venerdì 7 agosto 2015

Manzoni "populista"

Manzoni: la scelta del romanzo e il populismo
 
G. BALDI, A. Manzoni: cattolicesimo e ragione borghese,
Paravia 1975, pp. 27-41.
 
Scrivendo un romanzo, Manzoni compie una scelta di rottura: si trattava di un genere ritenuto inferiore, per lettori ignoranti e per donne, e perciò rifiutato dalla cultura alta (oltretutto, appariva anche moralmente discutibile: rappresentando in maniera troppo viva e diretta la realtà vissuta e le passioni, si temeva che esercitasse una influenza nefasta e corruttrice sugli sprovveduti). Il successo del genere nell’Inghilterra del Settecento è da porsi in relazione con l’affermarsi della borghesia, che chiede una forma letteraria realistica e popolare (accessibile, non aristocratica). La scelta manzoniana va quindi compresa nell’ambito di quel movimento culturale (il romanticismo) che esprime in Italia le esigenze della nascente borghesia.
Il populismo è quell’atteggiamento che vede il popolo (entità, peraltro, non sociologicamente determinata) come depositario di tutti i valori positivi ed autentici. Manzoni ha tale atteggiamento nei confronti del popolo della campagna (che è spontaneamente laborioso, onesto, altruista, umile); laddove invece il negativo è visto sia nelle classi superiori (corrotte, violente, superbe: fanno eccezione pochi individui eroici, come il borghese Cristoforo e l’aristocratico Federigo) sia nel popolo della città (sovversivo, avido, violento)[4].
L’idea di un Manzoni “democratico”, già liquidata da Gramsci (che ha messo in luce il carattere aristocratico del cattolicesimo manzoniano, evidente nel distacco ironico e nel compatimento scherzoso con cui è trattato il popolo), va rigettata per un’altra ragione: Manzoni offre una immagine positiva del popolo, ma solo in quanto è passivo e rassegnato, in quanto non pretende di agire per modificare le cose; positiva è Lucia, che sa che “la fiducia in Dio raddolcisce i guai” e “li rende utili per una vita migliore” (se non qui ed ora, “provvidamente” nell’aldilà); positivo è Renzo, ma solo quando ha imparato “a non mettersi ne' tumulti”, “a non predicare in piazza”, e cioè a non fare politica.
Ciò che si deduce dai capitoli sul tumulto di Milano è che il popolo ha, sì, molte qualità ammirevoli, ma, in quanto ignorante, irrazionale, facile all’emotività, è incapace di agire politicamente (e di autogovernarsi); perciò ha bisogno di una guida paterna e illuminata; tale guida è reperibile solo nella classe superiore, ed è costituita da una minoranza di persone (le sole atte a governare) munite di cognizioni politiche ed economiche, nonché di capacità di giudizio razionale.
 
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[4]Insomma, piacciono “i contadini ossequiosi di Brusuglio con cui il conte Manzoni si intrattiene in lunghe conversazioni quando si trova in villa, non il popolo urlante sotto le finestre della sua casa di Milano durante il linciaggio del ministro Prina (ministro delle finanze del regno d’Italia, impopolare per le imposizioni fiscali, fu linciato dalla folla alla caduta di Napoleone, nell’aprile del 1814 ).”
 

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