come in una sorta di flash back,
Maria e Rachele si sentono quasi trasportate nel passato e rivedono quei tempi
e quei luoghi; nella terza c’è la confessione di Rachele. Il metro è quello
delle terzine dantesche.
32) Leggiamo la prima sezione:
Siedono. L'una guarda
l'altra. L'una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna,
l'altra… I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono. «E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti
più?» «Non più, cara.» «Io
sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;
quei piccoli anni così dolci
al cuore…»
L'altra sorrise. «E di': non lo ricordi
quell'orto chiuso? i rovi con le more?
i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di…?»
«morte: sì, cara». «Ed era
vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.
Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l'aria; un suo vapor che bagna
l'anima d'un oblìo dolce e crudele.
Oh! quel convento in mezzo
alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;
e l'una e l'altra guardano
lontano.
Notate subito la
contrapposizione fra le due donne: Maria,
la bionda, è semplice di vesti / e di
sguardi; Rachele, la bruna, è l’altra,
cui seguono dei puntini di sospensione che alludono alla differenza rispetto a
Maria, tant’è che i suoi sguardi non sono semplici, ma ha occhi ch’ardono
(più oltre si dirà che ha occhi neri). L’opposizione fra donna bionda e donna
bruna rimanda alla opposizione fra donna
angelo e donna demonio; la bionda,
con la semplicità del suo sguardo, è
associata alla purezza verginale, la
bruna che ha occhi che ardono evoca
intensità di passione, sensualità morbosa.
33) Segue la seconda
sezione:
Vedono. Sorge nell'azzurro
intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d'incenso.
Vedono; e si profuma il lor
pensiero
d'odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d'innocenza e di mistero.
E negli orecchi ronzano, alle
bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche…
Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate
oggi: ed oggi, più alto, Ave,
ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d'un tratto (perché mai?) piangete…
Piangono, un poco, nel tramonto
d'oro,
senza perché. Quante fanciulle sono
nell'orto, bianco qua e là di loro!
Bianco e ciarliero. Ad or ad
or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.
In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,
l'alito ignoto spande di sua vita.
In quell’ambiente c’è
un sentor
d’innocenza e di mistero, e questi sono due sostantivi in contrasto,
perché c’è l’innocenza delle litanie, dell’incenso, del bianco delle vesti, del
libro buono che leggono, ma c’è anche
il mistero che ha a che fare con le
inquietudini delle ragazze, di cui loro stesse non capiscono bene la
natura; sono i turbamenti dell’adolescenza, per cui le ragazze dopo
l’incontro in parlatorio con un ospite
caro (chissà, un parente, forse un cugino per il quale provano un’attrazione),
tornano più rosse e liete alle
camerate, e poi piangono senza un perché. Ma soprattutto, a contrasto con
l’innocenza, e con le stesse ragazze chiamate agili e sane, compare all’improvviso nel finale quella spiga di
fiori, malefici e ripugnanti, che
sembrano dita / spruzzolate di sangue,
dita umane.
34) Quindi ecco
l’ultima sezione, con la confessione di Rachele:
«Maria!» «Rachele!» Un poco
più le mani
si premono. In quell'ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.
Memorie (l'una sa dell'altra
al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d'un ultimo saluto!
«Maria!» «Rachele!» Questa
piange, «Addio!»
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io,»
mormora, «sì: sentii quel
fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a
ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d'un sogno che notturno arse e che s'era
all'alba, nell'ignara anima, spento.
Maria, ricordo quella grave
sera.
L'aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M'inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!
Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi… (l'altra lo
stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido…) si muore!»
Al momento del
commiato, Rachele, senza osare di guardare in faccia l’amica (forse per
vergogna), confessa di avere compiuto
l’atto trasgressivo, di aver voluto sentire fino in fondo il profumo di quel
fiore proibito. E il suo racconto è denso di riferimenti alla dolcezza
del richiamo e poi al piacere dell’esperienza stessa di quel profumo. Tutti i dettagli evocano sensualità,
a partire da quel languido fermento / d’un sogno che notturno arse (forse un sogno erotico, che all’alba si
era spento, ma che aveva lasciato nell’ignara anima un turbamento che la
spinge ad andare verso il fiore); c’è il vento che porta odor di rose e di viole a /
ciocche, c’è l’aria che soffiava luce di baleni / silenziosi,
una luce che è sentita, per sinestesia, come un soffio che investe
dolcemente la ragazza; c’è la
leggerezza di lei (m’inoltrai leggiera) che cammina a piedi nudi sull’erba umida (su
per i molli terrapieni / erbosi) e i piedi che sono avviluppati dalla folta
erba; quindi c’è il richiamo
irresistibile (E dirmi sentia: Vieni! / Vieni!) e infine fu molta la dolcezza! Molta!
Tanta, che, vedi… si muore.
35) Su questa
conclusione, che associa la molta, tanta dolcezza alla morte, ci sono diverse
interpretazioni. Il carattere ambiguo,
allusivo, enigmatico di tale conclusione è certamente voluto da Pascoli.
C’è chi nega l’associazione fra il profumo inebriante del fiore e l’erotismo e suggerisce invece l’esperienza delle
droghe, per cui Rachele sarebbe diventata tossicomane fino ad ammalarsi
(e i suoi occhi che ardono sarebbero il segnale di tale malattia) e
sentirsi prossima alla morte. A me pare difficile escludere la carica di
sensualità che si avverte nella confessione di Rachele, e quindi escludere
l’associazione simbolica fra il profumo del fiore e l’esperienza del sesso.
Tuttavia resta enigmatica quella conclusione, a cui io non so dare altra
risposta che quella che rimanda alla particolare sensibilità di Pascoli, una
sensibilità predisposta a sentire una vicinanza, direi quasi una
sovrapposizione, fra eros e thanatos, fra l’amore e la morte.
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