La
figura dell’inetto in Svevo
Premessa
1. Chi è l’inetto? Che
cos’è l’inettitudine? L’inettitudine è – lo dice la parola – una mancanza di
attitudine. A che? Alla vita. Dunque si tratta di un disadattamento, o meglio,
di una inadeguatezza rispetto alla vita, di una incapacità di vivere. Del resto
l’etimologia di “inetto” è in-aptus,
cioè “non adatto”: l’inetto è un non-adatto alla vita, dunque un perdente,
uno sconfitto.
2. E’ una figura, quella
dell’inetto, che ricorre nella letteratura europea a cavallo fra la fine
dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento (e sarebbe anche interessante
capire perché proprio in questa età emerge, nel romanzo, questo tipo umano). E’
una figura che compare con modalità diverse nei diversi autori, ma sempre con
la caratteristica di rappresentare un uomo che non riesce a – o non vuole –
realizzare se stesso, un uomo che fallisce nei suoi progetti o anche che
rinuncia ad ogni progetto. Dunque si
tratta di una sorta di anti-eroe, o eroe negativo.
3. Io mi sono
appassionato a questa tematica leggendo i romanzi di Svevo; del resto, se si
guarda alla letteratura italiana del periodo, è proprio Svevo l’autore che per antonomasia ci rimanda alla figura
dell’inetto (si pensi che Svevo aveva intitolato proprio Un inetto il suo primo romanzo; ma quel
titolo non piaceva all’editore, che lo convinse a cambiarlo in Una vita).
4. Mi è parso poi di
rintracciare un filo che parte da
Leopardi, passa per Svevo e arriva fino a Montale. Parte da Leopardi perché
in certe sue riflessioni si può riconoscere una sorta di diagnosi ante litteram
dell’inettitudine (dell’inettitudine nella forma caratteristica che essa assume
in Svevo); arriva a Montale, perché tale autore – non a caso tra i primi a
leggere e valorizzare i romanzi di Svevo – sembra esprimere nella sua poesia
una condizione umana molto simile a quella dell’inetto sveviano.
Precedenti europei
5. Dicevo che quella
dell’inetto è una figura che ricorre nella letteratura europea dell’epoca; ad
esempio in autori russi, particolarmente amati da Svevo (si pensi all’ “uomo
superfluo” di Turghenev, ad Oblomov di Goncarov o all’ “idiota” di Dostoevskij). Ma se c’è un autore
che più di altri, a fine Ottocento, ha comunicato questa idea della
inettitudine come condizione esistenziale, questi è lo scrittore ginevrino Henri Frederic Amiel, autore di un
poderoso, quasi maniacale, diario (Frammenti
di un giornale intimo, di oltre 17000 pagine, pubblicato postumo nel 1884)
in cui si descrive come un inetto, reso incapace di vivere da un eccesso di
autoanalisi. Di Amiel si è detto che sembra uscito da un romanzo di Svevo. Ed
Amiel è un autore letto e particolarmente amato da Montale. Ecco qualcuna delle
sue riflessioni:
Io sono essenzialmente oggettivo e la
specialità che mi distingue è quella di potermi porre da tutti i punti di
vista, di vedere con tutti gli occhi… Di
qui l’attitudine alla teoria e l’irresolutezza nella pratica; di qui il
talento critico e la difficoltà nella produzione spontanea; di qui anche la
lunga incertezza delle convinzioni e
delle opinioni. (18/11/51)
L’uomo volgare non dubita di nulla e non sospetta nulla. Il filosofo è più
circospetto. Inoltre è inadatto all’azione perché, pur vedendo la meta meglio
degli altri, misura troppo bene la
propria debolezza e non si illude sulle sue probabilità. (30/8/72)
Ho scoperto per tempo che era più facile
rinunciare a un progetto che realizzarlo… e non potendo ottenere tutto ciò che
sarebbe stato nel voto della mia natura, vi ho rinunciato in blocco… Ho anticipato in spirito tutti i disinganni.
(18/8/73)[1][1]
Ho il terrore dell’azione e mi sento a
mio agio solo nella vita impersonale, disinteressata, oggettiva del pensiero. Perché ciò? Per
timidezza… Da dove deriva questa timidezza? Dallo sviluppo eccessivo della riflessione, che ha ridotto quasi a niente la
spontaneità, lo slancio, l’istinto e con ciò stesso l’audacia e la fiducia.
Quando bisogna agire io vedo dappertutto
solo cause di errore e di pentimento, minacce nascoste e dispiaceri mancati.
6. Sottolineo questa associazione fra inettitudine, incapacità
di agire e eccesso di riflessione, di analisi e auto-analisi, perché questo
è un tratto distintivo dei personaggi sveviani. A questa tipologia umana, con
le differenze che riscontreremo, sono riconducibili i protagonisti dei romanzi,
ed anche delle novelle, di Svevo.
La novità di Svevo: narrativa e tematica
7. Svevo è uno scrittore
straordinario, sia perché adotta una
tecnica narrativa innovativa (il che è evidente particolarmente nel terzo
romanzo), sia per questa tematica
incentrata sulla condizione umana dell’inetto a vivere, da lui trattata in
maniera costante, tanto che si è detto che nell’opera di Svevo protagonista è
sempre lo stesso personaggio: è un inetto Alfonso
Nitti (Una vita), è un inetto Emilio Brentani (Senilità) ed è un inetto Zeno
Cosini (anche se, a differenza dei primi due, vorrà convincere il lettore
di essere un vincente).
8. Non solo: anche nei suoi racconti si ritrovano
esemplari figure di inetti: lo è Arturo
Marchetti (nel racconto Una lotta
è un poeta di provincia, inevitabilmente sconfitto in amore da un rivale bello
e sportivo), lo è Mario Samigli (un
altro letterato, nel racconto Una burla
riuscita, vittima di una burla da parte dei colleghi di lavoro), lo è Giorgio, il protagonista de L’assassinio di via Belpoggio (compie un
delitto, ma alla fine si autodenuncia, non per uno scrupolo morale, ma perché
lo tormenta il pensiero di essere scoperto). Si noti come spesso la condizione dell’inetto sia associata a quella di letterato:
tali sono infatti anche il protagonista di Una
vita (Alfonso Nitti) e il protagonista di Senilità (Emilio Brentani).
L’inettitudine in Svevo
9. Potremmo dire che
l’inettitudine in Svevo si caratterizza per due aspetti fondamentali: 1) l’irresolutezza nell’agire, ovvero
l’incapacità di decidere, di far valere la propria volontà; 2) la mancanza di
disinvoltura, ovvero la goffaggine, l’impaccio nei rapporti interpersonali.
Alla radice di questa condizione c’è quella che è stata chiamata una “ipertrofia della coscienza”, un eccesso di
riflessione, di analisi e auto-analisi, un guardarsi vivere che impedisce il
fluire semplice e istintivo del vivere (proprio come diceva Amiel: “lo sviluppo eccessivo
della riflessione ha ridotto quasi a niente la spontaneità, lo slancio,
l’istinto”).
10. C’è un episodio ne La coscienza di Zeno che dimostra con
tutta evidenza come il guardarsi vivere,
il riflettere sul vivere, blocchi, inibisca l’immediatezza e la naturalezza del
vivere. Zeno ha incontrato in un caffè un vecchio amico che gli spiega che quando si cammina si mettono in moto ben 54
muscoli. Dopo di che Zeno non riesce più a camminare con naturalezza,
comincia a zoppicare (lo farà per giorni e giorni) perché pensa ai 54 muscoli
che devono entrare in azione.
11. Dunque l’inettitudine,
che si manifesta sia nella vita lavorativa
sia nella vita sociale, in particolare nel rapporto con le donne. Per
quanto riguarda il primo aspetto (inettitudine come incapacità di decidere, di
far valere la propria volontà), si pensi alla vicenda che ha come protagonista
Emilio Brentani, in Senilità. E’ un
romanzo bellissimo, forse il più bello di Svevo. Emilio “aggancia” una ragazza, Angiolina, e si illude
di vivere con lei una facile avventura amorosa, che potrà troncare quando
vorrà, come capita a tanti uomini, ad esempio al suo amico Stefano Balli,
scultore, di modesto successo artistico, ma vitale, di forte personalità,
brillante e simpatico nei rapporti umani, in particolare con le donne, che lui
conquista con facilità.
12. In verità Angiolina è
una ragazza “leggera”, di facili costumi, frequenta altri uomini. Ma proprio
per la sua esuberanza e vitalità, Emilio, che si illudeva di dominare nel
rapporto, se ne innamora, quindi da dominatore
diventa dominato, soffre perché intuisce i tradimenti della donna, vuole
chiudere la relazione con lei ma non ne è capace. Si ripromette di liquidarla
una volta per tutte, studia con cura le parole che le dirà nell’ultimo
incontro, parole sprezzanti, ma da persona superiore, sono quelle che io chiamo
le “anticipazioni mentali”: l’inetto
prepara le parole che dovrà dire, immagina le obiezioni, le risposte, le
alternative, ma è un progetto che fallisce sempre, l’inetto non riesce ad imporre la propria volontà. C’è un
bell’episodio in Senilità, ed è
quando il Balli, una sera, avverte l’amico Emilio di avere appena visto
Angiolina in affettuosa compagnia di un uomo (l’ombrellaio, un negoziante che
vende ombrelli). Emilio finge indifferenza, dice che ci penserà nei giorni
successivi, per ora ha troppo sonno e intende andare a dormire:
Si diresse verso casa per andare a coricarsi.
Ma, giunto al Chiozza, si fermò a guardare verso la
stazione, la parte della città ove Angiolina faceva all'amore con l'ombrellaio.
- Eppure - pensò e pensò l'idea e le
parole - sarebbe bello ch'ella passasse per di qua ed io potessi subito dirle
che fra di noi tutto è finito. Allora sì che tutto sarebbe finito ed io potrei
andare a dormire veramente calmo. Per di qua deve passare! S'appoggiò ad un
paracarro e quanto più attendeva, tanto più forte si faceva la sua speranza di
vederla quella stessa notte.
Per essere pronto pensò
anche le parole che le avrebbe dirette. Dolci. Perché no? - Addio
Angiolina. Io volevo salvarti e tu mi hai deriso. - Deriso da lei, deriso dal
Balli! Una rabbia impotente gli gonfiò il petto. Finalmente egli si destava e
tutta la rabbia e la commozione non lo addoloravano tanto come l'indifferenza
di poco prima, una prigionia del proprio essere impostagli dal Balli (prima, appunto, ha finto indifferenza, per
mostrare a Balli la propria superiorità; ma quella indifferenza l’aveva fatto
soffrire). Dolci parole ad
Angiolina? Ma no! Poche e durissime e fredde. - Io sapevo già ch'eri fatta
così. Non mi sorprese affatto. Domandalo al Balli. Addio. (…)
Pensò che con Angiolina egli avrebbe dovuto seguire lo
stesso sistema adottato col Balli. Quei due suoi nemici dovevano essere
trattati nello stesso modo (sente come
nemico anche il Balli, che pure è il suo amico da sempre; ma da sempre da una
parte ne disprezza la mediocre intelligenza, dall’altra ne invidia la facilità
del vivere). A lei egli avrebbe
detto che non l'abbandonava causa il tradimento ch'egli s'era atteso, ma
per il sozzo individuo ch'ella aveva scelto a suo rivale. Egli non voleva più
baciare dove aveva baciato l'ombrellaio. Finché s'era trattato del Balli, del
Leardi e magari del Sorniani, aveva chiuso un occhio, ma l'ombrellaio!
Nell'oscurità studiò la smorfia di
schifo con cui avrebbe detta questa parola.
Qualunque parola egli immaginasse di dirigerle, sempre
veniva colto da un convulso riso. Avrebbe continuato a parlarle così tutta la
notte? Era dunque necessario di parlarle subito. Ricordò ch'era probabile che
Angiolina rincasasse dalla parte di via Romagna. Col suo passo rapido egli
avrebbe ancora potuto raggiungerla. Non aveva finito di pensare tutto questo e,
già lieto di poter prendere una decisione che tagliasse il dubbio che gli
annebbiava la mente, si mise a correre. Il movimento dapprima gli diede un po'
di sollievo. Poi rallentò il passo reso esitante da una nuova idea. Se essi
rincasavano da quella parte, non sarebbe stato più sicuro, per ritrovarli, di
salire alla via Fabio Severo dalla parte del Giardino Pubblico e discenderne
andando loro incontro per via di Romagna? La corsa non gli faceva paura e
avrebbe impreso quel giro enorme; ma in quella gli parve di veder passare
dinanzi al caffè Fabris Angiolina accompagnata da Giulia e da un uomo che
doveva essere l'ombrellaio. A tanta distanza riconobbe la fanciulla saltellante
graziosamente come quando voleva piacere a lui. Cessò di correre perché aveva tutto
il tempo per raggiungerli. Poté anche
pensare senza esasperarsi le parole che le avrebbe dirette subito. Perché
circondare quell'avventura di tanti particolari e pensieri strani? Era
un'avventura solita, e di là a pochi minuti sarebbe stata liquidata nel modo
più semplice (mente a se stesso: per lui
non è certo un’avventura solita, e sta dimostrando con la miriade di pensieri
che gli frullano per la testa che non è per niente semplice liquidarla). (…)
Quantunque ora si trovassero a pochi passi da lui, nell'oscurità
egli continuò a credere che quelle tre persone fossero quelle che egli cercava.
Perciò ebbe un momento di calma. Era tanto facile di calmarsi quando poteva
procedere subito ad un'azione! Quel gruppo ricordava quell'altro di cui il
Balli gli aveva fatta la descrizione. In mezzo a due donne camminava un uomo
grosso e tarchiato che dava il braccio a quella ch'egli aveva creduta
Angiolina, e che ora però non aveva niente di caratteristico nel suo modo di
muoversi. La guardò in faccia con lo
sguardo calmo e ironico preparato con tanta fatica (ha preparato anche lo sguardo!). Ebbe una grande sorpresa vedendo
una faccia ignota, di vecchia, asciutta asciutta.
Una delusione dolorosa. Nel desiderio di non lasciare
così quel gruppo cui l'aveva attaccato tanta speranza, ebbe l'idea di chiedere
a quella gente se forse non avessero visto Angiolina, e pensava già il modo con
cui l'avrebbe descritta. Si vergognò! Una sola parola che avesse detta, e tutti
avrebbero indovinato tutto. Continuò a camminare con passo celere che presto
degenerò in corsa. Vedeva dinanzi a sé un lungo tratto di strada bianca e
ricordò che, quando avrebbe girato, ne avrebbe visto un altro altrettanto lungo
e poi un altro. Interminabile! Ma bisognava uscire dal dubbio e per il momento
il dubbio era se Angiolina si trovasse su quella strada o altrove.
Un'altra volta pensò le frasi ch'egli le avrebbe dirette quella notte stessa o la mattina appresso. Dignitosamente (quanto più
aumentava la sua agitazione, tanto più calmo egli si sognava) dignitosamente le avrebbe detto che per liberarsi di lui
le sarebbe bastato di dirgli una parola, una sola parola. Non sarebbe
occorso deriderlo. - Io mi sarei ritirato subito. Non mi occorreva di esser
cacciato dal mio posto da un ombrellaio. - Ripeté più volte questa frase,
modificandone qualche parola e cercando di perfezionare anche il suono della
voce che diveniva sempre più ironico e tagliente. Cessò quando s'accorse che,
per lo sforzo di trovare l'espressione, urlava.
13. Qualcosa di simile
succede a Zeno, sia quando ripetutamente
immagina il momento e il modo in cui dichiarerà il suo amore ad Ada (la donna
di cui si è innamorato), sia quando si ripromette di chiudere la relazione con
Carla, l’amante. Ma anche il protagonista di Una vita, Alfonso Nitti, anticipa
mentalmente le parole che dirà, l’atteggiamento che terrà nell’ultimo incontro
con Annetta: invano, perché Annetta nemmeno si presenterà all’incontro.
14. Quanto al secondo
aspetto dell’inettitudine (la goffaggine, mancanza di disinvoltura), basterà leggere
le vicende di Zeno in casa Malfenti. In quella casa ci sono quattro fanciulle:
Augusta, la maggiore ed anche la meno bella, Ada, la più bella, Alberta, una
studentessa di 17 anni, e Anna, una bambina. Zeno si innamora di Ada, e il
desiderio di avere Ada diventa sempre più forte man mano che si accorge che la ragazza non ne vuol
sapere di lui (se ne accorge, anche se mette in atto una serie di autoinganni
per nasconderselo, dilaziona continuamente il proposito di dichiararsi, perché
ha paura della verità). Del resto in quel salotto tutti si accorgono della
sua inettitudine, le gaffes sono continue, suscita spesso l’ilarità generale,
si rende ridicolo (anche se solo la piccola Anna ha il coraggio innocente di
dargli ripetutamente del pazzo).
15. Ricordo per tutti un
paio di episodi: quello in cui, nel corso di una seduta spiritica, al buio,
Zeno dichiara il suo amore ad Augusta, credendo che si tratti di Ada. E infine
quello di quando Zeno, prima addolorato perché invitato dalla madre a
frequentare di meno il salotto Malfenti, in quanto sta “compromettendo”
Augusta, poi umiliato da Guido Speier
che in quel salotto miete successi di simpatia, soprattutto in quanto
abilissimo a suonare il violino, ed è chiaramente prediletto da Ada (Guido
è l’amico-rivale, l’“atto a vivere”, che può ricordare Stefano Balli di Senilità e Macario di Una vita) chiederà la mano di Ada;
rifiutato, ci proverà con la diciassettenne Alberta; rifiutato ancora e
terrorizzato dall’idea di non poter più frequentare quel salotto, non potendo
dichiararsi ad Anna, che è una bambina, si butta su Augusta; costei, che pure
sa del suo amore per Ada, accetta e la vicenda si conclude secondo quelli che
erano, sin dall’inizio, i progetti della signora Malfenti (che voleva
“accasare” la figlia bruttina).
Il pensiero di Svevo
16. Ma infine qual è il
pensiero dell’autore, di Svevo, su questo personaggio, l’inetto a vivere, che
gli è così caro? Lo possiamo capire da certi testi estranei all’opera
specificamente letteraria. Svevo ha abbozzato due saggi (L’uomo e la teoria darwiniana e La
corruzione dell’anima) in cui si sostiene che la
superiorità dell’uomo sull’animale è data dal fatto che, mentre quest’ultimo
perde l’anima (e con essa il “malcontento”, ovvero l’insoddisfazione) nel
momento in cui adatta il proprio organismo alle necessità ambientali, l’uomo è
l’essere che conserva l’anima – e l’inquietudine vitale che le è propria –
proprio perché non c’è adattamento che lo soddisfi. L’uomo dunque, pur a
prezzo dell’infelicità (è “torvo e
malcontento”), mantiene integre le potenzialità di sviluppo ed è sempre
disponibile ad affrontare il mutamento ambientale, laddove l’animale vive, sì,
soddisfatto della funzionalità del proprio organismo, ma rimane “identico a se stesso, definitivamente
cristallizzato”, “non accorgendosi di
aver perduto la vera vita” (la “vera” vita: non sfugga il giudizio di
valore).
17. Ne consegue
paradossalmente che, rovesciando
l’assunto darwiniano, il vero vincitore nella lotta per la sopravvivenza è
l’uomo in quanto animale che non si adatta, e cioè l’uomo in quanto inetto
(etimologicamente in-aptus, ovvero
“non-atto”, “che non si adatta”); ma, di più, trasponendo questa verità sul
piano della vita sociale, si ha un corollario altrettanto paradossale, perché
si conclude che l’uomo di successo è il
mediocre che ha perduto l’anima (e con essa la vera vita), assimilando, con istinto quasi animalesco, i valori
dominanti (appunto, adattandovisi), laddove l’inetto, in quanto incapace di far
propri quei valori (in quanto renitente ad adattarvisi), è l’uomo che vive la vera vita, l’uomo in senso pieno, dotato
di anima, dunque eternamente insoddisfatto, straniero in ogni tempo e in ogni
luogo, mai in pace con se stesso e con gli altri. E che questa sia l’ottica
giusta con cui guardare i protagonisti dei suoi romanzi, ce lo conferma lo
stesso autore nella lettera a Valerio
Jahier del 27 dicembre 1927 (Jahier gli aveva scritto dicendo che si
sentiva simile a Zeno e gli chiedeva consigli sulla terapia psicanalitica):
E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere
all’umanità quello ch’essa ha di meglio? Io credo sicuramente
che il vero successo che mi ha dato la pace è consistito in questa convinzione.
Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del superuomo come
ci è stata gabellata (soprattutto a noi italiani) (…)
Il primo che seppe di noi è anteriore al Nietzsche: Schopenhauer, e considerò il contemplatore come un prodotto
della natura, finito quanto il lottatore (è la distinzione fra coloro che sono pienamente determinati dalla
voluntas, la cieca volontà di vivere, e coloro che invece sono renitenti a
lasciarsi determinare da questa cieca volontà: sono i contemplatori, che quindi
nella vita appaiono quali inetti). Non c’è cura che valga. Se c’è differenza
allora la cosa è differente: ma se questa può scomparire per un successo (p. e.
la scoperta d’essere l’uomo più umano
che sia stato creato) allora si tratta proprio di quel cigno della novella
di Andersen che si credeva un’anitra male riuscita perché era stato covato da
un’anitra. Che guarigione quando arrivò tra i cigni!
18. Il riferimento alla
novella del brutto anatroccolo è perfetto: significa
scoprire di non essere malato, in quanto diverso dagli altri, ma semplicemente
di appartenere ad un’altra specie, degna quanto quella degli altri, anzi
più degna, tanto quanto il cigno è più bello dell’anatra.
Il volo del gabbiano
19. Ma è all’interno
stesso dell’opera letteraria che troviamo riscontro a questo modo di concepire
l’inetto. C’è un passo estremamente significativo in Una vita, ed è quando Macario (è l’amico-rivale, l’uomo di
successo, “atto a vivere”, il ricorrente antagonista dell’inetto – omologo a
Stefano Balli e a Guido Speier) abile velista, invita
Alfonso a uscire con lui in barca. Naturalmente, tanto è sicuro di sé Macario
quanto è a disagio e impaurito Alfonso, che per di più soffre il mal di mare.
Si era in porto, ma per giungere al punto
di partenza si dovette passarci dinanzi due volte.
Si udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che
Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come la
salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti di piombo.
Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le grandi ali bianche
tese, il corpicciuolo sproporzionato piccolo coperto da piume leggiere.
Fatti proprio per pescare e per mangiare, - filosofeggiò Macario. - Quanto
poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la
testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch'è la
sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli
occhi, e lo stomaco, l'appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla
quella caduta così dall'alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il
cervello col pigliar pesci? E lei che
studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi
non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per
natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e
inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si
muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o
anche inabili a tenere.
Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero
nell'agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza.
- Ed io ho le ali? - chiese abbozzando un sorriso.
- Per fare dei voli poetici sì! - rispose Macario, e arrotondò la mano
quantunque nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di
quel cenno per venir compreso.
20. Le considerazioni di
Macario sul volo del gabbiano e sulla sua capacità di afferrare la preda ci
portano nel cuore del problema. Macario dice sostanzialmente due cose: 1) il
gabbiano ci insegna che non c’è bisogno
del cervello per afferrare la preda, ci vogliono l’appetito formidabile, la
vista acuta e soprattutto quelle ali potenti; 2) avere o non avere quelle ali è un dato di natura, chi non le
possiede non potrà mai ottenerle “e
inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare”,
sarà sempre uno sconfitto
21. Per quanto riguarda
questo secondo aspetto, riconosciamo l’idea
di Schopenhauer, che abbiamo già visto nella lettera a Jahier, secondo cui
esistono in natura due tipi umani, i “lottatori” e i “contemplatori”, i
primi sono quelli capaci di “afferrare la preda”, i vincenti nella lotta per la
vita, i contemplatori invece sono incapaci di afferrare la preda, destinati a
soccombere, insomma gli inetti. Ma se riflettiamo sul primo aspetto, gettiamo
una luce del tutto diversa sulla figura dell’inetto. Il lottatore Macario
disprezza il cervello, l’organo che consente di pensare e di capire, disprezza
il contemplatore Alfonso che “passa ore
intere a tavolino a nutrire un essere inutile”, il cervello appunto, fino a
liquidarlo, in risposta alla sua ingenua domanda (“Ed io ho le ali?”), con la
battuta finale (“Per fare dei voli
poetici sì!”).
22. Sono considerazioni
che mi hanno particolarmente colpito, sia per il paragone con il gabbiano, sia
per il senso stesso del discorso di Macario. Il paragone mi ha fatto pensare a una famosa poesia di Baudelaire, il
senso del discorso mi ha rimandato addirittura a Leopardi.
L’albatro di Baudelaire
23. Baudelaire si era servito ugualmente del paragone
con un uccello, l’albatro, per definire la condizione del poeta, goffo e
impacciato in un’età incapace di comprenderne l’intelligenza, la sensibilità e
la fantasia, in una società che professa altri valori rispetto a quelli
dell’arte, che dunque sente il poeta come diverso, estraneo da sé e ne fa
oggetto di derisione. Ma il poeta è come
l’albatro, impacciato quando è a terra perché ostacolato dalle sue grandi ali,
ali da gigante, ma sicuro e maestoso quando può dispiegare le ali nel volo,
quando è nel suo elemento, l’aria, e fa e vede ciò che gli uomini a terra non
possono né fare né vedere. E’ uno dei Fiori
del male, la poesia intitolata, appunto, L’albatro.
Per dilettarsi, sovente, le ciurme
catturano degli albatri, marini
grandi uccelli, che seguono, indolenti
compagni di viaggio, il bastimento
che scivolando va su amari abissi.
E li hanno appena sulla tolda posti
che questi re dell'azzurro abbandonano,
inetti e vergognosi, ai loro fianchi
miseramente, come remi, inerti
le candide e grandi ali. Com'è goffo
e imbelle questo alato viaggiatore!
Lui, poco fa sì bello, com'è brutto
e comico! Qualcuno con la pipa
il becco qui gli stuzzica, là un altro
l'infermo che volava, zoppicando
scimmieggia.
Come il principe dei nembi
è il Poeta che, avvezzo alla tempesta,
si ride dell'arciere, ma esiliato
sulla terra, fra scherni, camminare
non può per le sue ali da gigante.
catturano degli albatri, marini
grandi uccelli, che seguono, indolenti
compagni di viaggio, il bastimento
che scivolando va su amari abissi.
E li hanno appena sulla tolda posti
che questi re dell'azzurro abbandonano,
inetti e vergognosi, ai loro fianchi
miseramente, come remi, inerti
le candide e grandi ali. Com'è goffo
e imbelle questo alato viaggiatore!
Lui, poco fa sì bello, com'è brutto
e comico! Qualcuno con la pipa
il becco qui gli stuzzica, là un altro
l'infermo che volava, zoppicando
scimmieggia.
Come il principe dei nembi
è il Poeta che, avvezzo alla tempesta,
si ride dell'arciere, ma esiliato
sulla terra, fra scherni, camminare
non può per le sue ali da gigante.
24. Come si vede, il riferimento al gabbiano in Svevo e
all’albatro in Baudelaire ha una valenza diversa, se non opposta: per
Macario il gabbiano, con la sua capacità di afferrare la preda, rappresenta il
positivo apprezzato dalla società, laddove il letterato, il poeta, con la sua
intelligenza e sensibilità, è il negativo oggetto di derisione. Per Baudelaire
invece l’albatro è il positivo come lo è il poeta, laddove il negativo sono i
marinai ignoranti che lo sbeffeggiano perché lo vedono goffo, inetto, ma in
realtà sono incapaci – come lo è Macario nei confronti di Alfonso – di
comprenderne l’intelligenza e la sensibilità. Di comune c’è la stessa idea di una estraneità del poeta (o del
letterato) – una estraneità che lo rende ridicolo – rispetto ai valori
dominanti. L’inetto Alfonso non è altro che l’albatro, che, a terra, appare
ridicolo perché fatica a camminare; ma fatica a camminare perché ha ali da gigante,
con le quali può librarsi nell’azzurro, con le quali, fuor di metafora, può
vedere e comprendere ciò che i marinai e i Macario non sanno né vedere né
comprendere.
25. Baudelaire scriveva a
metà dell’Ottocento ed esprimeva così quella che lui avvertiva come nuova
condizione dell’intellettuale, non in sintonia ma in conflitto con i valori
dominanti nella società (l’interesse, il profitto, l’efficienza), una
condizione di cui, qualche decennio più tardi, si faranno interpreti i “poeti
maledetti” e poi tanta arte d’avanguardia del Novecento.
La “grande anima” di Leopardi
26. Ma più interessanti
ancora appaiono certe riflessioni di Leopardi, che scrive agli inizi
dell’Ottocento e che sembra fare una vera e propria diagnosi ante litteram
della condizione dell’inetto. Sono riflessioni che si trovano nello Zibaldone e che poi diventano argomento
di alcune Operette morali. Vorrei
leggere alcuni brani tratti da questi testi. Nel Dialogo della Natura e di un’Anima, Leopardi immagina che un’Anima
grande chieda alla Natura ragione della propria infelicità. La Natura, dopo aver spiegato che quanto più l’individuo è dotato
di intelligenza e sensibilità (quanto più si eleva sopra il torpore degli
"animali bruti"), tanto più è destinato all’infelicità, giacché più
intensamente avverte la distanza incolmabile fra il desiderio del piacere
(proprio di ogni uomo) e la miseria della realtà, prosegue il ragionamento giungendo ad indicare per l’anima grande
alcune conseguenze sul piano pratico della vita quotidiana:
Gli animali bruti usano agevolmente ai
fini che eglino si propongono ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini
rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e
dalla immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni
nell’eseguire. I meno atti e meno usati
a ponderare seco medesimi sono i più pronti al risolversi, e nell’operare i più
efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come
soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotenti di se
medesime, soggiaciono il più tempo
all’irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è uno dei
maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che, mentre per
l’eccellenza delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo
quasi tutte le altre della tua specie nelle conoscenze più gravi, e nelle
discipline anco difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre impossibile o sommamente malagevole di
apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in sé, ma necessarissime
al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare
perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a
te, ma spregevoli in ogni modo.
27. In un’altra delle Operette morali, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, viene attribuita al suddetto
personaggio l’idea che esista una categoria di persone, a cui va la stima
generale, “atte ai negozi pubblici e
privati; a partecipare con diletto nel commercio gentile degli uomini, e
riuscire scambievolmente grate a quelli coi quali si abbattono a convivere”;
e che invece ne esista un’altra con le
seguenti caratteristiche:
gli uomini di questa
seconda specie, non essendo di volontà punto alieni dal conversare cogli altri,
desiderando in molte e diverse cose di rendersi conformi o simili a quelli del
primo genere, dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui si veggono
essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente inferiori a sé d'ingegno e
d'animo; non vengono a capo, non ostante
qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all'uso pratico della
vita, né di rendersi nella conversazione tollerabili a se, non che altrui.
28. Infine, ecco alcune
riflessioni rintracciabili nello Zibaldone,
in cui sono ribadite le stesse idee:
È cosa evidente e osservata tuttogiorno,
che gli uomini di maggior talento, sono
i più difficili a risolversi tanto al credere, quanto all'operare; i più
incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da
quell'eccessiva pena dell'irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar
le cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente,
malgrado l'utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l'abito di
riflettere, e la profondità dell'indole, tanto è maggiore la difficoltà e
l'angustia di risolvere. (21. Gen. 1821.).
l'abito della prudenza nel deliberare
esclude ordinariamente la facilità e prontezza del risolvere, ed anche la
fermezza nell'operare. Di qui è che gli
uomini d'ingegno grande ed esercitato sono per lo più, anzi quasi sempre
prigionieri, per così dire, dell'irresolutezza, difficili a risolvere, timidi,
sospesi, incerti, delicati, deboli nell'eseguire. Altrimenti essi dominerebbero
il mondo, il quale, perché la risolutezza per se può sempre più che la prudenza
sola, fu ed è e sarà sempre in balia degli uomini mediocri. (26. Luglio, dì
di S. Anna. 1823.).
La galleria degli “atti a vivere”
29. Se rintracciamo nei
diversi romanzi di Svevo i cosiddetti “atti a vivere”, scopriamo che il
narratore ne fa una descrizione spietata che mette in risalto proprio quella
mediocrità intellettuale di cui parla Leopardi. Il primo che vediamo è Creglingi, in Una vita: si tratta di un vecchio amico d’infanzia di Alfonso, che
costui incontra quando torna al paese, fuggendo da Trieste con la scusa di
dovere andare a trovare la madre malata (in verità, si sente incapace di
reggere il rapporto con Annetta). Creglingi amministra con successo i beni
della famiglia e, in più, si è fidanzato con Rosina, una bella ragazza di cui
Alfonso era stato innamorato. Di lui si dice che era il possessore di due o tre idee in tutto e dovevano servirgli per
tutta la vita. Ecco poi Leardi,
in Senilità: un bellimbusto che aveva
successo con le donne, di cui si diceva che avesse avuto una relazione con Angiolina;
e così lo descrive Emilio:
Chissà con chi
Angiolina lo avrebbe tradito quel giorno, forse con delle persone ch'egli non
conosceva neppure. Come era superiore a lui il Leardi, quell'imbecille privo di idee! Quella calma era la vera scienza
della vita. - Sì, - pensò il Brentani, e gli parve di dire una parola che
avrebbe dovuto far vergognare insieme a lui l'umanità più eletta - l'abbondanza d'immagini nel mio cervello
forma la mia inferiorità. - Infatti se il Leardi avesse pensato che
Angiolina lo tradiva, non se la sarebbe saputa rappresentare in un'immagine
così piena di rilievo, di colore e di movimento come faceva lui figurandosela
accanto al Leardi.
30. Ma è ne La coscienza di Zeno che si trovano le
più significative rappresentazioni degli “atti a vivere”. Così Zeno descrive il
proprio padre (un padre che negli affari
ci ha saputo fare, visto che lascia un discreto patrimonio che, non
fidandosi delle capacità del figlio, affida ad un amministratore, certo Olivi)
:
Avevamo tanto poco di
comune fra di noi, ch’egli mi confessò che una delle persone che più
l’inquietavano a questo mondo ero io. Il mio desiderio di salute m’aveva spinto
a studiare il corpo umano. Egli, invece, aveva saputo eliminare dal suo ricordo
ogni idea di quella spaventosa macchina. Per
lui il cuore non pulsava e non v’era bisogno di ricordare valvole e vene e
ricambio per spiegare come il suo organismo viveva (chi è “atto a vivere” vive con immediatezza, con naturalezza, non si
pone domande su come funziona la vita; invece l’inetto si guarda vivere, si
pone problemi sul senso e sui modi della vita, e questo rallenta, fino a
bloccarla, la capacità di agire; ricordare il passo in cui Zeno non riesce a
camminare dopo che un amico gli ha detto che si mettono in moto 54 muscoli).
Niente movimento perché l’esperienza diceva che quanto si moveva finiva
coll’arrestarsi. Anche la terra era per lui immobile e solidamente piantata su
dei cardini. Naturalmente non lo disse mai, ma soffriva se gli si diceva
qualche cosa che a tale concezione non si conformasse. M’interruppe con
disgusto un giorno che gli parlai degli antipodi. Il pensiero di quella gente
con la testa all’ingiù gli sconvolgeva lo stomaco.
31. E così descrive il
vecchio Malfenti (anche lui uomo di successo negli affari, capace di operare in
borsa con vantaggio), quello che lo psicanalista ha definito “un secondo
padre”:
Giovanni Malfenti
ch'era tanto differente da me e da tutte le persone di cui io fino ad allora
avevo ricercato la compagnia e l'amicizia. Io ero abbastanza còlto essendo
passato attraverso due facoltà universitarie eppoi per la mia lunga inerzia,
ch'io credo molto istruttiva. Lui, invece, era un grande negoziante, ignorante ed attivo. Ma dalla sua ignoranza gli risultava forza e
serenità ed io m'incantavo a guardarlo, invidiandolo.
Il Malfenti aveva
allora circa cinquant'anni, una salute ferrea, un corpo enorme alto e grosso
del peso di un quintale e più. Le poche
idee che gli si movevano nella grossa testa erano svolte da lui con tanta
chiarezza, sviscerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi
affari di ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere
32. Ma è nella descrizione
di Augusta (la moglie non desiderata, ma poi rivelatasi ottima), nella
descrizione della sua bella salute e delle sue solide certezze, che emerge con
chiarezza come l’opposizione fra malattia e salute, ovvero fra inettitudine e
attitudine alla vita corrisponda all’opposizione fra capacità e incapacità di
pensiero, fra un vivere istintivo e
naturale che rifugge dai problemi e un vivere problematico, un vivere che
riflette su se stesso, che si guarda vivere:
da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la
vita eterna. Non che la dicesse tale: si sorprese anzi che una volta io, cui
gli errori ripugnavano prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il
bisogno di ricordargliene la brevità. Macché! Essa sapeva che tutti dovevano
morire, ma ciò non toglieva che oramai ch’eravamo sposati, si sarebbe rimasti
insieme, insieme, insieme. Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si
univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s’intendeva come si fosse arrivati a
darsi del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a
non rivedersi mai più per un altro infinito tempo (è un pensiero di una profondità abissale, il pensiero di quanto breve
sia la vita rispetto all’infinità del tempo che sta prima e dopo la vita; tutti
siamo un po’ come Augusta: lo sappiamo ma non ci pensiamo; solo un pensatore
maniacale come l’inetto può sprofondare in questo pensiero). Compresi
finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente
per lei era
una verità
tangibile
in cui si poteva segregarsi e starci caldi.(…)
Essa sapeva
tutte le cose
che fanno disperare,
ma in mano
sua queste cose cambiavano di natura. Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! Tutt'altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al
loro posto (notate:
quello di Augusta è un modo di essere simile a quello del padre, anche lui non
poteva soffrire l’idea degli antipodi; entrambi diffidano di, anzi, rifiutano
di accettare ciò che fuoriesce da schemi semplici e rassicuranti). E queste
cose immobili avevano un'importanza enorme: l'anello di matrimonio, tutte le gemme
e i vestiti,
il verde,
il nero,
quello da passeggio
che andava
in armadio
quando si arrivava
a casa e
quello di sera
che in nessun caso si avrebbe potuto indossare
di giorno,
né quando io non m'adattavo di mettermi in marsina. E le ore dei pasti
erano tenute rigidamente e anche quelle
del sonno.
Esistevano,
quelle ore, e
si trovavano
sempre al loro posto (la salute di Augusta consiste nell’adeguarsi
totalmente alla convenzioni, alle tradizioni, alle abitudini; non si pone
problemi, non sa e non vuole fuoriuscire dai binari su cui si è sempre mossa)
.
Di domenica
essa andava
a Messa
ed io ve l'accompagnai talvolta per vedere
come sopportasse l'immagine del dolore e della morte. Per lei non c'era, e quella visita le infondeva serenità per tutta la settimana.
Vi andava
anche in certi giorni festivi ch'essa sapeva a mente. Niente di più,
mentre se io fossi stato religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.
C'erano un mondo di autorità anche quaggiù che la rassicuravano. Intanto quella austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e
nelle case
ed io feci
sempre del mio meglio per associarmi anche a quel
suo rispetto.
Poi v'erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli studii
regolari
per salvarci quando - Dio non voglia - ci avesse a toccare
qualche malattia.
Io ne usavo
ogni giorno
di quell'autorità:
lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il mio atroce destino quando la malattia
mortale
m'avesse raggiunto,
mentre lei credeva
che anche allora, appoggiata solidamente lassù e quaggiù, per lei vi sarebbe stata la salvezza. (l’analisi della salute di Augusta diventa
sempre più perfida e corrosiva: lei sta bene perché non si pone problemi, si
affida totalmente alla routine delle abitudini, stagionali e giornaliere; anche
il frequentare la chiesa non è religiosità, ma un’abitudine rassicurante; e
infine c’è una fiducia incrollabile, a-problematica, nelle istituzioni
ufficiali, nelle autorità politiche e in quelle mediche).
Io sto analizzando la sua
salute, ma non ci riesco perché m'accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d'istruzione per guarire. Ma vivendole accanto per tanti anni, mai ebbi tale dubbio.
(vedete l’ambiguità di Zeno: da una parte
vorrebbe essere anche lui come Augusta, vorrebbe integrarsi in quel mondo
“normale”, con i suoi valori e le sue abitudini piccolo borghesi; dall’altra si
rende conto che quella salute corrisponde ad una assenza di pensiero, è una
salute che dovrebbe “guarire” – dunque è una malattia – e che la propria
malattia corrisponde ad una estraneità irriducibile e critica rispetto a quel
mondo. Certo, Augusta, nella sua ignorante superficialità, vive bene, non
soffre; Zeno invece sta male, è continuamente angosciato da mille dubbi e mille
problemi, ma questo è il prezzo della sua disposizione al pensiero, alla
riflessione, all’analisi e all’auto-analisi, al “guardarsi vivere”) (…)
Mi ricordo che una sera, a Venezia, si passava in gondola per uno di quei canali dal silenzio profondo ad ogni tratto interrotto dalla luce e dal rumore di una via che su di esso improvvisamente s'apre. Augusta,
come sempre, guardava le cose e accuratamente le registrava: un giardino verde e fresco che sorgeva da una base sucida lasciata all'aria dall'acqua che s'era ritirata; un campanile che si rifletteva nell'acqua torbida; una viuzza lunga e oscura con in fondo un fiume di luce e di gente. Io, invece,
nell'oscurità,
sentivo,
con pieno
sconforto,
me stesso. Le dissi del tempo che andava via e che presto essa avrebbe rifatto quel viaggio di nozze con un altro. Io ne ero tanto sicuro che mi pareva di dirle una storia già avvenuta. E mi parve fuori di posto ch'essa si mettesse a piangere per negare la verità di quella storia. Forse m'aveva capito male e credeva io le avessi attribuita l'intenzione di uccidermi. Tutt'altro! Per spiegarmi meglio le descrissi un mio eventuale modo di morire: le mie gambe, nelle quali la circolazione era certamente già povera, si sarebbero incancrenite e la cancrena dilatata, dilatata, sarebbe giunta a toccare un organo qualunque, indispensabile per poter tener aperti gli occhi. Allora li avrei chiusi, e addio patriarca! Sarebbe stato necessario stamparne un altro.
Essa continuò a singhiozzare e a me quel suo pianto, nella tristezza enorme di quel canale, parve molto importante. Era forse provocato dalla disperazione per la visione esatta di quella sua salute atroce?
Allora tutta l'umanità avrebbe singhiozzato in quel pianto. Poi, invece, seppi ch'essa neppur sapeva come fosse fatta la salute. La salute non analizza se
stessa e neppur si guarda
nello specchio.
Solo noi malati
sappiamo
qualche cosa di noi stessi.
33. “Solo noi malati sappiamo qualche cosa di
noi stessi” E dunque, se le cose stanno
così, la malattia, o inettitudine,
corrisponde ad intelligenza critica: esattamente come dice Leopardi, che
associa l’inettitudine (perché di questo si tratta, quando parla di difficoltà
nel decidere e nell’agire e di goffaggine, mancanza di disinvoltura, nei
rapporti interpersonali) alla grandezza delle facoltà intellettive, ovvero “della ragione e della immaginativa”. Gli
“adatti a vivere”, al contrario, oltre che capaci di decidere e di agire, sono
anche brillanti nella vita sociale; ma lo sono, inevitabilmente, a prezzo (o in
virtù) della loro mediocrità intellettuale.
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