Dal latino al volgare
1) Prima della occupazione romana - e
della conseguente imposizione della lingua latina - esistono delle popolazioni
(mediterranee, ovvero non indo-europee: Liguri, Etruschi,
Piceni, Sardi; indo-europee: Latini, Veneti,
Iapigi, Sanniti, Umbri e Celti, i quali ultimi si
insinuavano nella val Padana fino all’Adriatico all’altezza di Rimini) la cui
lingua influirà sul latino, sia come trasferimento di parole sia come
persistenza di pronunce caratteristiche (ad esempio: una certa somiglianza fra
l’odierno accento francese e quello dei dialetti emiliano-romagnoli è dovuta
alla comune origine celtica; analogamente, appartiene alle origini pre-latine
la tendenza nell’Italia meridionale ad assimilare i gruppi consonantici nd
e mb in nn e mm: vedi quanno, monno).
Tali lingue fanno da sostrato al latino, che, per esse, è il superstrato
(per il greco, che influenza il latino per vicinanza geografica e superiorità
culturale, si parla di adstrato).
2) Una differenza fra lingua parlata e
lingua scritta esiste sempre, anche in epoca classica: ce lo possono
testimoniare le iscrizioni funerarie private, le scritte sui muri di
Pompei (logus anzichè locus ), gli errori dei
copisti (vissit invece di vixit), alcuni autori latini
(Plauto, che adotta volontariamente le forme del parlato; Petronio,
che intende deridere la volgarità dei nuovi ricchi), l’Appendix Probi
(testo di un grammatico del III-IV sec. d. C., che ci mostra, nel momento in
cui corregge una serie di “errori di ortografia”, evidentemente comuni, il
senso dell’evoluzione linguistica verso l’italiano: calda e virdis,
errori invece di calida e viridis, con caduta della vocale
interconsonantica atona; frigda invece di frigida, poi il nesso gd
si assimilerà in dd ; orum e oricla invece di aurum
e auricla, con la riduzione ad o del dittongo au; ecc.).
Ma quando, con la crisi dell’Impero, verrà meno l’egemonia politica, e quindi
anche culturale e linguistica, di Roma, la distanza fra lingua parlata e lingua
scritta si accentuerà fino ad arrivare ad una incomunicabilità fra i due
livelli.
3) Fondamentale, a determinare tale
fenomeno, è quindi la crisi politica e sociale del III-IV sec. d. C.,
per cui si disgregano i gruppi dirigenti e viene meno la stessa amministrazione
romana dell’Impero (in concreto, vengono meno gli uomini che garantiscono
l’unità linguistica). Inoltre le invasioni barbariche generano una
realtà sociale nuova, estranea alla tradizione culturale che si esprimeva nel
latino scritto. Ma decisivo è il ruolo del cristianesimo, che,
all’interno stesso del latino, introduce parole nuove (di origine ebraica:
sabbatum, pascha; o greca: angelus, diabolus,
paradisus, ecc.) o attribuisce significati nuovi a parole vecchie
(“cattivo”, da “prigioniero” passa a significare “malvagio” attraverso la
mediazione della perifrasi captivus diaboli; virtus, da “valore”,
“coraggio”, passa a significare “virtù” in senso morale; peccare e fides,
dal senso generico di “sbagliare” e “parola data”, si specificano in senso
religioso; tradere assume il significato di “tradire” con riferimento
all’episodio di Giuda che “consegna” Gesù; dal greco parabolè,
latinizzato in parabola, abbiamo “parola” e “parlare”; “domenica” da dominica
dies; paganus, abitante del villaggio, acquisisce il significato
attuale in quanto nelle campagne permanevano residui pre-cristiani; civile
passa a significare “non soldato” in quanto viene usato in contrapposizione a miles
Christi).
4) Questo il quadro delle lingue
romanze: rumeno, italiano, sardo, ladino (nei
Grigioni, Tirolo e Friuli), portoghese, spagnolo (o castigliano),
catalano, francese (o lingua d’oil), provenzale (o lingua
d’oc). Si tratta, ad eccezione della Romania, della parte occidentale dello
Impero, giacché la parte orientale aveva mantenuto lingua e cultura greche.
5) Per quanto riguarda l’italiano, questi
gli elementi fondamentali di trasformazione morfologica e sintattica: il
volgo non distingue più tra brevi e lunghe, per cui da ĭ ed ē si ha é (da pĭra
e tēla, péra e téla); da ĕ sia ha è (bène, mèrito); da
ŭ
ed ō
si ha ó (da crŭce e vōce, cróce e vóce); da ī
si ha i (dico), da ū si ha u (puro); da ae
si ha è (da caelum, cièlo), da oe é
(da poena, péna); cadono le consonanti finali m, s, t ;
nascono gli articoli determinativo (da ille) e indeterminativo (da
unus); l’uso di modi perifrastici per il futuro e per il condizionale (amare
habeo = amar-ò; amare habui = amar-ei); la palatalizzazione di ce,
ci, ge, gi (kervus, ghelidus = cervo, gelido);
l’assimilazione di pt in tt (aptus = atto),
di ps in ss (ipsa = issa), di ct
in tt (octavus = ottavo), di cs in ss
(vixi = vissi); la semplificazione della flessione nominale e verbale
(nella declinazione scompaiono i casi, i costrutti con de e ad
soppiantano il genitivo e il dativo: templum de marmore; nelle
coniugazioni, il deponente sparisce ed il passivo viene sostituito da una
coniugazione analitica con l’ausiliare esse); i comparativi sintetici
sono sostituiti da quelli formati con plus; scompare il neutro, di cui
resta il segno in certi plurali (da labrum, labbra; da digitum,
dita; da cilium, ciglia); la costruzione dichiarativa con quod prende
il sopravvento sui costrutti infinitivi.
6) Per quanto riguarda il lessico,
oltre alla già ricordata ri-significazione cristiana di parole classiche,
termini del parlato prendono il sopravvento su termini dotti: caballus
(arriva dalla penisola balcanica) sostituisce il colto equus (recuperato
poi dall’italiano letterario in aggettivi come “equino”, “equestre”); testa
(in origine, vaso di terracotta) sostituisce caput (e documenta
l’originario uso metaforico-scherzoso); ignis è soppiantato da focus
(focolare di cucina), pulcher da bellus (diminutivo di bonus),
e bellum, che rischia di confondersi, lascia il posto al germanico werra;
per lo stesso motivo, dei due os (bocca e osso), uno lascia il posto a bucca
(in origine “guancia”). Ci sono poi le importazioni germaniche (gotiche:
banda, guardia, albergo; longobarde soprattutto: guancia, schiena,
milza, anca, ecc.), oltre che bizantine e arabe (arancia,
limone, carciofo, zucchero).
7) La differenza fra lingua parlata e
lingua scritta diventa, nel IX sec., incomunicabilità; ce lo attestano due
documenti: un decreto del Concilio di Tours (813) che stabilisce
che, da un lato, nelle comunicazioni ufficiali, si adotti la lingua latina
(evidentemente, il clero e i funzionari di basso grado, non la padroneggiano),
dall’altro, le omelie siano tradotte in “lingua romana rustica” (evidentemente,
i fedeli non capiscono il latino); i Giuramenti di Strasburgo (842),
con cui Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico si promettono
reciproca lealtà; ma siccome giurano di fronte agli eserciti schierati, per
farsi capire, recitano la formula non in latino ma ciascuno nella propria
lingua (rispettivamente, il francese - o lingua d’oil - e il tedesco) e
poi nella lingua dell’altro.
8) Per quanto riguarda l’Italia, il primo
documento di scrittura in volgare è il cosiddetto indovinello veronese,
collocabile fra l’VIII e il IX sec. (Se pareba boves, alba pratalia araba /
albo versorio teneba, negro semen seminaba) ove evidenti volgarismi (se
sta per sibi, versorio è tipico del veronese per indicare aratro)
si intrecciano con permanenze di forme latine (boves, semen). Segue una
formula di testimonianza che si trova in un placito cassinese
del 960 (Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, / trenta anni le
possette parte Sancti Benedicti), evidentemente fatta pronunciare dal
notaio a dei testimoni che non conoscono il latino. Della fine del sec. XI è l’iscrizione
che si trova in un affresco nella cappella sotterranea di San Clemente
a Roma (rappresenta il tentativo di arresto del santo da parte del pagano
Sisinnio; ma, per miracolo, i servi, invece del santo, hanno legato e cercano
di trasportare delle colonne); con tecnica da fumetto sono riportate le parole,
in latino quelle del santo, in volgare quelle del pagano (Fili de pute,
traite! / Gosmari, Albertel, traite! / Falite de retro co lo palo, Carvoncelle!).
Di poco posteriore al 1150 è il pianto cassinese (trovato a
Montecassino), forse frammento di un dramma sulla passione (...te portai
nillu meu ventre. / Quando te beio, ploro presente. / Nillu teu regnu agime a
mente.)
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