VIRGILIO (lezioni)


Virgilio

 

Fondamentale per la biografia è la Vita di Elio Donato (grammatico del IV sec. d. C.), che risale al De poetis di Svetonio (I-II sec. d. C.), perduto.

Nasce nel 70 a. C. ad Andes (oggi Pietole), presso Mantova da un padre figulus (vasaio), o da un bracciante che sarebbe poi divenuto proprietario terriero in seguito a un buon matrimonio. Certo è che la famiglia ebbe una discreta ricchezza, se Virgilio poté frequentare le migliori scuole (prima a Cremona e a Milano, poi retorica a Roma presso Epidio (1), quindi filosofia a Napoli (2), alla scuola dell’epicureo Sirone). Dopo Filippi (42 a. C.), per compensare i veterani, come si usava, i triumviri confiscarono terre nel cremonese e nel mantovano: anche Virgilio perse il suo podere, e non è chiaro se lo abbia riacquistato (vi si allude nelle Bucoliche I e IX). Nel 19 era andato in Grecia per raccogliere materiale utile per la revisione dell’Eneide, cui si stava dedicando da undici anni. Si ammalò nel viaggio di ritorno, morì a Brindisi e fu sepolto a Napoli. Lui stesso avrebbe dettato il seguente distico: “Mantua me genuit, Calabri rapuère, tenet nunc / Parthenope; cecini pascua, rura, duces”.

Fra il 42 e il 39 compone le Bucoliche (dal greco bukòlos, pastore), dette anche Ecloghe: si tratta di dieci carmi in esametri (quelli dispari in forma dialogica, quelli pari in forma narrativa) (3), in cui, imitando gli Idilli di Teocrito (4), viene rappresentata una campagna idealizzata (idilliaca, appunto), con i tratti convenzionali del locus amoenus (il prato, l’ombra degli alberi, il venticello, il ruscello, ecc.); i riferimenti geografici sono ora biografici (la pianura padana), ora letterari (la Sicilia del siracusano Teocrito, l’Arcadia mitica, patria di Pan e dei pastori); gli argomenti vanno dalle gare di canto fra pastori, al dolore per amori non corrisposti o (come nella I) per doversene andare dalle proprie terre, alla profezia di un mondo rigenerato (IV). La filosofia di fondo è quella epicurea (la serenità campestre è contrapposta ai turbamenti della città; anche se è vero che quella serenità è turbata dalle sofferenze d’amore, o dagli echi della politica e della guerra; talché la serenità non è mai piena, ma sempre pervasa da un alone di malinconia).

Alle Georgiche lavora dal 37 al 30. Si tratta di un poema epico-didascalico in quattro libri, in esametri. E’ dedicato a Mecenate, di cui, nel III libro, si dice di aver seguito gli haud mollia iussa (5). I quattro libri sono dedicati, nell’ordine, alla coltivazione dei cerali, alla coltura degli alberi e della vite, all’allevamento del bestiame, all’apicoltura (6). I precedenti sono da individuare prima di tutto in Esiodo (il poeta greco dell’VIII-VII sec., autore di un poema – Erga kai Emèrai, Le opere e i giorni – in cui, appunto, si danno ammaestramenti sui lavori dei campi in relazione ai diversi giorni dell’anno) (7); ma anche in poeti alessandrini come Arato di Soli (III sec., autore di un poema astronomico, Phainòmena, Fenomeni), ma anche in quel Varrone “Reatino” (116-27 a.C.) che proprio in quegli anni (nel 37 a.C.) aveva scritto un trattato sull’agricoltura, intitolato De re rustica (8). Né si può dimenticare il grande poema di Lucrezio, che Virgilio – pur senza nominarne l’autore – ha certamente in mente: nel finale del II libro si esalta la conoscenza scientifica e filosofica come alto ideale di vita (anche se il poeta riconosce che a lui è più congeniale cantare la purezza e la semplicità della vita in campagna); nel finale del III libro si introduce il cupo quadro della peste che colpì gli animali nel Norico (grosso modo, l’odierna Austria) e questo ci ricorda la rappresentazione della peste di Atene con cui si chiude il De rerum natura.

A differenza delle Bucoliche, la campagna è qui vista come luogo non dell’idillio ma del duro lavoro (la legge del lavoro, si dice subito nel I libro, fu imposta da Giove, dopo l’età dell’oro governata da Saturno, per stimolare col bisogno l’ingegnosità degli uomini); viene sottolineata la tensione agonistica fra l’uomo e la terra, tanto che si può riconoscere una presenza della filosofia stoica nell’idea che la fatica e la sofferenza facciano parte di un ordine cosmico provvidenziale e ne sia necessaria l’accettazione. D’altra parte – come si dice nel finale del II libro – la campagna compensa chi la lavora offrendo i suoi frutti e, soprattutto, quella sanità, fisica e morale, estranea alla vita turbolenta della città; quella stessa sanità che ha consentito a Roma, nei tempi antichi, di “divenire la più bella fra tutte le cose” (9).   

Memorabile il finale del IV libro, dove, per spiegare la cosiddetta “bugonìa”, si inserisce un vero e proprio epillio, ovvero la storia del pastore Aristeo sulla quale si innesta (secondo una tecnica ad incastro, tipicamente alessandrina, per cui un mito fa da cornice all’altro) la vicenda – tragica e bellissima – di Orfeo ed Euridice (10).

Lavora all’Eneide dal 30 al 19. Considerava l’opera incompiuta (ci sono infatti delle incongruenze e 58 versi incompiuti, dallo stesso chiamati tibicines, ovvero “puntelli”) tanto che in punto di morte aveva chiesto all’amico Vario (che si rifiutò di farlo) di bruciare il tutto. Nel proemio del III libro delle Georgiche aveva preannunciato un’opera celebrativa delle gesta del princeps, ma di fatto compone un poema epico in cui al centro c’è il mito di Enea che conduce i Troiani da Troia distrutta alle foci del Tevere, ed Augusto compare come punto di arrivo di un disegno provvidenziale (profetizzato da Giove a Venere nel I libro, da Anchise nel VI, nella descrizione dello scudo di Enea nell’VIII).

Il modello primo è evidentemente quello omerico: l’Odissea, per la prima metà (con il motivo dell’eroe che deve viaggiare prima di giungere alla meta), l’Iliade, per la seconda (con il motivo della guerra e del duello finale fra Turno ed Enea) (11). Ma la lezione alessandrina e neoterica è conservata sia nella brevitas – i libri sono 12 (6+6) invece che 48 (24+24) – sia nella presenza della componente psicologica, in particolare della psicologia d’amore, rilevante nella figura di Didone. Per questo aspetto (Calipso e Circe, seduttrici di Ulisse nell’Odissea, sono pressoché prive di spessore psicologico e di implicazioni sentimentali) il modello è senz’altro Apollonio Rodio (12) (Medea abbandonata da Giàsone nelle Argonautiche è il precedente della Didone virgiliana).  Come fonti per la vicenda, Virgilio aveva soprattutto il Bellum Poenicum di Nevio e le Origines di Catone.

La tipologia dell’eroe protagonista (Enea) è senz’altro diversa da quella omerica: l’eroismo, invece che manifestarsi come affermazione di una personalità eccezionale (Achille, Ulisse), risiede nella “pia” accettazione di un dovere che trascende la limitata esistenza dell’individuo. Enea è appunto pius, e la sua pietas consiste soprattutto nella  disponibilità a sacrificare le proprie esigenze personali per farsi strumento della volontà divina e compiere la missione che gli è stata affidata. La concezione stoica della vita ha decisamente preso il sopravvento su quella epicurea. Ma ciò non avviene con entusiasmo, senza conflitti interiori: Enea è un eroe tormentato, quel dovere è sentito come un dolorosa necessità (così è quando deve abbandonare Didone, quando uccide, pur commiserandolo, il giovane Lauso (13), o quando non risparmia la vita Turno che lo supplica) (14).
 



1)      Timido (lo chiamavano parthenias, il verginello) e poco abile a parlare, avrebbe trattato una sola causa (e quindi rinunciato alla carriera politica).

2) Rimarrà poi sempre la città più cara al poeta, che vi soggiornerà spesso.

3) Non è del tutto vero, perché nella VIII, dopo una introduzione narrativa, c’è una gara di canto fra due pastori.

4) Di Siracusa, poeta alessandrino (III sec. a. C.), è l’inventore del genere. Anche se rievoca la semplicità della campagna, si tratta di una poesia colta e raffinata (per riferimenti mitologici, allegorie, sapienza stilistica), secondo i modi della poesia alessandrina, e quindi neoterica. Non meraviglia che un padano come Virgilio, e di quella generazione, subisse l’influenza della moda alessandrino-neoterico.

5) Si discute se Virgilio si riferisca a sollecitazioni d tipo politico-culturale (siamo negli anni in cui Ottaviano, in contesa con Antonio, intende valorizzare la sanità dei costumi italici in opposizione alla mollezza dei costumi orientali; e forse il futuro Augusto ha già in mente la necessità di un rilancio della piccola proprietà contadina per risanare lo Stato) o se si tratti semplicemente di sollecitazioni a concludere l’ opera (Virgilio era notoriamente un perfezionista, che limava continuamente i suoi versi).

6) L’ordine degli argomenti è sintetizzato nei versi iniziali: Quid faciat laetas segetes, quo sidere terram / vertere, Maecenas, ulmisque adiungere vitis / conveniat, quae cura boum, qui cultus habendo / sit pecori, apibus quanta experientia parcis, / hinc canere incipiam.


7) “Ascraeumque cano Romana per oppida carmen”, dice V. in un verso del II libro (di Ascra, in Beozia, era appunto Esiodo).

8) Del resto Varrone si poneva nella linea di una tradizione che aveva nel De agri cultura di Catone il modello originario.

9) “Rerum facta est pulcherrima Roma” (II, 534).

10) Aristeo, perduti i suoi alveari, viene a sapere di essere stato punito perché ha provocato la morte della ninfa Euridice, morsa da un serpente mentre tentava di sfuggirgli. Il suo sposo, Orfeo, scende nell’Ade, commuove col suo canto le divinità infernali, ottiene di riportare alla luce Euridice, purché non si volti a guardarla; ma lui non resiste, si volta e la perde per sempre. Aristeo quindi placa le ninfe offese sacrificando dei tori e dalle carni di questi vede nascere miracolosamente sciami di api: si realizza così la “bugonìa” (le api, come compenso per aver nutrito con il loro miele Giove neonato, hanno il privilegio di riprodursi in questo modo, sfuggendo alla necessità dell’accoppiamento).

11) Il modello omerico è per altro riconoscibile anche nel motivo dell’intervento degli dei nelle vicende terrene e nel motivo della “catàbasi” (la discesa agli inferi di Enea riprende quella di Ulisse – anche se Ulisse non discende, ma resta sulla soglia e sono le anime che vengono a lui attirate dal sangue sacrificale).

12) 295-205 a.C. Grande poeta dell’età alessandrina (di Alessandria era nativo; si trasferì poi a Rodi, dove visse fino alla morte: di qui l’appellativo di “Rodio”).

13) Lauso è figlio dell’etrusco Mezenzio e sfida a duello Enea.

14) Enea lo risparmierebbe, ma quando scorge il balteo (una cintura) di cui Turno aveva spogliato Pallante (il giovane figlio di Evandro, alleato di Enea) dopo averlo ucciso, ricorda la promessa solenne fatta ad Evandro di vendicare il figlio e vibra il colpo mortale.

 

Nessun commento:

Posta un commento