AMOR CORTESE (schede)



L’amore e l’occidente (1938)

                                                                                                                                                                 
D. De ROUGEMONT
Rizzoli 1977


Nel sec. XII nasce, improvvisamente, in Provenza, una lirica d’amore, nuova rispetto all’antichità e con caratteristiche peculiari:


1) è un amore infelice (il poeta dichiara il suo amore e la dama risponde di no);


2) è un amore estraneo al matrimonio;


3) il poeta si dichiara “vassallo” della donna (l’uomo è “servente” della donna), ovvero, la donna è innalzata al di sopra dell’uomo (fatto che non riflette condizioni sociali, giacché la condizione della donna nelle istituzioni feudali è di assoluta subalternità).


Si nota, contemporaneamente, il diffondersi nelle stesse regioni (Linguadoca, Renania, Catalogna, Lombardia) di una potente eresia: il catarismo. Sui catari (o puri, o albigesi) grande informazione non c’è, perché l’Inquisizione ha bruciato o manipolato testimonianze. E’ comunque un’eresia che ha radici nel manicheismo, ovvero nella dottrina dualistica secondo cui c’è frattura assoluta fra Bene e Male, fra Dio e Mondo (che appartiene totalmente al demonio). Esistere vuol dire che una anima-angelo (che appartiene alla luce-verità) è stata imprigionata (per opera del demonio) in un corpo materiale che le è estraneo. L’inferno consiste appunto in questa prigione della materia, finché le anime non saranno reintegrate (dopo una serie di vite) nell’unità dello Spirito originario. Catari sono coloro che, attraverso cerimonie d’iniziazione, si consacrano a Dio rinunciando al mondo (in particolare, ad ogni contatto carnale).


Anche i trovatori esaltano la castità; anche loro deridono il matrimonio (chiamato dai catari iurata fornicatio) (1). E pure: la morte viene preferita ai doni del mondo; la separazione è motivo di maggior desiderio; l’alba è accolta con disperazione, perchè finisce la notte, ovvero il tempo in cui il poeta è stato con la sua donna (cioè, con la vera luce). Insomma, la Dama non sarebbe altro che l’Anima, ovvero la parte spirituale dell’uomo, che ambisce a (ha nostalgia di) integrarsi nella vera luce (desiderio che si può realizzare solo con la morte). (pp. 118-137)


Sull’onda del catarismo, la espansione del culto della donna (la “dama dei pensieri” della cortesia) è tale che la Chiesa romana risponde con il culto della Vergine Maria; e nel gioco degli scacchi la Regina prende il sopravvento su tutti gli altri pezzi. (pp. 157-160)


Nel 1209 Innocenzo III indice la crociata contro gli Albigesi: è il primo grande massacro della storia d’occidente (ed è anche la data che segna la fine della grande poesia provenzale).
 
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1) Quanto alla questione della castità, si può pensare a certe influenze orientali; precisamente, dall’India proviene la tecnica del tantrismo, che insegna - attraverso rituali yoga, e attraverso stadi successivi di avvicinamento alla donna (che cominciano con il “servizio”) - a raggiungere il nirvana (la transustanziazione del corpo umano) attraverso l’atto sessuale: un atto sessuale che non soppprime il piacere, ma l’effetto fisico di esso (e cioè, la produzione seminale). (pp.163-66)

 


Eloisa ed Abelardo (1940)

                                                                                                                                                                        
E. GILSON
Einaudi 1950

 
Gilson si imbatte nei due amanti analizzando le origini medievali dell’umanesimo; la sua tesi, verificata dall’incontro di due simili personalità, è che le formulette tipo ‘Rinascimento = individualità = capacità di analisi psicologica’ sono appunto formulette, contraddette, ad esempio, dalla presenza nel XII sec. di un simile carteggio, da cui si vede che non tutte le personalità sono appiattite nel “sistema” cristiano (non Dante con la Vita Nova o Petrarca hanno iniziato l’auto-analisi; non Erasmo la critica alle regole).

Ma più che Abelardo (la cui grandezza e smania di gloria erano già note), sconvolge la personalità di Eloisa, indimenticabile figura di innamorata che, fino all’ultimo, non riesce ad accettare pienamente la sua condizione di religiosa; pospone sempre l’amore per Dio a quello per Abelardo.

Mentre i termini della vicenda di Abelardo sono, in un certo senso, scontati (propone il matrimonio segreto “riparatorio”; una volta evirato, si dedica totalmente alla vita religiosa e lo stesso pretende da Eloisa; sconfitte le sue posizioni teologiche al concilio, muore da penitente a Cluny), sorprendenti sono i caratteri che emergono della figura di Eloisa: è contro il matrimonio (sarebbe di ostacolo alla carriera di Abelardo, e poi non è questo il segno, l’istituzione, dell’amore); denuncia la contraddizione di aver preso il velo materialmente, ma non col cuore (se ciò che conta è l’intenzione, non le opere, il suo cuore è di Abelardo, non di Dio); mette in discussione le regole della vita monacale (non ha senso che esistano particolari regole per particolari persone: esiste per tutti il Vangelo, che non impone la castità).
 

L’amore in Chretien


M. I., vol. I,
pp. 262-64, 267-70.

 
Chretien è attivo fra il 1160 e il 1190 a Troyes, capitale della Champagne (Francia centro-settentrionale). E’ autore di una serie di romanzi di materia bretone in ottonari rimati.

In Lancelot ou le chevalier de la charret Lancillotto appare come il tipo del cavaliere totalmente devoto all’amore: non fa una piega quando Ginevra lo rifiuta perchè ha esitato a salire sulla carretta infamante; esegue, con grande onta, il suo ordine di comportarsi da vile in torneo; si prosterna davanti al suo letto e l’adora (quando arriva e quando parte).

Ma in Chretien è presente anche il tema dell’amore coniugale: nell’Erec et Enide, Erec ama tanto la moglie che la cosa appare eccezionale (al castello se ne sparla); ed è l’autore stesso che dice: “mai si vide così bella coppia di sposi”. Nel Cligés, Fenice, l’eroina protagonista, rifiuta la doppiezza del matrimonio (di convenienza) e dell’amore (sincero).

Si direbbe una mediazione ideologica con la cultura cattolica.

L’avventura o l’idealizzazione
dell’ethos cavalleresco in Chretien

 
E. AUERBACH, Mimesis, vol. I,
Einaudi 1956, 1975, pp. 136-156

 
Il testo preso in esame è l’Yvain di Chretien, romanzo cortese della 2ª metà del sec. XII.

Calogrenant narra una sua avventura: ospite gradito presso un castello che incontra sulla strada di “destra” (la diritta via), intrattenuto cortesemente dalla castellana, e poi sconfitto nella battaglia alla fontana.

Auerbach nota lo sviluppo notevole dell’ipotassi, rispetto alla Chanson de Roland, nonché l’ambiente favoloso, assolutamente non identificabile, e assolutamente adatto perché si esplichi l’ideale cavalleresco dell’avanture . I dettagli sono realisticamente determinati, ma nei limiti di un ambiente sociale privilegiato (quello feudale-cavalleresco) e di un’atmosfera fiabesca che prescinde da ogni base politico-economico-sociale.

Mentre nella Chanson de Roland i cavalieri hanno ancora un compito politico decifrabile (difendere l’impero di Carlo contro gli infedeli), Calogrenant non ha nessun compito, vuole soltanto realizzarsi attraverso l’avventura. La parola chiave non è più “vassallaggio”, ma “cortesia”. La realtà del tempo (la dimensione storicamente reale del ceto cavalleresco) è dimenticata: l’ethos cavalleresco è assolutizzato (ed è quell’ethos che si mantiene fino a Don Chisciotte: il quale parte per l’avventura come Calogrenant, ma invece del castello incontra l’osteria - il quotidiano, il reale). Si deve supporre che tale idealizzazione sia il frutto della crisi della funzione della cavalleria?

Quanto all’amore come componente fondamentale di questo stato cavalleresco, va detto che si tratta di schemi differenziati, non ancora omogeneizzati dal modello della galanteria provenzale (“lo schema platonizzante della donna irraggiungibile, corteggiata invano, che venne dalla lirica provenzale e si perfezionò nel dolce stil novo, non predomina dapprincipio nell’epica cortese”). Si direbbe che qui sostituisca la mancanza di una motivazione pratica (politica) dell’agire.
 

La poesia trobadorica: una lettura sociologica


E. KÖHLER, Sociologia della fin’amor,
Liviana 1976, in M. I., vol. I, pp. 169-171.
 

 
C’è un gruppo sociale (la piccola nobiltà) che, non potendo più pretendere (per ragioni storiche) un feudo, chiede l’“onore” dello stato cavalleresco: tale prestigio sociale è ottenuto mediante il servigio d’amore. La dama infatti è come il signore, con diritti, ma anche con doveri: precisamente è lei che con la sua grazia (il surrogato del compenso in feudi) può integrare nella nobiltà.

Si definisce così tutta una serie di doti (la liberalità, la cortesia, ecc.) che fanno la vera nobiltà, indipendentemente dal possesso di terre.

A proposito delle caratteristiche dell’amor cortese, si può rilevare quanto segue:

1) la gelosia non è tollerata; l’amante non parla della sua gelosia, se non come colpa; e il marito geloso è degno di disprezzo (è un “villano”);

2) sul piano sociale, il corrispettivo è il rifiuto della proprietà privata; o meglio: il desiderio di una utilizzazione collettiva della proprietà del grande feudatario (questo sarebbe implicito nella esaltazione della liberalità);

3) ciò, naturalmente, non sarebbe che l’espressione ideologica della volontà della piccola nobiltà di integrarsi nella classe dominante (vedi M. I., vol. I, pp. 260-261).

 

Il discorso sulla piccola nobiltà che si dà un sistema di valori (di idealità) per integrarsi nella classe dominante, mi pare accettabile, e del resto è assimilabile al discorso di Hauser sui ministeriales (v. p. 2). Mi pare invece una forzatura la tesi (fondata su quali elementi?) che associa il disprezzo della gelosia al rifiuto della proprietà privata. Noto peraltro che c’è un passo del De amore (Guanda 1980, pp. 127 e segg., e altrove) in cui si afferma che la gelosia (riprovevole tra coniugi) è la sostanza stessa dell’amore, il quale, anche per questo, non si può che sviluppare fuori del matrimonio.
L’amor cortese

 
C. S. LEWIS, L’allegoria d’amore,
Einaudi 1969, pp. 3-43.


1) Eccezionale la novità dell’“amor cortese”, fatto di Umiltà, Cortesia, Adulterio e Religione d’Amore. Il servizio d’amore (o Frauendienst) è ricalcato su quello del vassallaggio, tanto è vero che l’appellativo della dama è “midons“ (mio signore). E il nemico non è il marito, ma il “rivale”.

2) Nella letteratura antica l’amore è una gioiosa sensualità, o una tragica follia (una malattia che può portare al delitto: vedi Medea, Fedra, Didone); all’altro estremo, troviamo riconosciuta la comodità e l’utilità di una buona moglie (Odisseo ama Penelope alla stregua del resto dei suoi possedimenti). Certo, l’Arte d’amare di Ovidio raccomanda il “servizio” per raggiungere lo scopo (la conquista). Ma il tono è ironico, e allora per il Medioevo si tratterebbe di un Ovidio frainteso.

3) Nemmeno fu il cristianesimo a portare ad una idealizzazione della concezione dell’amore: è più probabile che il culto della Vergine sia un effetto che una causa dell’amor cortese. Da scartare è anche la derivazione germanica: è vero che Tacito, nella Germania, rileva il particolare rispetto di quelle popolazioni per le donne; ma questo, caso mai, avrebbe portato ad una concezione paritaria, non alla sottomissione maschile. Più interessante è il rilievo del rapporto d’amore esistente fra vassallo e signore (di Rolando per Carlo, ad esempio): ma questo spiega perché l’amor cortese, quando compare, si travesta da rapporto di vassallaggio. E, certo, tale “travestimento” ci fa capire il connotato dell’Umiltà. Quanto alla Cortesia, si spiega con l’ambiente: nella corte provenzale l’elemento femminile funge da mitigatore della rozzezza maschile.

4) Circa l’Adulterio, va detto che in una società dove il matrimonio ha scopi utilitari, ogni idealizzazione dell’amore deve cominciare con l’idealizzare l’adulterio. Del resto, secondo la teologia medievale, per la passione d’amore non c’è posto nemmeno all’interno del matrimonio: il matrimonio è per la procreazione, non è certo il luogo dell’amore, del desiderio (che allora si affermeranno al di fuori del matrimonio) (1).

5) Come il vassallaggio si riversa nel nuovo tipo d’amore, così le forme del sentimento religioso si insinuano nella poesia amorosa: ecco spiegata la devozione al dio d’Amore. Tutt’altro che derivarne, questa religione si pone come rivale o parodia di quella vera (come dimostra il Concilio di monache di Remiremont) (2). Solo più tardi (con Dante) si avrà la fusione fra esperienza amorosa e religiosa.


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1) Sul contrasto fra amor cortese e matrimonio insistono sia Lewis (pp. 36-37, ove interpreta il De amore  di A. Capellano) che D. de Rougemont (in L’amore e l’occidente  - vedi scheda - analizza il romanzo di Tristano e trova che il vero amore, cortese, pone un dovere di fedeltà sconosciuto al matrimonio legale: pp. 76-79). G. Duby invece (Il cavaliere, la donna e il prete, CDE 1984, pp. 187-200: anche lui interpreta il trattato di Capellano, in particolare la ritrattazione del III libro) vede nell’amore adulerino soltanto una tappa, propria dell’età giovanile, del percorso che conduce alla maturità, segnata dal rito del matrimonio, cui i cavalieri tendono come alla meta ideale.
2) Un testo del XII sec. descrive un concilio di monache (a Remiremont) dove al posto dei vangeli si leggono le opere di Ovidio e la questione all'ordine del giorno concerne le teorie e le pratiche in materia d'amore.
 

L’amor cortese


H. HAUSER, Storia sociale dell’arte,
Einaudi 1956, vol. I, pp. 234-247.
 

 
Con la cavalleria nasce il nuovo ideale amoroso: la donna diviene il centro ideale di questa società, fatto nuovo, visto che era sempre stata considerata proprietà dell’uomo (nell’Iliade, Elena e Briseide sono semplici oggetti di lite; nell’Odissea, Penelope fa parte della proprietà della casa; nei lirici si tratta di un amore sensuale, fonte di gioia o dolore; in Ovidio è una malattia che toglie la ragione). Nuova è questa concezione romantico-sentimentale dell’amore, per cui l’uomo corteggia e spasima, si fa vassallo della donna, si esalta anche nel più duro insuccesso (l’amore diventa strumento di autoperfezionamento).

Il fatto è ancor più strano se si pensa che, in questo rigoroso Medioevo, è a una donna maritata che ci si rivolge (l’amore è adulterino).

Si tratta di una trasposizione del rapporto politico di vassallaggio nel rapporto con la donna, ovvero di una sublimazione della sudditanza? Il tutto diventerebbe una sorta di gioco di società, e sarebbe escluso che la donna ricambiasse, adulterinamente (1).

Piuttosto, dobbiamo pensare a un mondo (il castello) con molti uomini e poche donne: il trovatore (un cadetto ramingo) (2) si fa cantore della tensione erotica che inevitabilmente si crea. (3)

Non è dimostrabile che all’origine ci sia una ballata popolare (la canzone della malmaritata, col motivo della sposa che, una volta all’anno, si prende un giovane amante): caso mai, è il contrario. Stessa cosa può dirsi del culto di Maria.
 
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1) E' la tesi di E. Wechssler (Frauendienst und Vasallitat, 1902), secondo cui si può supporre che, in assenza dei signori impegnati nelle guerre, il potere feudale fosse esercitato dalle donne. Ma l'idea di una "sublimazione della sudditanza" si scontra con il fatto che Guglielmo IX d'Aquitania, il più antico trovatore, non era un vassallo, ma un gran principe.

2) Non a caso: è uno "spostato" che rimuove i tabù e dà voce all'erotismo.

3) Malgrado il comandamento religioso della continenza, tutta l'epoca è pervasa da una costante tensione erotica (nei tornei, i cavalieri portavano sulla pelle il velo o la camicia dell'amata).


 

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