venerdì 7 agosto 2015

Moravia stronca i Promessi sposi

Il realismo cattolico di Manzoni
 
A. MORAVIA, in L’uomo come fine,
Bompiani 1964, pp. 303-343.
 
Il realismo cattolico in Manzoni sembra avere gli stessi intendimenti propagandistici del realismo socialista: vuole dimostrare il trionfo della propria visione del mondo (ed in questo, come capita ai realisti socialisti, riesce artisticamente poco convincente). La stessa scelta del sec. XVII è funzionale a tale operazione: è il secolo della Controriforma, e cioè del cattolicesimo trionfante; il presente non sarebbe andato altrettanto bene (ed è esattamente il contrario di quel che devono fare i realisti socialisti: il passato è visto come il negativo negato dal presente).
La presenza del religioso nel romanzo, come personaggi, situazioni, linguaggio, è senz’altro ipertrofica (il 95%, contro un 5% in Stendhal, Tolstoi, Balzac, Flaubert) a dimostrazione dell’intenzione propagandistica: è una battaglia contro l’illuminismo (laddove, al contrario, in Dante non notiamo forzature ideologiche: quello cristiano è l’unico modo di pensare possibile, non una visione del mondo - un’ideologia - da contrapporre ad altre).
E, come ogni opera di propaganda, fallisce proprio nel momento chiave: quando si tratta di descrivere la conversione (ovvero la trasformazione del personaggio da “cattivo” in “buono”); già la cattiveria di un don Rodrigo o di un Innominato non è motivata con credibilità (è piuttosto gratuita ed astratta, come, del resto, la bontà del Cardinale; solo il carattere di Egidio, appena accennato, sembra alludere a qualcosa di diverso e più profondo); e altrettanto “incredibile” è la conversione (di fra Cristoforo: impulsiva; o dell’Innominato: astratta); molto più convincente, al contrario, è la semplicità con cui Agostino narra la propria conversione nelle Confessioni. Manzoni, invece, riesce quando deve descrivere il fenomeno opposto: dal bene al male, ovvero la “corruzione”, privata (di don Abbondio e, soprattutto, di Gertrude) e pubblica (la peste): in virtù di una sensibilità decadente ante litteram.
Resta la simpatia per Renzo e Lucia, per gli umili che sono puri in quanto fuori della storia: siccome la storia è corruzione, sono negativi (corrotti) i personaggi che vivono nella storia, o che comunque appartengono alle classi che fanno la storia (Gertrude, il conte Zio, ecc.); la vita ideale è quella rustica, semplice, povera, vicina alla parrocchia e lontana dalla politica, cosiccome dalla biblioteca. Il limite è quello del paternalismo: Manzoni è assimilabile al feudatario erede di don Rodrigo, che “aveva abbastanza umiltà per mettersi al di sotto di Renzo e Lucia, ma non per stare loro in pari”. E si guardi la magra figura che il sarto (socialmente modesto) fa davanti al Cardinale: a conferma di un’inferiorità, oltre che sociale, anche morale ed intellettuale. Laddove Boccaccio, con la novella di Cisti fornaio, aveva dato dimostrazione di un sentimento più profondo ed autentico dell’uguaglianza umana.
 
 

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