Leopardi:
la poetica
Avvertenza: per quanto riguarda il Discorso di un Italiano,
le indicazioni delle pagine fanno riferimento all'edizione commentata da
Francesco Flora, Milano 1968 (1940); invece, per quanto riguarda lo Zibaldone,
vengono indicate, oltre alle date del testo leopardiano, le pagine
dell'edizione a cura di Walter Binni, Firenze 1989 (1969).
1) Leopardi teorico della poesia, oltre che poeta
Intendiamo
per poetica di un autore l’insieme delle idee che l’autore ha sulla poesia, ciò
che lui crede che sia la poesia, quindi i principi cui si attiene nel fare
poesia. Una poetica può essere esplicita o implicita. Il primo caso si ha
quando l’autore dichiara esplicitamente tali principi, quando il lettore
dispone di testi in cui l’autore ha esplicitamente enunciato le sue idee sulla
poesia. Il secondo caso si ha quando, al contrario, non esistono tali
documenti, ma è dalla poesia stessa che il lettore desume il pensiero del poeta
sulla poesia, sulla sua natura, sulle sue finalità; la poetica, insomma, è
implicita nell'opera.[1] Nel
caso di Leopardi la riflessione sulla poesia è costante ed accompagna per tutta
la vita il suo fare poetico. Abbiamo un documento fondamentale per capire il
suo pensiero sulla poesia (il Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica) ed abbiamo nello Zibaldone le riflessioni continue che
egli viene svolgendo nel corso degli anni. E’ una riflessione tormentata, anche
contraddittoria, che si innesta originariamente sulla polemica allora viva fra
classicismo e romanticismo, ma che arriva ad esplorare territori nuovi e giunge
a conclusioni originali.
2) Una riflessione tormentata e contraddittoria: l’opinione di
Ungaretti
Dicevo,
riflessione tormentata e contraddittoria. E infatti se noi leggiamo il Discorso
e a questa facciamo seguire la lettura delle pressoché contemporanee o di poco
successive riflessioni rintracciabili nello Zibaldone, non possiamo non
stupirci di fronte a certi cambiamenti di prospettiva, di più, a certi
rovesciamenti di giudizio. Ma anche restando al solo Discorso, lo
stesso Leopardi appare talmente consapevole della problematicità del proprio
pensiero che sente il bisogno di avvertire il lettore:
forse
in progresso mi toccherà di combattere due opinioni contrarie, l'una delle
quali s'avvicini alla nostra, e se il lettore non ci guarderà molto per minuto,
gli dovrà parere ch'io combatta me medesimo. (p.476)
Lo
fa attribuendo la contraddittorietà all'avversario, ma è fin troppo evidente
che la precisazione denuncia una difficoltà nel contestare idee che, per
qualche verso, sono anche sue (o che, se si preferisce, per qualche verso,
hanno fatto breccia in lui[2]). Del
resto le stesse poesie di quegli anni (gli idilli, scritti fra il 1819 e il
1821: e leggeremo qualche testo esemplare in questo senso, La sera del dì di
festa e L’infinito)
testimoniano un fare poetico che non corrisponde ai principi enunciati
polemicamente nel Discorso, ma sembra piuttosto accettare ciò che lì era
stato contestato. Al punto che Ungaretti, in uno scritto su Leopardi (Secondo
discorso su Leopardi, 1944) giunge a sostenere che il Discorso non è
più di un’esercitazione accademica, mentre in verità Leopardi, come poeta,
sarebbe fortemente influenzato dalle opinioni del Di Breme, insomma quelle
stesse opinioni che contesta nel Discorso, Leopardi le farebbe proprie
nella poesia; e cerca di dimostrarlo, Ungaretti, con qualche forzatura, a mio
giudizio, ma indubbiamente ha buon gioco nel rilevare che Leopardi finisce per
accogliere, teoricamente e praticamente, i principi dei cosiddetti "moderni",
ovvero dei romantici.
3) L’occasione del Discorso
e l’equivoco patriottico
Il
Discorso è scritto nel 1818 come risposta alle Osservazioni di
Di Breme sullo "Spettatore italiano" (si tratta di due
articoli che compaiono nel gennaio;[3] nel
marzo Leopardi ha già elaborato la risposta, ma non viene pubblicata né dallo
"Spettatore", né, successivamente, in opuscolo; vedrà la luce
nel 1906). Era questo un vero e proprio manifesto di adesione al romanticismo,
e la risposta di Leopardi intende controbattere a quelle idee in nome della
tradizione classica e italiana.[4]
Tradizione classica e italiana: notate che Leopardi ritiene la tradizione
letteraria italiana erede, continuatrice di quella classica; dunque per lui la
difesa della classicità è anche una difesa patriottica della italianità contro
l’invadenza di caratteri e gusti di origine nordica: tale gli sembra appunto il
romanticismo, nient’altro che una moda proveniente dalla Germania e
dall’Inghilterra ed estranea alla sensibilità latina.[5] Per
capire come questo spirito patriottico sia una componente fondamentale del Discorso
(che non a caso è "di un italiano"), si pensi che dello stesso anno
sono le canzoni Sopra il monumento di Dante
e All’Italia, dove si leva alto il lamento per la sorte della patria
("di catene ha carche ambo le braccia" e "siede a
terra negletta e sconsolata"): lo stesso lamento, traboccante di amor
patrio, si distende nelle pagine finali del Discorso:
vedo
negletti e avuti a schifo i nostri sovrani scrittori, e i greci e i latini
antecessori nostri, e accolte, e ingozzate ghiottissimamente, e lodate e
magnificate quante poesie quanti romanzi quante novelle quanto sterco
sentimentale e poetico ci scola giù dalle Alpi e c’è vomitato sulle rive del
mare; vedo languido e pressoché spento l’amore di questa patria: vedo gran
parte degl’italiani vergognarsi d’essere compatriotti di Dante e del Petrarca e
dell’Ariosto e dell’Alfieri e di Michelangelo e di Raffaello e del Canova.
(p.546-47).
E’
un rilievo importante, perché proprio questo amor patrio sembra far velo, in
Leopardi, alla comprensione ed accettazione delle idee romantiche. Idee che,
come vedremo, finisce per accogliere nella loro sostanza.
4.1) I principi del Discorso: imitazione della natura, immaginazione,
diletto
Leggiamo
il Discorso. Ci sono parole e concetti ricorrenti su cui Leopardi
insiste per definire quello che per lui è l’”ufficio” della poesia, il suo
fine, il suo fondamento: imitazione della natura, diletto, illusioni,
immaginazione. Al centro c’è il seguente principio: la poesia è imitazione
della natura (e quindi è immutabile, poiché è immutabile la natura), si fonda
sull’immaginazione ed ha come fine il diletto.
“Le bellezze dunque della natura (…) non
variano pel variare de' riguardanti, ma nessuna mutazione degli uomini indusse
mai cambiamento nella natura, la quale vincitrice dell'esperienza e dello
studio e dell'arte e d'ogni cosa umana mantenendosi eternamente quella, a
volerne conseguire quel diletto puro
e sostanziale ch'è il fine proprio della poesia (giacchè il diletto nella
poesia scaturisce dall'imitazione della natura), ma che insieme è
conformato alla condizione primitiva degli uomini, è necessario che, non la
natura a noi, ma noi ci adattiamo alla natura, e però la poesia non si venga
mutando, come vogliono i moderni, ma ne' suoi caratteri principali, sia, come
la natura, immutabile. E questo adattarsi degli uomini alla natura, consiste in
rimetterci coll'immaginazione come
meglio possiamo nello stato primitivo de' nostri maggiori, la qual cosa ci fa
fare senza nostra fatica il poeta padrone delle fantasie.” (p. 477-78)
Il
poeta sceglie “dentro i confini del verosimile quelle migliori illusioni che
gli pare, e quelle più grate a noi e meglio accomodate all’ufficio della poesia, ch’è imitar la natura, e al fine, ch’è
dilettare” (p. 474)
“il poeta deve illudere, e illudendo
imitar la natura, e imitando la natura dilettare: e dov'è un diletto
poetico altrettanto vero e grande e puro e profondo?” (p. 481)
4.2) I principi del Discorso: la
poesia non è filosofia
Sbaglia
quindi Di Breme (e i romantici con lui) quando sostiene che la poesia moderna
si fonda sulla ragione e sulla conoscenza del vero; sbaglia, perché questo è proprio
della filosofia, non della poesia (la poesia è cosa "corporale", non
"metafisica"):
Già
è cosa manifesta e notissima che i romantici si sforzano di sviare il più che
possono la poesia dal commercio coi sensi, per i quali è nata e vivrà
finattantoché sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto, e strascinarla
dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e tramutarla di materiale e
fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale (p.
470)
La
poesia si fonda sul falso, non sul vero, sull’inganno dell’immaginazione non
sulla conoscenza della verità, perché è quell’inganno (quella illusione) che
procura il diletto:
Non è del poeta ma del filosofo il
guardare all’utile e al vero: il poeta ha cura del dilettoso, e del dilettoso
alla immaginazione, e questo raccoglie così dal vero come dal falso, anzi per
lo più mente e si studia di fare inganno, e l’ingannatore non cerca il vero ma
la sembianza del vero (p. 477)
Si
pensi alla famosa formula manzoniana: la poesia ha per oggetto il vero e per
fine l’utile (e per mezzo l’interessante). Quella formula è rovesciata: la poesia
ha come oggetto il falso e per fine il diletto (e per mezzo l’inganno).
4.3) I principi del Discorso: contro la
mitologia e contro le regole
Ma
che vuol dire “imitare la natura”? Vuol dire porsi davanti alla natura (che è
immutabile) con la stessa freschezza spirituale degli antichi (p. 478: dobbiamo
"rimetterci coll’immaginazione… nello stato primitivo de’ nostri
maggiori"). Ma questo non vuol dire imitare gli autori classici,
riprendendo la loro mitologia e osservando le loro regole, sia perché le favole
greche sono "invenzioni arbitrarie" (e quindi appartengono ai popoli
antichi, non sono "comuni con noi"):
quando
noi disputiamo che la poesia moderna non si dee né si può diversificare
dall’antica, non difendiamo l’abuso né l’uso delle favole de’ gentili. Vogliamo
che sieno essenzialmente comuni alla poesia greca e latina con la presente e
con quella di tutti i tempi, le cose naturali necessarie universali perpetue,
non le passeggere, non le invenzioni arbitrarie degli uomini, non le credenze
non i costumi particolari di questo o di quel popolo, non i caratteri non le
forme speciali di questo o quel poeta; le
favole greche sono ritrovamenti arbitrari, per la più parte bellissime
dolcissime squisitissime, fabbricate sulla natura… ma fabbricate da altri, non
da noi, fabbricate, come ho detto, sulla natura, non naturali; perciò non sono
comuni agli antichi con noi, ma proprie loro: non dobbiamo usurpare le
immaginazioni altrui… (p. 510)
sia
perché "l’osservanza cieca e servile delle regole" produce una
"imitazione esangue e sofistica", non poesia:
noi non vogliamo che il poeta imiti
altri poeti, ma la natura, né che vada accattando e cucendo insieme ritagli di
roba altrui… vogliamo che i poeti
dell’età presente e delle passate e avvenire sieno simili quanto è forza che
sieno gli imitatori di una sola e stessa natura, ma diversi quanto conviene
agl’imitatori di una natura infinitamente varia e doviziosa. L’osservanza cieca e servile delle
regole e dei precetti, l’imitazione esangue e sofistica, in somma la schiavitù
e l’ignavia del poeta, sono queste le cose che noi vogliamo? (p. 511)
E
questa, come si vede, è già una bella concessione agli avversari romantici, i
quali avevano come bersaglio polemico proprio l’uso e l’abuso della mitologia
nelle opere letterarie, nonché l’osservanza delle regole.
4.4) Immaginazione e ragione: filogenesi e
ontogenesi
Ma le riflessioni più
interessanti del Discorso sono quelle relative alla immaginazione. La
poesia si fonda sulla capacità immaginativa, capacità particolarmente sviluppata
presso i popoli antichi, a misura che negli stessi, invece, è ridotta la
capacità di conoscere razionalmente, scientificamente la natura.[6]
Senonché il divenire storico, mentre fa crescere la conoscenza scientifica
della natura, produce inevitabilmente una riduzione dello spazio immaginativo.
E’ la stessa cosa che succede nella crescita individuale: l’ontogenesi (ovvero,
il processo di sviluppo dell’individuo) ripete la filogenesi (ovvero, il
processo di sviluppo della società), o viceversa:
quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e
quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno,
dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei
diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia”
(p. 479-80)[7]
Analogamente
a quel che succede nello sviluppo della civiltà, l’immaginazione (la capacità
di creare favole, di interpretare miticamente la natura, di animarla),
particolarmente sviluppata nei fanciulli, si riduce man mano che cresce
nell’individuo la capacità raziocinante.
4.5) Il poeta è il liberatore dell’immaginazione
dall’oppressione dell’intelletto
Con
tutto ciò, l’idea dei romantici, secondo cui, di conseguenza, la poesia moderna
non può che servirsi dell’intelletto e fondarsi sulla conoscenza del vero, è
un’idea assolutamente inaccettabile, perché l’intelletto e la conoscenza del
vero restano sempre la negazione della poesia:
l’esperienze
le scoperte gli effetti dell’incivilimento daranno lena… alla fantasia? Quelle
cose che l’affogano l’avviveranno? La ragione ch’a ogni poco la mette in fuga e
la perseguita e l’assalisce e quasi la sforza a confessare ch’ella sogna,
l’esperienza che l’assedia e la stringe e le oppone al volto la sua
molestissima lucerna, la scienza che le contrasta e le sbarra tutti i passi col
vero, queste cose alimenteranno e conforteranno l’immaginativa? (p. 482-483)
Lo
spazio dell’immaginazione, per quanto ridotto, esiste ancora, deve solo essere
liberato dai vincoli e dall’oppressione imposta dall’intelletto, e il poeta è
questo liberatore:
Non
però va creduto, come pare che molti facciano, che col tempo sia scemata
all’immaginazione la forza, e venga scemando tuttavia secondoché s’aumenta il
dominio dell’intelletto: non la
forza, ma l’uso dell’immaginazione è scemato e scema… e a volere che
l’immaginazione faccia presentemente in noi quegli effetti che facea negli
antichi, e fece un tempo in noi stessi, bisogna sottrarla all’oppressione
dell’intelletto, bisogna sferrarla e scarcerarla, bisogna rompere quei recinti:
questo può fare il poeta, questo deve (p. 483-484)
A noi l’immaginazione è liberata
dalla tirannia dell’intelletto, sgombrata dalle idee nemiche alle naturali,
rimessa nello stato primitivo o in tale che non sia molto discosto dal primitivo,
rifatta capace dei diletti sovrumani della natura, dal poeta (p. 508)
In
altre parole, si può dire che il poeta è colui che è in grado di ridestare in
noi adulti la memoria dell’infanzia, allo stesso modo in cui ce la ridestano le
opere degli antichi:
dal
genio che tutti abbiamo della puerizia si deve stimare quanto sia quello che
abbiamo alla natura invariata e primitiva, la quale è né più né meno quella
natura che si palesa e regna ne’ putti, e le immagini fanciullesche e la
fantasia che dicevamo, sono appunto le immagini e la fantasia degli antichi, e le
ricordanze della prima età… sono appunto quelle che ci ridesta
l’imitazione della natura schietta e inviolata, quelle che ci può e
secondo noi ci deve ridestare il poeta, quelle che ci ridestano
divinamente gli antichi, quelle che i romantici bestemmiano e rigettano e
sbandiscono dalla poesia, gridando che non siamo più fanciulli: e purtroppo non
siamo; ma il poeta deve illudere…(p.481)
Il
poeta moderno deve soltanto educare la propria immaginazione, ridarle la
vitalità perduta (soffocata dalla ragione), e questo lo si ottiene attraverso
lo studio degli antichi:
appena
mi si lascia credere che in questi tempi altri possa cogliere il linguaggio
della natura, e diventare vero poeta senza il sussidio di coloro che vedendo
tutto il dì la natura scopertamente e udendola parlare, non ebbero per essere
poeti bisogno di sussidio (p. 508)
Gli
antichi dunque non sono modelli da imitare ciecamente (come si diceva sopra),
ma sono gli educatori della nostra immaginazione, coloro che ci insegnano a
guardare la natura con gli occhi dell’immaginazione.
5.1) Oltre il Discorso: il
ripensamento della canzone Ad Angelo Mai
C’è
dunque qui un atteggiamento ottimistico: la possibilità di creare favole,
sogni, illusioni (la possibilità di fare poesia) non è uccisa per sempre dalla
invadenza della ragione (della filosofia); sopravvive uno spazio per
l’immaginazione, e questo spazio va coltivato, amplificato, rivitalizzato. Ben
diverse, solo due anni dopo, le sconsolate considerazioni sulla conoscenza
razionale (scientifica, filosofica) della verità che determina senza rimedio la
fine della immaginazione che consentiva agli antichi di creare i loro miti.
Sentite la strofa centrale della canzone Ad Angelo Mai, laddove il poeta,
parlando della scoperta dell’America da parte di Colombo, lamenta la fine della
bella favola che aveva immaginato l’altrove sconosciuto come sede notturna del
Sole e della fanciulla Aurora (vv. 91-105):
Nostri
sogni leggiadri ove son giti / dell'ignoto ricetto / d'ignoti abitatori, o del
diurno / degli astri albergo, e del rimoto letto / della giovane Aurora, e del
notturno / occulto sonno del maggior pianeta? / Ecco svaniro a un punto, / e
figurato è il mondo in breve carta; / ecco tutto è simile, e discoprendo, /
solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta / il vero appena è giunto, / o caro
immaginar; da te s'apparta / nostra mente in eterno; allo stupendo / poter tuo
primo ne sottraggon gli anni; / e il conforto perì de' nostri affanni./
5.2) Oltre il Discorso: il ripensamento a
proposito della poesia sentimentale
Qualcosa
è cambiato nell’arco di due anni. Ed è un cambiamento che si avverte ancora
meglio se mettiamo a fuoco la questione della poesia sentimentale. La tesi del
Di Breme, che Leopardi contesta nel Discorso, era appunto che la poesia
moderna, per le ragioni suddette, dovesse fondarsi sul "patetico",
sul sentimentale (l’immaginazione è propria degli antichi, il sentimentale dei
moderni). Ovviamente Leopardi ha buon gioco nell’accusare i romantici di
eccesso ed artificiosità; il sentimento di cui parlano non è naturale (come
tale, era proprio anche degli antichi, i quali erano commossi dallo spettacolo
della natura e comunicavano con semplicità questa commozione: a prova di ciò,
Leopardi cita due famosi "notturni", uno di Omero, Iliade,
VIII, 555-559[8], e uno di Virgilio, Eneide,
VII, 8-16[9]), ma
è sollecitato forzatamente ed artificialmente: è patetismo, affettazione di
sentimento, sentimentalismo deteriore:
(i
romantici) vogliono che il poeta a bella posta scelga, inventi, modelli,
combini, disponga, per fare impressioni sentimentali, che ne’ suoi poemi non
soltanto le cose ma le maniere sieno sentimentali, che prepari e conformi gli
animi de’ lettori espressamente ai moti sentimentali, che ce li svegli
pensatamente e di sua mano, che in somma e il poeta sia sentimentale
saputamente e volutamente, e non quasi per ventura come d’ordinario per gli
antichi… (p. 515-516)
…
è nudo e palese l’intendimento risoluto dello scrittore, di fare un libro o una
novella o una canzone o un passo sentimentale: e ometto come il patetico sia
sparso e gittato e versato per tutto… possiamo vedere, non so s’io dica senza
pianto o senza riso o senza sdegno, scialacquarsi il sentimentale… gittarsi a
manate, vendersi a staia… ridondare le botteghe di Lettere sentimentali, e
Drammi sentimentali, e Romanzi sentimentali e Biblioteche sentimentali… (p.
522-523)
Ma
non c’è dubbio che, al di là degli eccessi indicati, sulla sostanza del
pensiero del Di Breme e dei romantici Leopardi finisce per ricredersi, anzi per
farlo proprio pienamente. Si legga il pensiero del 1 luglio 1820, dove –
riferendosi alla grande crisi patita l’anno precedente, soprattutto a seguito
dell’accentuarsi dei problemi alla vista – dice di essere divenuto filosofo, e
quindi sentimentale, da poeta, e immaginifico, che era: lo stesso che è
successo allo "spirito umano in generale":
Nella
carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito
umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi
erano pieni d'immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di
profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli
affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva... La mutazione totale in me, e il
passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè
nel 1819 dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della
lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso,
cominciai... a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era)... Allora l'immaginazione in me fu
sommamente infiacchita... E s'io mi metteva a far versi, le immagini mi
venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata... bensì quei
versi traboccavan di sentimento. (Zib. 71) (1/7/20)
5.3) Oltre il Discorso: la questione del
consenso dell’intelletto all’inganno dell’immaginazione
Segue
la pagina del 19 ottobre 1820, dove si nega la tesi sostenuta nel Discorso,
secondo cui le favole sono il fondamento della poesia, suscitano diletto, a
prescindere dal consenso dell’intelletto (il quale, in un certo senso, accetta
la convenzione di entrare nel mondo dell’immaginazione), anzi, contrastando la
tirannia dell’intelletto, rispetto a cui il poeta è un liberatore. Si confronti
ciò che è detto nel Discorso:
…
il poeta non inganna gli intelletti né gl’ingannò mai… ma solamente le
fantasie… è ridicolo dire che il poeta non possa illudere (la immaginazione)
quando non s’attenga alle opinioni e ai costumi nostri, quasi che noi non le
dessimo licenza di lasciarsi ingannare, e che ella non avesse forza di
scordarsi, né il poeta di farle scordare, e opinioni e consuetudini e
checchessia… l’intelletto in mezzo al delirio dell’immaginativa conosce
benissimo ch’ella vaneggia… (p. 473)
…
abbiamo veduto come s’ingannino coloro i quali negando che le illusioni
poetiche antiche possano stare colla scienza presente, non pare che avvertano
che il poeta già da tempi remotissimi non inganna l’intelletto, ma solamente la
immaginazione degli uomini… (p. 507)
con
ciò che è detto nello Zibaldone: adesso si dice che il consenso
dell’intelletto (la persuasione) è indispensabile per ottenere l’effetto voluto
(cioè, il diletto), e questo consenso, "in tanta propagazione e
incremento dei lumi", è impossibile che ci sia (altro decisivo
argomento, insomma, a sostegno della tesi che la poesia moderna non può
prescindere dalla conoscenza del vero, dalla filosofia, dalla facoltà
intellettiva):
La
poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto alla commozione o impulso di
qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur possa persuadere, non solo
secondo le regole ordinarie della verisimiglianza, ma anche rispetto ad un
certo tal quale convincimento che la cosa stia o possa stare effettivamente
così… Ma oggidì in tanta propagazione
e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova o nuovamente applicata, trova il
menomo luogo nell’intelletto… E questa è una gran ragione per cui la poesia
oggidì non può più produrre quei grandi effetti né riguardo alla maraviglia e
al diletto, né riguardo all’eccitamento degli animi, delle passioni ec…
(Zib. 117) (19/10/20)
5.4) Oltre il Discorso: il ripensamento sul
classicismo
Quindi
la decisiva riflessione dell’8 marzo 1821, dove non solo si dice che "la
poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo"
(ed è così, anche se "appena si può dire che la sentimentale sia
poesia, ma piuttosto una filosofia, un’eloquenza"), ma anche che è
insensato ogni tentativo di "voler fare quello stesso che facevano i
nostri avoli… di voler fingere una facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta":
La forza creatrice dell’animo
appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli antichi. Dopo
che l’uomo è divenuto stabilmente infelice e, che peggio è, l’ha conosciuto… e
dopo che il mondo è divenuto filosofo, l’immaginazione veramente forte, verde,
feconda, creatrice, fruttuosa, non è più propria se non de’ fanciulli… Un
Omero, un Ariosto non sono per li nostri tempi, né, credo, per gli avvenire.
Quindi molto e giudiziosamente e naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il
nervo e il forte e il principale della poesia dalla immaginazione all’affetto,
cangiamento necessario, e derivante per se stesso dal cangiamento dell’uomo…
Che smania è questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri
avoli, quando noi siamo così mutati?… Di voler fingere una facoltà che non
abbiamo, o abbiamo perduta, cioè l’andamento delle cose ce l’ha renduta
infruttuosa e sterile, e inabile a creare? Di voler essere Omeri, in tanta
diversità di tempi? (Zib. 221)
(8/3/21)
Insomma
qui Leopardi contesta esplicitamente le posizioni che lui stesso aveva
sostenuto nel Discorso (si pensi in particolare a quel passo in cui
diceva che, siccome immutabile è la natura, non si può pensare che muti la
poesia: “è necessario che, non la natura a noi, ma noi ci adattiamo alla natura,
e però la poesia non si venga mutando, come vogliono i moderni, ma ne' suoi
caratteri principali, sia, come la natura, immutabile. E questo adattarsi degli
uomini alla natura, consiste in rimetterci coll'immaginazione come meglio
possiamo nello stato primitivo de' nostri maggiori, la qual cosa ci fa fare
senza nostra fatica il poeta padrone delle fantasie”).
5.5) Oltre
il Discorso: il ripensamento sul
patriottismo
Ma
quest’ultima riflessione è notevole anche perché appare chiaro come il
patriottismo del Discorso sia superato: non solo si indicano con
ammirazione le altre nazioni che “molto e
giudiziosamente e naturalmente” “hanno
rivolto il nervo e il forte e il principale della poesia dalla immaginazione
all’affetto” (si ricordi come nel Discorso si parlasse di “sterco sentimentale e poetico [che] ci scola giù dalle Alpi e c’è vomitato
sulle rive del mare”), ma, nel prosieguo, si denuncia con asprezza la
mediocrità degli italiani, i quali, incapaci di poesia sentimentale (perché
incapaci di filosofia), si dedicano ad una poesia di pura imitazione degli
antichi, e quindi di nessun valore (così fa Monti, ora definito "non
poeta, ma traduttore", cosiccome precedentemente era stato definito
poeta "dell’orecchio e non del cuore"):
Ma
gl’Italiani contuttociò, e contro la natura de’ tempi e della poesia, si
gittano ad un genere che oggi non può essere se non o forzato o imitativo, e lo
fanno perché questo riesce loro molto più facile del sentimentale… E così tutti i sensati Italiani e
forestieri, si accordano in dire che l’Italia manca del genere sentimentale. Ma
non osservano che con ciò vengono a dire e confessare che l’odierna Italia
manca di letteratura, certo di poesia. Quasi che il detto genere fosse proprio
di questa o quella nazione, e non del tempo. Quasi che oggidì la condizione
generale degli uomini ammettesse altro genere di poesia, e che il mancare di
questo genere non fosse lo stesso che il mancar di poesia (Zib. 222)
(8/3/21) .[10]
6) La conclusione: il vero è oggetto della poesia
In
conclusione:
La
poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo,
come la vera e semplice… poesia immaginativa fu unicamente ed esclusivamente
propria de’ secoli omerici, o simili a quelli in altre nazioni. Dal che si può ben concludere che la poesia non
è quasi propria de’ nostri tempi… Giacché il sentimentale è fondato e sgorga
dalla filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione dell’uomo e delle cose, in
somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l’essere
ispirata dal falso… (per cui) appena si può dire che la sentimentale
sia poesia, ma piuttosto una filosofia, un‘eloquenza, se non quanto è più
splendida, più ornata della filosofia ed eloquenza della prosa. Può anche esser
più sublime e più bella, ma non per altro mezzo che d’illusioni, alle quali non
è dubbio che anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere, e
più di quello che facciano gli stranieri. (Zib. 222) (8/3/21)
Sulla
questione delle "illusioni", che sono pur sempre una componente
fondamentale della poesia, bisognerà tornare. Per intanto notiamo tre cose: 1) che
la poesia sentimentale viene indicata come l’unica poesia possibile per i
moderni; 2) che la poesia attuale (sentimentale) non può non basarsi sul vero,
e con questo è stato accolto un punto fondamentale del programma dei romantici
italiani (si pensi a Manzoni: la letteratura ha per oggetto il vero). Ma mentre
i romantici pensano al vero "storico", o al vero della cronaca
contemporanea, Leopardi pensa a un vero filosofico, al vero della condizione
umana: quel vero che la ragione scopre e che il poeta non può più dimenticare
(e che quindi diventa l’oggetto della poesia leopardiana: e lo diventa in maniera
sempre più chiara e vistosa, con la poesia filosofica degli ultimi anni, quella
che Binni chiama la "poesia eroica"); 3) che, cionondimeno, questa,
pur essendo l’unica poesia che possiamo fare, non è propriamente poesia, è una
sottospecie di poesia (una filosofia, un’eloquenza), perché l’essenza della
poesia consiste pur sempre nell’essere fondata sull’immaginazione e nell’essere
ispirata dal falso.
7) La
poesia sentimentale come poesia lirica
Ma
a questo punto bisognerà chiarire meglio che cosa si intenda per “poesia
sentimentale”, soprattutto in quale accezione la intenda Leopardi. Il
sentimento di cui si parla non è quello indicato nel Discorso come proprio degli antichi (Omero e Virgilio), commossi
davanti alla natura, un sentimento immediato e irriflesso. E’ piuttosto un
sentimento generato dalla consapevolezza propria dell’uomo moderno, dunque un
sentimento alla maniera in cui ne parlava Schiller, nella sua celebre opera Sulla poesia ingenua e sentimentale (che
Leopardi non conosce: l’opera è del 1795-96, una traduzione in italiano sarà
del 1867 e Leopardi non conosceva il tedesco). E’ un sentimento connesso col
pensiero che riflette, non è espressione immediata dell’impressione che la
natura fa sul poeta, ma è il frutto di una riflessione su quell’impressione.[11] Per
questa strada Leopardi arriva a una doppia conclusione: da una parte scopre che
il poeta non è imitatore della natura, ma imitatore di se stesso e, in quanto
tale, piuttosto creatore che imitatore; dall’altra arriva ad affermare che –
siccome il poeta non può che esprimere il proprio sentimento soggettivo – la
poesia è essenzialmente lirica. Siamo a quel pensiero (da cui sono partito)
citato da Anceschi in Che cosa è la
poesia:
L'imitazione tien sempre molto del
servile. Falsissima idea considerare e definir la poesia per arte imitativa,
metterla colla pittura ec. Il poeta immagina: l'immaginazione vede il mondo
come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita, non
imita (dico) di proposito suo: creatore, inventore, non imitatore; ecco il
carattere essenziale del poeta. (Zib.
1175) (29/8/1828)
Il poeta non imita la natura: ben è
vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I' mi son un che
quando Natura parla, ec. vera definizione del poeta. Così il poeta non è
*imitatore* se non di se stesso.
Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente
non è più poesia, facoltà divina; quella è un'arte umana; è prosa, malgrado il
verso e il linguaggio. (Zib. 1180) (10/9/28)
Questa idea, secondo cui se il poeta esce da
se stesso non è più veramente poeta, diventa un’idea centrale nel pensiero di
Leopardi. Per questo aspetto persiste la polemica con i romantici, che
prediligono generi letterari come il dramma e il romanzo: per Leopardi la lirica
è la sola vera poesia perché in essa il poeta esprime solo e pienamente il
proprio sentimento.
Da
queste osservazioni risulterebbe che dei 3 generi principali di poesia, il solo
che veramente resti ai moderni, fosse il lirico; (e forse il fatto e l'esperienza
de' poeti moderni lo proverebbe); genere, siccome primo di tempo, così eterno
ed universale, cioè proprio dell'uomo perpetuamente in ogni tempo ed in ogni
luogo, come la poesia; la quale consistè da principio in questo genere solo, e
la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde
con lei, ed è il più veramente
poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son
liriche. (Zib. 1218) (29/3/1829.).
la
lirica, contrapposta all’epica e alla drammatica (ma anche al romanzo), ove il
poeta, creando le varie passioni dei vari personaggi, deve fingere sentimenti
non suoi:
il poeta è spinto a poetare
dall’intimo sentimento suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una
passione, un carattere ch’ei non ha (cosa necessaria al drammatico) è cosa
alienissima dal poeta… Il
sentimento che l’anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del vero
poeta… Quanto più un uomo è di genio,
quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi da esporre, tanto più
sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui,
d’imitare, tanto più dipingerà se stesso… L’estro del drammatico è finto,
perch’ei dee fingere: un che si sente mosso a poetare, non si sente mosso che
dal bisogno d’esprimere de’ sentimenti ch’egli prova veramente (Zib. 1175) (29/8/1828)
8) Il diletto ai tempi della poesia sentimentale
Ma
se il sentimento dominante dei tempi moderni è proprio quello che deriva dalla
consapevolezza della perdita dell’armonia, del deserto delle illusioni prodotto
dalla ragione, della nullità di tutte le cose, che ha che fare allora questo
sentimento con il diletto, che resta pur sempre il vero ed unico fine della
poesia? Su questo Leopardi non si ricrede: come procurerà la poesia il diletto,
se non può più procurarlo con le favole create dall’immaginazione? Una prima
risposta a questa domanda possiamo trovarla in un celebre pensiero del
4/10/1820:
Hanno
questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la
nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire
l'inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili
disperazioni, tuttavia ad un'anima grande che si trovi anche in uno stato di
estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita…
servono sempre di consolazione, raccendono l'entusiasmo, e non trattando nè
rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella
vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose,
accora e uccide l'anima, veduto nell'imitazione o in qualunque altro modo nelle
opere di genio (come p.e. nella
lirica che non è propriamente imitazione), apre il cuore e ravviva… E
lo stesso conoscere l'irreparabile vanità e falsità di ogni bello e di ogni
grande è una certa bellezza e grandezza che riempie l'anima, quando questa
conoscenza si trova nelle opere di genio. E lo stesso spettacolo della nullità,
è una cosa in queste opere, che par che ingrandisca l'anima del lettore, la
innalzi, e la soddisfaccia di se stessa e della propria disperazione. (Gran
cosa, e certa madre di piacere e di entusiasmo, e magistrale effetto della
poesia…) (Zib. 110) (4/10/20)
Ma
la risposta più significativa ed originale sta nelle riflessioni, sparse nello Zibaldone:
a cominciare da quella, che abbiamo già letto, in cui si dice che anche nella
poesia sentimentale molto si può concedere alle illusioni; e poi in quelle,
molteplici, sul piacere dell’indefinito e della rimembranza.
9) Dalla teoria del piacere al piacere dell’indefinito
Si
tratta di riflessioni per lo più riconducibili agli anni 1820-21, ma poi più
volte riprese successivamente (in particolare, sulla rimembranza, negli anni
1827-28, gli anni dei canti pisano-recanatesi). E dunque: il diletto cui si
affida la poesia, nel tempo in cui la conoscenza del vero rende impossibile il
piacere delle favole, è il diletto suscitato da parole, immagini e suoni vaghi
e indefiniti. E’ un pensiero che discende da quella teoria del piacere che
Leopardi veniva elaborando e il cui nucleo centrale appartiene al luglio del
1820 (ed è, per inciso, il vero nucleo fondante del pessimismo leopardiano, a
testimonianza della stretta correlazione esistente fra visione complessiva e
riflessione specifica sulla poesia): il desiderio di piacere, connaturato
all’esistenza individuale (per inciso: di ogni essere vivente), è senza limiti
di durata e di estensione, e come tale (per quanto possa essere,
occasionalmente, "ingannato", "mitigato",
"addormentato") non può essere mai soddisfatto; l’immaginazione
supplisce a questa impossibilità di soddisfazione, in quanto capace di
concepire ciò che non è limitato e circoscritto (ciò che quindi è adeguato alla
infinitezza del piacere desiderato); e dunque la poesia piace, comunica
piacere, proprio perché offre alla immaginazione del lettore uno spazio
infinito in cui vagare (12-23 luglio 1820):
il
desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione… la pena
dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua
estensione… Quindi è manifesto: 1. Perché tutti i beni paiano bellissimi e
sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto… 2. Perché l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello
aereo, le idee infinite. Stante la considerazione qui sopra detta, l’anima deve
preferire naturalmente agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare
(Zib. 81) (luglio 1820)
…fra tutte le letture, quella che lascia
l’animo meno desideroso del piacere è la lettura della vera poesia. La quale
destando emozioni vivissime, e riempiendo l’animo d’idee vaghe e indefinite e
vastissime e sublimissime e mal chiare ec., lo riempie quanto più si possa a
questo mondo (Zib. 444) (27/8/21)
10.1) La poetica dell’indefinito: le parole
Ecco
quindi le riflessioni famose sulla lingua della poesia, sulle
"parole" che non sono "termini" (30-4-1820):
Le
parole come osserva il Beccaria (trattato dello stile) non presentano la sola
idea dell'oggetto significato, ma quando più quando meno immagini accessorie.
Ed è pregio sommo della lingua l'aver di queste parole. Le voci scientifiche
presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si
chiamano termini perché determinano e definiscono la cosa da tutte le parti.
Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla letteratura
e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più abbonda di termini… Il
pericolo grande che corre ora la lingua francese è di diventar lingua al tutto
matematica e scientifica, per troppa abbondanza di termini in ogni sorta di
cose, e dimenticanza delle antiche parole. (Zib. 60) (30/4/20)
sulle
parole come "notte", "notturno", "oscurità",
"profondo", che sono poeticissime in quanto offrono all’animo
"un’immagine vaga, indistinta, incompleta" (28-9-21), o come
"lontano" e "antico" che "destano idee vaste e
indefinite e non determinabili e confuse" (25-9-21); su quelle "che
indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità,
ec.", come "tanto", "ultimo", "mai più", che
"sono di grand’effetto poetico per l’infinità" (3-10-21);
10.2) La poetica dell’indefinito: le immagini e i
suoni
ma
anche quelle sulle immagini, che sono piacevoli quando evocano sensazioni di
infinito, perché la vista non arriva ad abbracciarle:
una
campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non
arrivi alla valle; e quella di un filare d’alberi, il cui fine si perda di
vista, o per la lunghezza del filare, o perch’esso pure sia posto in declivio
(Zib. 411) (1-8-21)
o
perché sono di ostacolo allo spaziare della vista. e quindi sollecitano
l’immaginazione dell’infinito (esemplarmente, la siepe de L’Infinito):
Una
fabbrica, una torre ec. veduta in modo ch’ella paia inalzarsi sola sopra
l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e
sublimissimo tra il finito e l’indefinito (ivi)
sul
suono, che, analogamente,
è
piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per una idea vaga e
indefinita che desta, una canto (il più spregevole) udito da lungi, o che paia
lontano senza esserlo, o che si vada appoco appoco lontanando… o che sia così
lontano…che l’orecchio quasi lo perda nella vastità degli spazi… un canto udito
in modo che non si veda il luogo da cui parte… Stando in casa, e udendo tali
canti e suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi
effetti, perché né l’udito né gli altri sensi arrivano a determinare né
circoscrivere la sensazione e le sue concomitanze. (Zib. 523) (16-10-21)
Una
voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi appoco appoco, o
echeggiante con un’apparenza di vastità ec. ec. è piacevole per il vago
dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito
in piena campagna, in una gran valle ec., il canto degli agricoltori, degli
uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze (Zib. 1151)
(21-9-27);
10.3) La poetica dell’indefinito: la rimembranza e la
doppia visione
e
infine quelle sulla rimembranza, che è poetica perché ci allontana dal presente
e ci rimanda alle lontananze della fanciullezza, e quindi ci comunica quella
sensazione di indefinito collegata alla lontananza nel tempo:
la
sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine
degli oggetti, ma della immagine fanciullesca, una ricordanza, una ripetizione,
una ripercussione o riflesso dell’immagine antica... in maniera che se non
fossimo stati fanciulli, saremmo privi della massima parte di quelle poche
sensazioni indefinite che ci restano (Zib. 175) (16-1-21)
Un
oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che
sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La
medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in sé, sarà
poeticissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel
sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia,
non può esser poetico; e il poetico, in uno o in un altro modo, si trova
consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. (Zib. 1199) (14-12-28)
riflessioni
associabili a quelle sulla "doppia visione" propria del poeta:
forse
la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure
dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza
della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono
come un influsso e una conseguenza di lei… vale a dire, proviamo quella tal
sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla
fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la
provammo in quelle stesse circostanze. (Zib. 175) (16-1-21)
All'uomo
sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di
continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli
vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una
campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra
campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto
il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita
comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici,
quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la
sensazione. (Zib. 1196) (30/11/28)[12]
[1] A
questo riguardo basterà pensare, come esempio, alla differenza fra Ariosto e
Tasso: mentre del primo non abbiamo dichiarazioni esplicite di poetica (e però
possiamo facilmente dedurla dal Furioso),
il secondo ha accompagnato la stesura della Liberata
con una continua e faticosa elaborazione teorica su natura, struttura e
finalità del poema epico.
[2] Che
le idee dell’avversario (Di Breme) lo avessero profondamente colpito, si deduce
chiaramente da un contemporaneo commento nello Zibaldone: “Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore n. 91 le Osservazioni di Ludovico Di Breme sopra la poesia moderna, o
romantica che la vogliamo chiamare, e perché ci ho veduto una serie di
ragionamenti che può imbrogliare e inquietare, e io per mia natura non sono
lontano dal dubbio anche sopra le cose credute indubitabili, però avendo nella
mente le risposte che a quei ragionamenti si possono e si debbono fare, per mia
quiete le scrivo”
[3] Si
trattava precisamente di una recensione in due puntate alla traduzione italiana
del Giaurro di Byron. Di Breme
polemizzava proprio con l’idea di poesia come imitazione della natura; il poeta
interpreta la natura (e una cosa è interpretarla come facevano gli antichi,
altra cosa interpretarla alla luce dell’ampliamento delle cognizioni proprio
dei moderni), anzi, gareggia con la natura nella stessa creazione. Dunque la
poesia moderna non può prescindere dal carattere riflessivo, raziocinante, del
proprio tempo, e trovare fondamento, più che sull’immaginazione, sulla forza
del sentimento.
[4] Sarà
utile a questo punto una breve digressione, e necessariamente schematica, sul
dibattito fra classici e romantici. Le idee romantiche erano arrivate in Italia
piuttosto in ritardo, rispetto alle elaborazioni teoriche di tedeschi ed
inglesi che risalgono agli ultimi anni del ‘700. Solo nel gennaio del 1816 la
pubblicazione sulla Biblioteca Italiana
dell’articolo di Madame de Stael “Sulla
maniera e sull’utilità delle traduzioni” aveva smosso le acque. La de Stael
in quell’ articolo sosteneva la necessità che gli italiani, invece di rimanere
fossilizzati nella propria tradizione letteraria, leggessero i moderni autori
stranieri (in specie, tedeschi), portatori di nuove forme e nuova sensibilità
poetica. In parole povere, la de Stael diceva agli italiani: c’è una poesia
moderna, aggiornatevi, siete vecchi, siete fuori dalla storia, mettetevi al
passo col nuovo che avanza. Ne seguì un intenso dibattito polemico: da una
parte coloro che condividevano l’esortazione della de Stael (i romantici: Di
Breme, appunto, Borsieri, Berchet, Pellico, ecc.), dall’altra coloro che
intendevano difendere la validità della tradizione letteraria italiana, fondata
sui modelli della classicità (i classicisti: Monti, Giordani).
[5] Va
ricordato che due anni prima, nel luglio del 1816, Leopardi aveva mandato alla Biblioteca Italiana una lettera di
risposta all’articolo della de Stael (lettera mai pubblicata). In essa è
evidente l’ironia (anzi, il sarcasmo) nei confronti della presunzione che la
lettura degli stranieri possa dare nuovo vigore alla poesia italiana (“Apriamo
tutti i canali della letteratura straniera, facciamo sgorgare ne’ nostri campi
le acque del settentrione, Italia in un baleno ne sarà dilagata, tutti i
poetuzzi italiani correranno in frotta a berne, e a diguazzarvi, e se
n’empieranno sino alla gola…”; quindi aggiungeva: “Leggiamo e consideriamo e
ruminiamo lungamente e maturamente gli scritti dei Greci maestri e dei Latini
e degli Italiani che han bellezze da
bastare ad alimentarci per lo spazio di tre vite se ne avessimo.”; e infine:
“ringrazio il cielo di cuore per avermi fatto Italiano…, e ciò non per il
potere d’Italia che niuno ne ha, né per il suo bel clima di cui poco mi cale,
né per le sue belle città di cui mi cale ancor meno, ma per lo ingegno degli
Italiani, e per la maniera della italiana letteratura che è di tutte le
letterature del mondo la più affine alla greca e alla latina, cioè a dire… alla
sola vera, perchè la sola naturale, e in tutto vota d’affettazione”)
[6] Andrà
notato che l’idea leopardiana delle società antiche è l’idea settecentesca
(riconducibile a Rousseau, a Herder, ecc.) di società primitive, ingenue,
“fanciulle” appunto, sostanzialmente felici nella loro innocenza, non corrotte
dall’incivilimento. Ma si tratta di una idealizzazione dell’antico
(storicamente infondata), smascherata già da Nietzsche con la scoperta del
dionisiaco come componente fondamentale dell’anima, e della cultura, greca.
[7] A
questa considerazione Leopardi fa seguire, come esempio, un appassionato
ricordo della propria fanciullezza e si dilunga a raccontare di come la sua
fantasia animasse gli elementi della natura (astri, piante, animali), li
personificasse, derivandone sentimenti di commozione, di piacere, di paura.
[8] Sì
come quando graziosi in cielo / rifulgon gli astri intorno della luna, / e
l’aere è senza vento, e si discopre / ogni cima de’ monti ed ogni selva / ed
ogni torre; allor che su nell’alto / tutto quanto l’immenso etra si schiude, /
e vedesi ogni stella, e ne gioisce / il pastor dentro all’alma.
Luna negat, splendet tremulo sub
lumine pontus.
Proxima Circaeae raduntur litora terrae,
Dives inaccessos ubi Solis filia
lucos
Adsiduo resonat cantu, tectisque
superbis
Urit odoratam nocturna in lumina
cedrum,
Arguto tenues percurrens pectine
telas.
Hinc exaudiri gemitus iraeque
leonum
Vincla recusantum et sera sub
nocte rudentum.
[10] Il
riferimento al patriottismo si presta a qualche considerazione
sull’atteggiamento di Leopardi in anni fervidi di quegli ideali che poi
porteranno alle guerre d’indipendenza e all’unità nazionale. Persiste nella
mente di molti quel giudizio espresso da De Sanctis nel famoso saggio in cui
confrontava Leopardi con Schopenhauer: diceva De Sanctis che se Leopardi fosse
vissuto fino al 1848 (a differenza di Schopenhauer, collocato su posizioni
reazionarie), sarebbe stato sulle barricate “al nostro fianco”. A me pare
invece oltremodo discutibile questo giudizio: quella patriottica non è certo la
corda che vibra nella poesia di Leopardi, e le canzoni civili degli anni
1818-20 mi sembrano piuttosto il frutto di suggestioni letterarie (di tipo
alfieriano e foscoliano) che di autentica passione politica. Ricordiamo anche
che nel 1831, in occasione dei moti liberali che investirono l’Italia centrale,
Leopardi rifiutò l’incarico, offertogli dal governo provvisorio di Recanati, di
rappresentante presso l’assemblea costituente di Bologna. Del resto lo sviluppo stesso del suo
pensiero, come lo porta in rotta con il gruppo dei cattolici-liberali
fiorentini, lo porta anche a diffidare di qualsiasi progressismo, anche di tipo
patriottico. Ne sono testimonianza testi come la Palinodia al marchese Gino Capponi, la satira I nuovi credenti (i nuovi credenti sono proprio i liberali) e il
poemetto Paralipomeni della
Batracomiomachia (dove l’ironia si rivolge non solo ai granchi e alle rane,
che rappresentano gli austriaci e i reazionari, ma anche ai topi, che
rappresentano i liberali). Il fatto è che Leopardi aveva la vista lunga, vedeva
più a fondo e più lontano dei suoi contemporanei, vedeva le guerre
catastrofiche che avrebbero coinvolto i paesi dell’una e l’altra sponda
dell’Atlantico, dunque era difficile che si entusiasmasse per gli ideali
dell’unità nazionale. E infine: era difficile che si entusiasmasse per le
guerre d’indipendenza chi credeva, come Leopardi, che l’unica guerra sensata
fosse quella di tutti gli uomini confederati contro il comune nemico, la
natura, e non quella di uomini contro altri uomini.
[11]
“Quelli (gli antichi) ci commuovono per mezzo di natura, di verità sensibile,
di presente vivo; questi (i moderni) ci commuovono per mezzo di idee (…) Questi
(il poeta sentimentale) riflette sull’impressione che gli oggetti fanno su di
lui e solo su quella riflessione è fondata la commozione, da cui è preso egli
stesso e che dà a noi” (Schiller, Della
poesia ingenua e sentimentale, in Saggi
estetici, UTET, Torino 1951, pp. 396-400).
[12]
Questo pensiero mi ha sempre fatto venire in mente la “memoria involontaria” di
Proust, in particolare il famoso episodio della madeleine narrato nel primo
volume (Du côté de Chez Swann) della Recherche. Quella doppia visione che
Leopardi dice propria dell’uomo sensibile e immaginoso mi ricorda quelle
sensazioni che Proust prova – e che cerca con fatica di afferrare e definire –
quando inzuppa la madeleine nella tazza di tè, sensazioni di una esperienza già
vissuta in un altro tempo, il tempo dell’infanzia (sapori e odori già sentiti,
visioni già viste), sensazioni che lo fanno riandare al “tempo perduto”.
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