Leopardi e la sapienza silenica
I. Quando faccio lezione su
Leopardi, mi trovo a dover sbrogliare il campo dal pregiudizio (diffuso, peraltro, anche presso
i contemporanei del poeta, come ampiamente testimoniato[1]) secondo cui sarebbero le
personali disgrazie fisiche a determinare quel pensiero radicalmente negativo.
Ed è un pregiudizio, a dir poco, fastidioso, in quanto inficia la comprensione
di quel pensiero, lo svaluta, quasi fosse un pensiero dimidiato, lo riduce al
miserevole lamento di chi non è capace di astrarre dalla propria condizione
individuale per dire parole di verità.
Né vale citare come testimone a difesa lo stesso Leopardi, quando nella
esemplare lettera al De Sinner si ribella con forza a questo trattamento
liquidatorio riservatogli da critici e lettori sbrigativi[2]; e nemmeno serve cercare di
spiegare, con Timpanaro, come quelle disgrazie fisiche, caso mai, si
trasformino in un “formidabile strumento conoscitivo”, giacché consentono uno
sguardo più acuto su verità altrimenti misconosciute dalla “normalità”
dominante.
Certo, i ragazzi amano il grande
Leopardi degli idilli e dei canti pisano-recanatesi, il poeta del maggio
odoroso, delle care speranze, degli ameni inganni, perché lì avvertono, prima
ancora di averne sentito parlare, la profonda
verità di quel giudizio di De Sanctis, secondo cui “Leopardi produce l’effetto
contrario a quello che si propone... Chiama illusioni l’amore, la gloria, la
virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto...”[3]. Ma permane una sorta di
diffidenza verso il pensatore che sembra incattivito con la vita, quando
argomenta, con Porfirio, a favore del suicidio[4], o quando dichiara, con
Tristano, di desiderare solo la morte[5], o quando, senza altri
travestimenti, dice direttamente, nello Zibaldone,
di vedere un ospedale laddove gli altri vedono un giardino[6].
Mi sembra utile, allora, compiere
un altro percorso, del resto indicato dallo stesso Leopardi nel sopra citato Dialogo di Tristano ed un amico[7]: si tratta di mostrare come quel
pensiero, lungi dall’essere un pensiero singolare, frutto occasionale di una
vita singolarmente “strozzata”, appartiene a buon diritto alla cultura
occidentale, la pervade sin dalle sue origini greche, preesiste quindi a
Leopardi e persiste oltre di lui.
In altre parole, Leopardi - e in
questo, il solo Schopenhauer gli può stare a fianco - non è che un discepolo di
Sileno, un divulgatore della sua sapienza.
Di che si tratta?
II. Nella Nascita della tragedia Nietzsche svela, attraverso il mito del
Sileno[8], l’inquietante verità che corrode
dall’interno la composta armonia del mondo greco:
L’antica leggenda
narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di
Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re
domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e
immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo tra stridule
risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della
pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non
sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato,
non essere,
essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è - morire presto”. [9]
Il cosiddetto “pessimismo greco” trova qui la
sua espressione più chiara e radicale: a fronte di tante altre occasioni in cui
gli autori greci si lasciano andare a considerazioni sconsolate sulla miseria e
la precarietà della condizione umana, le parole del Sileno sembrano fondare una
sorta di metafisica dell’infelicità: l’infelicità è nel principio, è
costitutiva dell’essere. Chi parla è il precettore di Dioniso, la divinità che
si contrappone ad Apollo così come al κόσμος si contrappone il χάος, senza
ordine e senza misura; e il suo non è un lamento occasionale, dettato
dall’esperienza di sventure particolari. Ciò che nelle sue parole si deve
intendere è che il dolore, al di là delle condizioni personali, o sociali, o
comunque contingenti, è connaturato all’esistenza, al punto che non esistere è
la condizione migliore. Né Sileno si rivolge ad un miserabile che conduce una
vita di stenti e di privazioni, e per il quale quindi il “non essere nato” o il
“morire presto” sarebbero ben comprensibili; si rivolge ad un re, ricco e
potente, chiamandolo “figlio del caso e della pena” (δαίμονος ἐπιπόνου καὶ τύχης χαλεπῆς ἐφήμερον
σπέρμα) e svelandogli
una verità
inaspettata, paradossale, scandalosa: per un re, come per l’ultimo dei suoi
sudditi, meglio sarebbe “non essere nato” (τὸ μὴ γενέσθαι) o, in secondo luogo, “morire
presto” (ἀποθανεῖν ὡς τάχιστα).
Altra cosa, come si può ben capire, è lo sconforto che sorprende, ad
esempio, anche Omero quando fa esclamare a Zeus:
Non c’è nulla più degno di pianto dell’uomo
fra tutto ciò che respira e cammina sopra la terra [10]
Non si tratta di questo, perché la visione
omerica resta sostanzialmente una visione serena, “apollinea”, convinta della
bellezza della vita e fiduciosa nel favore degli dei; gli eroi omerici amano la
vita, ne deprecano la brevità, sono rattristati dal pensiero della morte:
famoso, ed emblematico, è il passo dell’Odissea
dove Achille, incontrato da Ulisse fra le ombre dell’Ade, rimpiange la vita
perduta:
Vorrei essere bifolco, servire un padrone,
un diseredato che non avesse ricchezza
piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte [11]
E’ lo stesso ordine di idee per
cui Semonide e Mimnermo, pur compiangendo la miseria della condizione umana,
esortano a godere le gioie della vita. E Mimnermo vuole vivere, non morire,
quando esclama:
Senza malattie, senza funesti pensieri,
il destino di morte mi colga a sessant’anni ! [12]
Così pure vuole vivere Solone,
che, avendo già varcato il limite dei sessant’anni, rilancia l’augurio un po’
più in là:
Il destino di morte mi colga ad ottant’anni ! [13]
Ed anche Saffo, per citare un
ultimo esempio, dimostra di essere ben lontana dalla sapienza silenica quando,
pur fra i tormenti d’amore, si chiede perché mai gli dei sarebbero immortali se
la vita non fosse un bene[14].
III. Ma nemmeno si tratta di un
pessimismo di tipo mistico-religioso, che svaluta la vita terrena, in quanto la
intende come luogo (e tempo) dell’espiazione, e vede la morte come un bene
perché l’anima può finalmente liberarsi dalla prigionia del corpo: il corpo (σῶμα)
si identifica con la tomba (σῆμα), come la stessa affinità fonica delle due
parole sembra indicare. E’ questo un motivo (di origine orfica) ampiamente
presente in Platone, ma espresso anche, fra gli altri, da Aristotele, in un
frammento di grande efficacia rappresentativa:
Poiché è una divina
sentenza, quella detta da ben antichi, che la nostra anima paga quaggiù e
sconta in questa vita la pena di grandi colpe precedenti... Onde noi siamo qui
in un supplizio simile a quello di coloro che, quando cadevano nelle mani dei
predoni etruschi, per essere uccisi con raffinata crudeltà venivano legati con
cadaveri, strettamente il vivo faccia a faccia col morto: le nostre anime sono
unite ai corpi come quei vivi ai morti. [15]
E’ evidente che all’interno di
questa concezione l’assurdità del “male di vivere” trova un senso, una
giustificazione: ci si deve liberare da una sorta di peccato originale connesso
con la materialità corporea, e si apre quindi, per l’anima individuale, la
prospettiva di un’altra vita, finalmente felice, dopo la morte. E’ la
prospettiva indicata, ad esempio, da Pindaro per chi abbia superato tre volte
la prova della vita:
E quanti, per tre volte dimorando
nei mondi alterni, ressero
da colpe aliena l’anima,
fanno la via di Zeus fino alla torre
di Crono, e
là c’è l’isola
dei beati, le brezze dell’Oceano
fiatano intorno, brillano
i fiori d’oro,
quali da piante sulla terra splendide,
altri l’acqua li pasce,
e monili ne intricano e serti. [16]
E’ la concezione, come si può ben
capire, che, confluendo poi nel cristianesimo, diventerà dominante nella
civiltà occidentale: questo mondo è una valle di lacrime, la speranza di
felicità è relegata fuori della vita terrena, nel Paradiso (o “isola dei beati”
che dir si voglia), per chi abbia ben meritato.
Non si tratta di questo, perché
il Sileno, nel momento in cui connette inestricabilmente esistenza ed
infelicità, non fa riferimento ad un’altra possibilità di esistere, non indica
la morte come la liberazione dell’anima incarcerata nel corpo e il suo avviarsi
verso una dimensione alternativa e soddisfacente; semplicemente, dichiara che
il nulla, il non-essere, sia dell’anima che del corpo (o anche, ma è la stessa
cosa: il lasciarsi inghiottire dal χάος, senza più memoria della propria
individualità), è l’unica condizione per la cessazione del dolore.
IV. Tutto il fulgore degli dei
olimpici impallidisce dinnanzi alla sapienza di Sileno. Il precettore di
Dioniso insegna una verità terribile: non c’è un senso, né terreno né
ultraterreno, per la vita umana. E l’ebbrietà, di cui il dio è portatore, è la
sola medicina in grado di lenire, per il tempo in cui essa dura, la malattia
del vivere; l’ebbrietà che consente, tanto nella sua forma frenetica quanto in
quella letargica, di spezzare i vincoli del principium
individuationis e di perdersi nel
tutto.
Su tale sapienza si fonda la
tragedia, la forma d’arte in cui Dioniso si concilia con Apollo, ed attraverso
cui l’uomo greco, che ha intravvisto con orrore l’assurdità dell’esistenza, si
difende dalla minaccia del χάος
e si salva dal
pericolo di perdere se stesso. Ma quell’orrore non può essere dimenticato, esso
percorre la cultura greca come un fiume sotterraneo, e riemerge più volte nella
forma, caratteristica ed inequivocabile, dell’aspirazione all’annientamento.
Così si lamenta il coro nell’Edipo a
Colono di Sofocle:
Non veder mai la luce
vince ogni confronto,
ma una volta venuti al mondo
tornar subito là onde si giunse
è di gran lunga la miglior sorte [17]
Analogo concetto è espresso più
volte da Euripide:
Sarebbe invero opportuno che noi ci radunassimo,
a piangere la casa dove qualcuno viene alla luce,
considerando i molteplici mali dell’umana vita;
ma chi morendo pose fine ai gravi travagli,
a questo gli amici dovrebbero celebrare le esequie
con ogni lode e gioia [18]
Quelli dei mortali che vedono la luce sono afflitti
da morbi,
e i morti nulla
soffrono né patiscono mali [19]
Meglio per i mortali sarebbe non nascere che
nascere. [20]
Ma è una sapienza conosciuta
anche dai lirici. Così canta Teognide:
Bene sommo per chi sulla terra vive è non essere
nato,
né i raggi vedere del sole abbagliante,
e, quando si è nati, al più presto varcare le soglie
di Ade
e sotto gran massa di terra giacere. [21]
E così Bacchilide ammonisce il sire Gerone dei
siracusani, vincitore col cavallo veloce ad Olimpia:
Non esistere:
è ben questa per l’uomo la ventura
delle venture, non vedere il sole. [22]
La stessa concezione è espressa
da Erodoto attraverso alcuni episodi narrati nelle Storie . Così ci dice a proposito di una popolazione della Tracia:
Quanto ai Trausi...
quando nasce o muore loro qualcuno, si comportano come segue: alla nascita di
un bambino, i parenti, sedutigli attorno, piangono i mali che dovrà sopportare
dal momento che è venuto al mondo ed elencano tutte le sciagure umane. Quando
invece uno muore, tutti, lieti e gioiosi, lo sotterrano, dicendo che egli
ormai, liberato da tanti affanni, vivrà nella perfetta felicità. [23]
In un altro momento, quando
Serse, scrutando l’Ellesponto tutto coperto di navi e le spiagge formicolanti
di uomini, si mette a piangere al pensiero di quanto sia breve la vita umana, è
Artabano a consolarlo con una verità ben più dolorosa:
In questa vita, che
pure è così breve, non esiste nessun uomo, né di questi né di altri, felice al
punto che non gli capiti spesso, e non una volta sola, di desiderare di essere
morto piuttosto che di vivere. Le sciagure che ci colpiscono e le malattie che
ci affliggono ci fanno trovare lunga questa vita, per breve che sia. Così,
essendo la vita travagliata, la morte è per l’uomo il rifugio più desiderabile.
[24]
Ma il più significativo, ed anche
il più famoso sin dall’antichità, è l’episodio di Cleobi e Bitone:
Di loro si racconta
che un giorno celebrando gli Argivi la festa in onore di Era, la loro madre
doveva essere necessariamente trasportata al santuario con un carro, ma i buoi
non erano tornati in tempo dai campi; allora i due giovani, poiché l’ora
incalzava, si misero sotto al giogo e tirarono il carro, su cui viaggiava la
madre, per quarantacinque stadi, fino al tempio; dopo di che, al cospetto della
folla dei fedeli, incontrarono la morte più bella. E di essi gli dei si
servirono per dimostrare che per gli uomini è meglio morire che vivere. Gli
Argivi, stringendosi attorno a loro, li felicitavano per la loro robustezza e
le Argive chiamavano beata la loro madre che aveva figli siffatti; la madre
infine, al colmo della gioia per l’azione che essi avevano compiuta e per le
lodi che ne avevano ricevute, ritta davanti alla statua della dea, le chiese
per i figli Cleobi e Bitone, che tanto l’avevano onorata, la cosa più bella che
potesse toccare ad un uomo. Dopo il sacrificio e il banchetto, i due giovani si
addormentarono nel tempio e non si svegliarono più, sorpresi dalla morte nel
sonno. [25]
Una simile vicenda veniva
attribuita a Trofonio ed Agamede, gli architetti del tempio di Apollo a Delfi[26]: costoro chiesero ed ottennero
dal dio come compenso per la loro opera “ciò che fosse meglio per l’uomo”: e il
dio concesse loro la morte. La morte come premio, dunque, e non per passare a
miglior vita, ma per passare al nulla.
E’ un pensiero, per altro, non
estraneo alla cultura ebraica: se ne sente l’eco nel Vecchio Testamento,
laddove Giobbe maledice il giorno in cui nella casa di suo padre si annunciò
che era nato un figlio[27], e ancora, laddove l’Ecclesiaste
esprime la propria disperazione con parole che, per il riferimento
caratterizzante al “non essere nato”,
ricordano proprio quelle del Sileno:
E proclamai i morti più beati dei vivi,
e più felici d’entrambi chi non è nato ancora...[28]
Nel mondo latino, all’angoscia di
Lucrezio che canta il lugubre vagitum
del neonato, sbattuto come un naufrago sulla spiaggia della vita[29], risponde, in tutt’altro
contesto, l’acuta ironia dell’autore del Satyricon[30]: in mezzo alla volgarità
trionfante alla cena di Trimalchione, ci sono, attribuite alla Sibilla, parole
di ben altro peso: il responso della profetessa cumana alla domanda dei
fanciulli (“Σίβυλλα, τί θέλεις;”)[31]
è secco e apparentemente assurdo: “Ἀποθανεῖν θέλω”[32].
E quel responso sorvola le teste
troppo ottuse dei liberti convitati per
giungere fin nel cuore del Novecento: Eliot lo raccoglie e lo pone ad epigrafe
de La terra desolata, siccome un viatico
per chi voglia visitarla.
V. Le riflessioni sul desiderio
illimitato di piacere e sulla conseguente impossibilità di soddisfazione
costituiscono il fondamento più chiaro del pessimismo leopardiano; le stesse
costituiscono altresì evidente dimostrazione dell’affinità profonda che lega il
pensiero di Leopardi alla sapienza silenica, se è vero che quelle riflessioni
non fanno altro che dare sistemazione teorica all’idea, silenica, della
connessione inestricabile fra esistenza ed infelicità.
Il ragionamento, sviluppato nello
Zibaldone (in maniera più articolata
nel luglio del 1820, ma più volte ripreso successivamente) è semplice e
stringente nella sua logica: esistere comporta “amor proprio” e della propria
conservazione; l’amor proprio, che è senza limite, implica a sua volta il
desiderio, per sé, del piacere; tale desiderio del piacere, adeguato ad un amor
proprio senza limite, non riesce ad essere colmato da nessun piacere
particolare, e quindi (per quanto possa essere, occasionalmente, “ingannato”, “mitigato”,
“addormentato”) resta in stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne
conclude che l’insoddisfazione, ovvero l’infelicità, è congenita all’esistenza
e non ha termine se non con il termine dell’esistenza. Su questa connessione
esistenza-infelicità Leopardi insiste particolarmente, e converrà citare con
ampiezza:
Questo desiderio e
questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e
perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito,
ma solamente termina colla vita... Il detto desiderio del piacere non ha limiti
per durata, perché, come ho detto, non finisce se non coll’esistenza... [33]
La felicità è
impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio
assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti
necessariamente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di
non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria,
anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza
necessaria della vita... Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi
si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità
senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può essere
soddisfatto), per ciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente
felice. [34]
Dove non v’ha
piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere,
e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede,
tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità
di natura il piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non
gode, ei soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire,
che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è quasi come
intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente. In questi
soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può
mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto ch’egli è
vivente, ed in quanto egli è tale... [35]
Ed è una condizione che riguarda
non solo l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere vivente:
Una specie di
viventi rispetto all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè
tanto meno infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno
dell’altra ella sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai
generi non animali. (Dunque la specie de’ polipi, zoofiti ec. è la più felice
delle viventi). [36]
... resta che non
solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere né sia
felice, che la felicità... sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia
di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad essere un ente di ragione
e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della
felicità negli esseri amanti se med. importa infelicità, segue che la vita,
ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri
dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di
essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante
infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi. [37]
Riconosciuta la
impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo
sopra tutto, anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi,
universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da
questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in
ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o
individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo
possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista
nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui
animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado
possibile di tal sentimento. [38]
E dunque, se è vero che
l’infelicità è direttamente proporzionale alla capacità di sentire la vita, e
pertanto è inferiore nelle forme inferiori di vita, se ne deve concludere che
per l’uomo la condizione migliore è quella meno “vitale”, ovvero quella del
sonno, del letargo, dello stordimento dato dall’oppio o dall’ebbrezza:
un assopimento
dell’anima è piacevole. I turchi se lo proccurano coll’oppio, ed è grato
all’anima perché in quei momenti non è affannata dal desiderio, perché è come
un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente; un
intervallo come il sonno nel quale se ben l’anima forse non lascia di pensare,
tuttavia non se n’avvede. [39]
E non godendo mai,
né potendo veramente godere, resta ch’ei sempre soffra, mentre ch’ei vive, in
quanto ei sente la vita: ché quando ei non la sente, non soffre; come nel
sonno, nel letargo ec. Ma in questi casi ei non soffre perché la vita non gli è
sensibile, e perché in certo modo ei non vive. [40]
E un individuo...
allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una
ebbrietà letargica, in uno alloppiamento, come quello de’ turchi, debolezza non
penosa, ec. ... Ed allora solo sì l’uomo, sì il vivente è e può essere
pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d’infelicità positiva,
quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento
totale, negl’istanti che precedono la morte... [41]
E’ da notare però
che l’ubbriachezza ec., anche quando esalta le forze, e cagiona una non
ordinaria vivacità ed attività... sempre però o quasi sempre cagiona eziandio
nel tempo stesso una specie di letargo, di irriflessione, d’ἀναισθησία (…)
Perciò appunto ella è ordinariamente piacevole, perocché sospendendo o scemando
in certo modo il sentimento della vita nel tempo stesso ch’ella accresce la
forza, l’energia, l’intensità, il grado, la somma, la vitalità d’essa vita,
sospende o scema o rende insensibile o men sensibile l’azione, l’effetto,
l’efficacia, le funzioni, l’attualità dell’amor proprio, e quindi il desiderio
vano della felicità...[42]
Alla fine di questo ragionamento
- che mette in campo, abbiamo visto, anche il motivo dionisiaco per eccellenza,
l’ebbrietà, come rimedio provvisorio - ci attende inevitabile la risposta del
Sileno al re Mida che gli chiedeva il segreto della felicità: meglio non
essere, essere niente.
Desiderare la vita,
in qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, non è insomma
altro che desiderare l’infelicità; desiderare di vivere è quanto desiderare di
essere infelice. [43]
Leopardi avverte il carattere paradossale e
contraddittorio di una simile verità - giacché alla fine si scopre la fallacia
dell’assunto di partenza, che identifica l’amor proprio, quindi del proprio
bene, con l’amore della propria conservazione - ma non vi rinuncia:
E però, secondo
tutti i principi della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai
viventi il non essere che l’essere. Ma
questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio
di qualche cosa? [44]
Ed è una verità valida non solo
per i viventi “senzienti”, come uomini e animali, ma anche per i viventi di
vita vegetativa:
... se questi
esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe
per loro assai meglio che l’essere. [45]
VI. Colpisce, a questo punto, la
somiglianza fra queste riflessioni di Leopardi e quelle che, quasi
contemporaneamente, Schopenhauer veniva formulando nel suo Die Welt als Wille und Vorstellung. Si tratta, come è noto, di una
somiglianza già rilevata in un saggio memorabile da De Sanctis, il quale per
altro, avendo dello Zibaldone una
conoscenza limitata, non poteva avvertire di quella somiglianza tutte le
dettagliate articolazioni.
La “volontà di vivere” (Wille zum Leben) di Schopenhauer,
inesauribile ed incolmabile nel suo “aspirare” (Streben) senza fine, ricorda
quell’“amor proprio”, che alimenta il desiderio perennemente insoddisfatto, di
cui parla Leopardi; parimenti, anche per Schopenhauer tutto ciò che vive è in
condizioni di sofferenza, secondo una scala che conduce dalle forme inferiori
di vita a quelle superiori:
Ogni aspirare
proviene da mancanza, da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore,
finché non sia appagato; ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il
principio di una nuova aspirazione... Non ha termine l’aspirare, non ha dunque
misura e termine il soffrire. Ma quel che così sol con più acuta attenzione
scopriamo nella natura priva di conoscenza, limpido ci appare nella conoscente,
nella vita animale, il cui perenne soffrire è facile a dimostrarsi. E, senza
indugiare in questo grado intermedio, ci volgeremo là, dove, dalla più luminosa
conoscenza rischiarato, tutto nel modo più chiaro si disvela: nella vita
dell’uomo. Imperocché come il fenomeno della volontà diventa più compiuto, così
diventa anche più e più palese il dolore. Nella pianta non è ancora sensibilità,
e quindi punto dolore; un grado certamente tenue di sofferenza è insito negli
animali infimi, infusori e radiolari; perfino negli insetti è la capacità di
sentire e di soffrire ancora limitata: solo col perfetto sistema nervoso dei
vertebrati la si presenta in alto grado, e sempre più alto, quanto più
l’intelligenza si sviluppa...[46]
Già vedemmo la
natura priva di conoscenza avere per suo intimo essere un continuo aspirare,
senza meta e senza posa; ben più evidente ci apparisce quest’aspirazione
considerando l’animale e l’uomo. Volere e aspirare è tutta l’essenza loro,
affatto simile a inestinguibile sete. Ma la base di ogni volere è bisogno,
mancanza, ossia dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura...[47]
Simile, in Leopardi e
Schopenhauer, è anche l’idea, logicamente conseguente, secondo cui fra gli
individui umani la capacità di soffrire è direttamente proporzionale
all’intelligenza[48]; ed ancora, simile è la
concezione della noia come sentimento di una mancanza non appagabile da alcun
bene determinato, e quindi come sintomo, più propriamente umano, del “male di
vivere”[49].
La conclusione, anche per
Schopenhauer, ci rimanda alla sapienza silenica. Se il “peccato originale” è
l’esistenza di per sé (la forma fenomenica nella quale la volontà si è
determinata, secondo il principium
individuationis), se è vero che, come dice il “poeta veggente” Calderón de
la Barca, il delitto maggiore dell’uomo è l’essere nato (el delito mayor del hombre es haber nacido)[50], se ne deve concludere che “non
essere, essere nulla” sia la condizione migliore:
E forse non si darà
mai il caso che un uomo, al termine della sua vita, se capace di riflessione e
in pari tempo sincero, desideri di ricominciarla; ma invece ben più volentieri
sceglierà il completo non essere. [51]
Ed è la stessa conclusione, è
ancora Schopenhauer a ricordarcelo, cui giunge Amleto nel celeberrimo monologo:
not to be è senz’altro lo stato
preferibile e desiderabilissimo (a
consummation devoutly to be wish’d). Ed Amleto
si trattiene dal suicidio solo perché teme che nemmeno la morte comporti
l’annientamento totale (the dread of
something after death /.... puzzles th will / and makes us rather bear the ills
we have / than fly to others that we know not of )[52].
Ma il suicidio, si sa, non è una
scelta accettabile, né per Leopardi, né per Schopenhauer, apparentemente per
ragioni diverse, sostanzialmente per la stessa. Il filosofo tedesco ritiene che
il suicidio sia, paradossalmente, niente altro che un’estrema manifestazione di
quella stessa volontà di vivere che si vorrebbe negare. Il poeta italiano ne
parla, per bocca di Plotino, come di un atto estremo di egoismo, di amor
proprio (ma l’“amor proprio” in Leopardi, abbiamo visto, sembra essere
l’equivalente della “volontà” in Schopenhauer), un atto che non tiene in alcun
conto il dolore “dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni”. E’ invece da percorrersi - continua Plotino,
ma gli stessi accenti risuonano nella Ginestra
- la strada della solidarietà, dell’aiuto reciproco fra uomini che si
riconoscono partecipi della stessa miseria. E la solidarietà è anche per
Schopenhauer la scelta giusta e necessaria di chi ha visto nell’altro da sé il
ripetersi del suo stesso destino: è il primo atto di chi ha cominciato a
rifiutare di lasciarsi determinare dalla cieca “volontà di vivere”, il primo atto in un
processo che contempla, come suo compimento, l’annullamento totale della
volontà nella scelta dell’ascesi.
VII. E dunque, il cosiddetto
“pessimismo cosmico” di Leopardi viene da lontano: né la sua particolare biografia,
né – con buona pace di Luporini - la “delusione storica” patita dalla sua
generazione[53] possono spiegare appieno un
pensiero che ha radici tanto profonde.
E’ un pensiero che emerge più
volte, ancorché occasionalmente, nella cultura occidentale, trova una
organizzazione sistematica con Leopardi e Schopenhauer, persiste oltre di loro.
Basti pensare a Carlo Michelstaedter, il pensatore goriziano degli inizi del
Novecento, che fa esplicito riferimento a Leopardi e Schopenhauer e che sembra
evocare, ancora una volta, la sapienza silenica, nel momento in cui oppone,
alle falsificazioni della “rettorica”, la verità della “persuasione”[54].
Ma il Sileno non ha bisogno di
sistemi filosofici per far sentire la sua voce. E a me piace ricordare, per
concludere, il più “intellettuale” dei personaggi verghiani, Rosso Malpelo, il
quale così ammaestra Ranocchio presso la discarica ove giace la carcassa del grigio :
Gliele vedi quelle
costole al grigio? Adesso non soffre più. (...) Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle
guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per
andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava
dicesse: - Non più! Non più! - Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso
se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta
denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio. [55]
Marcello TARTAGLIA
ordinario di Italiano e Latino
presso il Liceo Scientifico “E. Fermi”
di Bologna
Articolo
pubblicato su “Cultura e scuola”
Anno
XXXIV, n. 135-136 (luglio-dicembre 1995)
[1]A
parte Tommaseo, che manifestava normalmente il suo “dissenso” da Leopardi con
riferimenti insultanti alla gobba, anche Capponi, il “candido Gino”, si
esprimeva così, pochi anni dopo la morte del poeta: “Io per me credo proprio...
che le anime nostre non sieno infelici se non in quanto sono esse piccole. Il
povero Leopardi aveva scusa nell’esser gobbo; ma non è forse una piccolezza il
non sapere vivere gobbi?” (da Pensieri
diversi, in Scritti editi e inediti
di Gino Capponi, a c. di M.
Tabarrini, Firenze 1877, vol. II, p. 445).
[2]
“Quali che siano le mie sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse
un po’ esagerare in questa rivista, io ho avuto abbastanza coraggio per non
cercare di diminuirne il peso, né con frivole speranze di una pretesa felicità
futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione... E’ stato proprio per
questo coraggio che, essendo stato condotto dalle mie vicende ad una filosofia
disperata, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto,
è stato solo per effetto della debolezza degli uomini, che hanno bisogno
d’essere persuasi del valore dell’esistenza, che si è voluto vedere le mie
opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze individuali e che
ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali, ciò che si deve solo
al mio intelletto. Prima di morire, io voglio protestare contro queste
invenzioni della debolezza e della volgarità, e pregherò i miei lettori di
cercare di demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che
accusare i miei malanni.” (Lettera al De Sinner del 24 maggio 1832, in francese
nell’originale; cfr. Leopardi, Le lettere,
Milano 1963 [1949], p. 1033).
[3]F.
De Sanctis, Saggi critici, vol. II,
Bari 1965, p. 184.
[4]nel
Dialogo di Plotino e Porfirio .
[5]nel
Dialogo di Tristano e un amico .
[6]Zib., 4176. Cito, qui e in seguito, le
pagine del manoscritto leopardiano nell’edizione a cura di G. Pacella, Milano
1991.
[7]“Ma
poi, ripensando, mi ricordai ch’ella [la mia filosofia dolorosa, ma vera] era
tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi
che si conoscano; i quali tutti sono pieni, pienissimi di figure, di favole, di
sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo
è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e, per
chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli dei, muore in
giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare.” (cfr. Leopardi, Le poesie e le prose, I, Milano 1968
[1940], p. 1021).
[8]Era
ritenuto il precettore di Dioniso. Sul suo incontro con il re Mida circolavano
diverse versioni. Quella riportata da Nietzsche è tramandata da Plutarco (Consolatio ad Apollonium, 27), il quale
a sua volta dichiara di assumerla da un dialogo di Aristotele, l’Eudemo
(fr. 44 Rose).
[9]F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie. Oder:
Griechenthum und Pessimismus, tr. it. Milano 1982, pp. 31-32.
[10]Omero,
Iliade, XVII, vv. 446-47 (trad.
Calzecchi Onesti); ma un’esclamazione analoga si trova anche in Odissea, XVIII, vv. 130-131.
[11]Omero,
Odissea, XI, vv. 489-91 (trad.
Calzecchi Onesti). Bisognerà dire, quindi, che sia il Tristano di Leopardi
(vedi sopra, alla nota 7) sia Schopenhauer negli Ergänzungen (tr. it. Bari 1986 [1930], p. 607) impropriamente
fanno riferimento ad Omero quando indicano le radici del loro pessimismo.
[12]Mimnermo,
fr. 6 Diehl.
[13]Solone,
fr. 22 Diehl.
[14]Fr.
201 Lobel-Page.
[15]Aristotele,
fr. 60 Rose (trad. Carlini).
[16]Pindaro,
Ol. 2, vv. 68-74 (trad. Pontani).
[17]Sofocle,
Edipo a Colono, vv. 1225-28 (trad.
Ferrari).
[18]Euripide,
Cresfonte, TGF, fr. 449 = fr. 5
Musso.
[19]Euripide, TGF, fr. 833.
[20]Euripide, TGF, fr. 908. Espressioni
analoghe si trovano anche in fr. 285 e in Ippolito,
vv. 189-90.
[21]Teognide, vv. 425-28 Young.
[22]Bacchilide, 5 Snell, vv. 160-164
(trad. Pontani).
[23]Erodoto,
Storie, V, 4 (trad. Mattioli).
[24]Erodoto,
Storie, VII, 45.
[25]Erodoto,
Storie, I, 31.
[26]Ce
la attesta Plutarco (Consolatio ad
Apollonium, 14), il quale peraltro dichiara di assumerla da Pindaro.
[27]Giobbe, 3, 3-22.
[28]Ecclesiaste, 4, 2-3.
[29]De rerum natura, V, vv.
222-227.
[30]Satyricon, XLVIII.
[31]“Sibilla,
che cosa vuoi?”
[32]“Voglio
morire”
[33]Zib., 165
[34]Zib., 648.
[35]Zib., 3551-52.
[36]Zib., 3847-48.
[37]Zib., 4137.
[38]Zib., 4186.
[39]Zib., 172.
[40]Zib., 3551.
[41]Zib., 3848.
[42]Zib., 3905-3906.
[43]Zib.,
829-830.
[44]Zib., 4100.
[45]Zib.,
4176-77.
[46]A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, tr. it. Bari 1984 [1928], p. 409-410.
[47]A. Schopenhauer, ibidem, p. 411-412.
[48]Così
Leopardi: “Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice” (Zib., 3848); “Gli stati d’animo meno
sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi
i meno infelici degli stati umani.” (Zib.,
4186). E così Schopenhauer: “La più elevata forza intellettuale fa proprio
costoro [i più intelligenti] capaci di ben maggiori sofferenze, di quante non
possano mai sentire i più ottusi..” (Die
Welt..., op. cit., p. 414).
[49]Così
Schopenhauer: “Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento genera
tosto sazietà: la meta era solo apparente: il possesso disperde l’attrazione:
in nuova forma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue
monotonia, vuoto, noia, contro cui è battaglia altrettanto tormentosa quanto
contro il bisogno.” (Die Welt..., op.
cit., p. 414). In Leopardi, come si sa, è un pensiero ampiamente diffuso;
basterà ricordarne la formulazione nei Pensieri
: “... immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e
sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì
fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e
patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza
e di nobiltà che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli
uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.” (Pensieri, LXVIII; cfr. Leopardi, Le poesie e le prose, II, Milano 1968 [1940], p. 42).
[50]P.
Calderón de la Barca, La vida es sueño (atto I, scena II).
[51]A. Schopenhauer, Die Welt..., op. cit., p. 427.
[52]W.
Shakespeare, Hamlet (atto III, scena I).
[53]
cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo,
in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze
1947.
[54]
Mi riferisco alla sua opera più significativa, La persuasione e la rettorica, laddove Michelstaedter, per spiegare
lo stato di perenne aspirazione insoddisfatta, sviluppa, con grande efficacia,
un esempio tratto da Schopenhauer: quello del peso che, in quanto tale, ha
sempre “fame” del punto più basso; e quando non l’avesse più, non sarebbe
quello che è, cioè un peso (cfr. A. Schopenhauer, Die Welt..., op. cit., p. 176 e 408; e C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano
1982, pp. 39-40).
[55]G.
Verga, Rosso Malpelo, in Opere
(Milano-Napoli 1961, p. 169); sottolineatura mia.
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