Romanzo senza idillio
E. RAIMONDI, Il romanzo senza idillio,
Einaudi 1974, pp. 173-189.
Se è vero che l’Iliade e l’Odissea sono i due grandi modelli narrativi occidentali (nel 1° protagonista è la vicenda storica, entro cui agiscono i personaggi, nel 2° protagonista è l’individuo, che, attraverso varie esperienze, acquista una personalità o ritrova la propria), il personaggio di Renzo fa dei Promessi Sposi una specie di Odissea, non solo perché il suo viaggio dal contado a Milano si configura come una sorta di Bildungsroman (romanzo di formazione), ma anche perché è proprio lui (come si dice nel cap. XXXVII) che ha raccontato la storia all’Anonimo.
Ovviamente, si rintraccia anche l’archetipo della favola, secondo il modello analizzato da Propp: i due uniti davanti alla sventura; la partenza e la separazione; le peripezie, il ricongiungimento e il lieto fine. Ma solo Renzo attraversa i meccanismi del sistema sociale e ne sperimenta la violenza; tocca a lui la parte di protagonista, vittima e “cercatore” nei confronti di quella realtà complessa che è la giustizia; deve provare non solo l’ingiustizia del sopruso, ma anche il cinismo imbroglione di Azzeccagarbugli e, soprattutto, la “morale” opportunista, e quindi complice, di don Abbondio[5] (“non si tratta di torto o ragione, ma solo di forza”); ed è proprio la protesta contro questa “morale” che lo determina nei suoi comportamenti milanesi. La giustizia la trova al lazzaretto, quando, ancora una volta, pensa alla vendetta personale. Solo ora fra Cristoforo gli rivela di avere imparato sulla propria pelle (ha ucciso un prepotente) che non c’è giustizia nella violenza, ma solo nel perdono. E non a caso, in conclusione, si ripropone l’antinomia Renzo-don Abbondio: è quest’ultimo che, alla notizia della morte di don Rodrigo, celebra la Provvidenza come una “scopa”[6]; Renzo invece fa appello ad una giustizia superiore (“io gli ho perdonato”). Don Abbondio non ha imparato niente, ed è pronto a ricadere nell’opportunismo complice.
Renzo, nella sequenza finale degli “ho imparato”, sembra rassegnarsi alla logica del curato (è bene farsi i fatti propri): ma questo non può essere; ed è Lucia a svelare l’“altra” verità: il male del mondo resta inspiegabile e la fiducia in Dio resta l’unico conforto, l’unica difesa contro di esso. Dietro l’apparente lieto fine, si ripropone il mistero del male (altro che idillio: l’abbandono della terra natale da parte dei protagonisti è paragonato dall’Anonimo al trauma della perdita del capezzolo materno); i problemi proposti sin dall’inizio si prolungano inquietanti nelle coscienze; l’ironia della conclusione consiste in una sorta di sfida al lettore: e se non fosse vero che, come pensa Lucia, il male ha un senso (è utile “per una vita migliore”)? E se non l’avesse? Dove finisce la ricerca di Renzo, comincia quella del lettore.
Ciò che preme a Raimondi è dimostrare che, per Manzoni, non c’è possibilità di “idillio” nella vita reale: e in questo senso, direi, si tratta di un “romanzo di formazione” anche per Lucia, la quale (inizialmente prigioniera di una visione ingenuamente idilliaca della vita, chiusa entro i confini protettivi della casa e della chiesa) parte dalla convinzione che “la condotta più cauta” basti a tenere lontano il male e arriva a capire che invece “i guai” appartengono irrimediabilmente alla condizione umana, e quindi toccano anche ai giusti e agli innocenti. E questa è anche la convinzione profonda di Manzoni, secondo cui la condizione dell’uomo nel mondo è segnata per sempre dalla caduta, e quindi dalla presenza ineliminabile del male e del dolore: certo, la “fiducia in Dio” lo “raddolcisce” e lo “rende utile per una vita migliore”, ma non nel senso che si debba confidare in una Provvidenza che giunge puntualmente a castigare i colpevoli e a premiare gli innocenti (almeno, non in questa vita), bensì nel senso che, attraverso la “sventura” (che allora è “provvida”), si acquisisce una consapevolezza superiore della propria condizione in questa vita, e del proprio dovere verso gli altri.
Che ci sia un dovere da compiere verso gli altri (che non ci si possa chiudere né in un opportunismo complice, né in una rassegnazione fideistica) è evidente dal fatto che tutto il romanzo è una denuncia dura e inflessibile della responsabilità degli uomini (soprattutto di quelli che governano) nel commettere il male. Il male è certo ineliminabile, ma questo non ci esime dal dovere di agire per contrastarlo, esiste un margine che ci consente di intervenire per attenuarlo (non si spiegherebbe altrimenti la positività di figure eroiche quali quelle di fra Cristoforo, del Cardinale, dell’Innominato convertito).
Dunque, il vero “sugo” della storia sta nel principio secondo cui bisognerebbe pensare più a “far bene” che a “star bene” (“e così si finirebbe anche per star meglio”[7]).
E se è così, è anche superato l’intransigente pessimismo (il “giansenismo”) enunciato nelle parole di Adelchi morente (“Loco a gentile, / ad innocente opra non v’è; non resta / che far torto o patirlo”): non tanto perché il lieto fine dimostri la possibilità che il bene trionfi nella storia (visto che un vero lieto fine non c’è), quanto perché le suddette parole dell’anonimo rivendicano uno spazio (un “loco”, per quanto piccolo) per un’azione “gentile” ed “innocente”, sostengono il dovere (per quanto frustrato) di operare per il bene.
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[5]E' lui il “cattivo” del romanzo, non il “comico” che poi esorcizziamo: così Hofmannstahl (Vienna, 1874-1929); e giustamente Pirandello lo vede come esempio di “umorismo”.
[6]Non l’autore, dunque (che certo non si identifica in don Abbondio; né si identifica con altri personaggi, fra cui anche Renzo, che credono di riconoscere nella storia i segni della Provvidenza): chi dà una tale rappresentazione del disordine del mondo, non può “farla così semplice”. E’ il romanzo non della Provvidenza, ma della responsabilità degli uomini (e la Storia della colonna infame lo dimostra).
[7]Lo dice l’anonimo nell’ultimo capitolo, paragonando la condizione umana a quella di un malato che sta scomodo nel suo letto e immagina, sbagliando, di poter stare bene in altri letti che vede attorno a sé, piani e ben fatti; e Manzoni commenta: “è tirata un po’ con gli argani, e proprio da secentista; ma in fondo ha ragione”.
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