ULISSE nella letteratura (lezioni)


Ulisse nella letteratura italiana (e altrove)



La tradizione

1) Omero nell’introduzione dell’Odissea, laddove invoca la Musa, chiama Ulisse polìtropos, ovvero “dal multiforme ingegno” e dice che nel suo viaggio di ritorno da Troia “vide molte città e di molti uomini conobbe il noon, il pensiero, l’indole, la mente”. Qui c’è già il doppio aspetto del carattere di Ulisse, giacchè da una parte, con il riferimento alla versatilità dell’ingegno, si allude alla sua astuzia, dall’altra, con il riferimento al suo peregrinare di gente in gente, si allude al suo desiderio di conoscenza.

2) E’ dunque una fama doppia quella che caratterizza il personaggio di Ulisse sin dalle origini; ed è  una doppiezza che ritorna nella tradizione, a cominciare dagli autori latini. Infatti Virgilio nell’Eneide lo chiama scelerum inventor, cioè inventore di scelleratezze, di inganni, ma anche fandi fictor, che significa creatore, inventore di discorsi, falsificatore di parole, intendendo sempre inventore di inganni tramite parole. Anche Ovidio, nel libro XIII delle Metamorfosi, laddove si riporta la contesa per ereditare le armi di Achille fra Aiace ed Ulisse (contesa vinta da quest’ultimo grazie all’uso astuto dell’abilità di parola), lo chiama hortator scelerum, istigatore di scelleratezze.

 3) Invece Cicerone, Orazio, Seneca ne parlano come di un uomo bramoso, sopra ogni cosa, di conoscenza. Così dice di lui Orazio, nella seconda epistola del I libro (vv. 17-22):

Si propone, come utile esempio di ciò che possono virtú e saggezza (quid virtus et quid sapientia possit), Ulisse, che dopo aver vinto Troia, si preoccupò di conoscere le città e i costumi di molte genti (multorum providus urbes, et mores hominum inspexit) , mentre sull'ampia distesa del mare, cercando il ritorno per sé e per i suoi, soffrì travagli d'ogni genere, senza lasciarsi mai sommergere dai marosi dell'avversa fortuna.

E Seneca, in un passo del De constantia sapientis (II, 2), in cui vuole elogiare la superiore saggezza di Catone l’Uticense, ricorda che nei tempi antichi altrettanto saggio era ritenuto Ulisse:

(…) quanto a Catone, gli dei immortali ci hanno dato un esempio di uomo sapiente ancora più alto di quello che ci avevano dato con Ercole e Ulisse nei secoli precedenti. Questi ultimi infatti vennero dichiarati sapienti dai nostri (maestri) stoici, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del piacere e vincitori di tutte le paure (sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum).

Infine Cicerone, in un passo del De finibus bonorum et malorum (V, 18), laddove sostiene che il desiderio di conoscere è proprio dell’uomo e che chi ama la conoscenza è disposto per lei ad ogni sacrificio, interpreta in questo senso l’episodio dell’Odissea in cui si narra del passaggio di Ulisse presso l’isola delle Sirene:

Non vediamo forse che chi si diletta degli studi e delle arti non tiene conto né della salute né degli interessi familiari e tutto sopporta, preso dalla conoscenza e dal sapere, e trova un compenso delle grandissime fatiche nel piacere che prova nell’imparare? Tanto che a me sembra che Omero abbia concepito qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti delle Sirene. Non mi sembra infatti che fossero solite attirare coloro che passavano con la dolcezza della voce o con la novità e la bellezza del canto, ma perché dichiaravano di sapere molte cose, così che gli uomini andavano a sbattere contro i loro scogli per bramosia di sapere. Così infatti attirano Ulisse (…) Omero capì che la storia non poteva essere creduta se un uomo tanto grande fosse stato attirato con delle canzonette; è la conoscenza che (le Sirene) promettono, e non è incredibile che questa fosse più cara della patria per un uomo bramoso di sapienza (cupido sapientiae).

Dante

4) E’ questa doppiezza della tradizione che arriva a Dante: Ulisse è sia scelerum inventor (e fandi fictor) sia cupidus sapientiae, e di questa doppiezza il canto XXVI dell’Inferno rende testimonianza. Come “scelerum inventor” Ulisse è dannato nella bolgia dei consiglieri frodolenti (è detto esplicitamente da Virgilio, laddove indica le colpe per cui Ulisse e Diomede “insieme vanno”: l’agguato del cavallo, l’inganno a Deidamia, il furto del Palladio). Ed è un peccato per il quale Dante si sente particolarmente coinvolto, visto che, al solo ricordo della bolgia, sente il bisogno di ammonire se stesso (vv. 19-24). E’ un peccato che ha a che fare non solo con l’intelligenza (questo vale per tutte le bolge), ma particolarmente con l’uso frodolento della parola, dunque con l’uso distorto di una capacità altamente umana, quella di parlare, di cui un letterato come Dante più di altri dispone: che di questo si tratti non mi pare dubbio, visto che un aspetto del contrappasso consiste proprio nella difficoltà ad articolare parole (come è evidente qui, ma ancora di più nel canto successivo, con Guido da Montefeltro):


Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse
: «Quando
mi diparti’ da Circe…


5) Sono tutte espressioni che indicano la fatica di parlare, di emettere la voce. Piccola parentesi: Dante non aveva letto l’Odissea, e forse nemmeno dei riassunti, tant’è che – forse sulla scorta di ciò che dice Ovidio in un passo delle Metamorfosi (XIV, 436 ss.) –  immagina che Ulisse parta per il suo viaggio fatale dopo il soggiorno presso Circe, mentre noi sappiamo che nella narrazione omerica dopo quell’episodio seguono altre avventure fino al ritorno ad Itaca. Ma torniamo al testo di Dante. Il racconto di Ulisse sulla propria morte, non ha a che fare con il peccato per cui è dannato (a meno che non si voglia vedere nell’ “orazion picciola” il consiglio frodolento, cosa davvero difficile visto che si fa appello a valori nobilissimi, quali la superiorità dell’uomo sui bruti e l’aspirazione alla conoscenza):


"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".


6) E’ invece la narrazione di una vicenda che si conclude tragicamente perché l’umanissimo desiderio di conoscere del pagano Ulisse non è sostenuto dalla grazia divina. Per questo suo desiderio di conoscere (l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore) Ulisse era esaltato dalla tradizione classica (si veda come lo rappresentano gli auctores sopra citati). E così Dante lo recepisce. Ma il cristiano Dante sa anche che senza l’aiuto della grazia la conoscenza non può giungere alla verità. Per questo il “volo” di Ulisse è “folle”, e la follia in Dante (si veda il canto II: “temo che la venuta non sia folle”) indica appunto la presunzione dell’intelletto di giungere alla verità con le sole sue forze, senza la Rivelazione, senza la grazia (se questo fosse stato possibile, “mestier non era parturir Maria”, dice Virgilio in Pg. III pensando con tristezza alla condizione di pagani dotati di grande intelligenza). Dunque quel viaggio verso una verità inconoscibile con le sole forze umane non può che fallire, la nave di Ulisse non può che naufragare in vista della montagna del Purgatorio.


7) L’alter ego di Ulisse è Dante stesso, che compie, come lui, un viaggio al di là delle capacità umane (e infatti aveva temuto che fosse “folle”); ma, diversamente dall’eroe omerico, Dante è sostenuto dalla grazia divina, lui potrà giungere alla spiaggia del Purgatorio (dove, non a caso, ricorderà ancora il fallimento del viaggio di Ulisse: non diversamente si deve intendere il riferimento di Pg. I, 130-132). 


Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.

Primo Levi

8) Facciamo un salto nel cuore del Novecento, perché ritroviamo l’Ulisse di Dante in Se questo è un uomo, il libro in cui Primo Levi racconta della sua deportazione e del suo internamento nel lager di Auschwitz. Il canto di Ulisse è il titolo di uno dei capitoli più belli e commoventi del libro. Primo Levi fa amicizia con un altro internato, Jean, il Pikolo (era chiamato così, dice Levi, chi aveva la carica di fattorino-scritturale, addetto a varie mansioni, fra cui quella di tenere la contabilità delle ore di lavoro); Jean parla francese e tedesco e vorrebbe imparare l’italiano e Primo si propone di cominciare a insegnarglielo durante il tragitto che fanno per andare a prendere e trasportare la marmitta con il rancio.

9) Gli viene in mente il canto di Ulisse, se lo ricorda a pezzi, spiega al Pikolo i versi che ricorda e si accorge lui stesso di scoprirne dei significati che, fuori da quella tragica condizione, gli erano sempre sfuggiti: dovevo venire al lager, dice, per capire meglio. “E misi me per l’alto mare aperto”; nel “mettere sé” c’è un’idea dello slanciarsi, più forte di un semplice dirigersi; e poi c’è il “mare aperto”, quello che ha per limite soltanto l’orizzonte. E quegli uomini, la cui umanità era annientata, si commuovevano ascoltando il monito di Ulisse: Fatti non foste per viver come bruti… Quel monito, il ricordo di essere uomini e non bestie, li aiuta a sopravvivere:
… Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto. (…. ) Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica 
cominciò a crollarsi mormorando, 
pur come quella cui vento affatica. 
Indi, la cima in qua e in là menando 
come fosse la lingua che parlasse 
mise fuori la voce, e disse: Quando…

Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica». E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sì Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile; «… la piéta Del vecchio padre, né ’l debito amore Che doveva Penelope far lieta…» sarà poi esatto?

… Ma misi me per l’alto mare aperto.

Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. […] «Mare aperto», «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «… quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena fermarcisi:

Acciò che l’uom più oltre non si metta.

«Si metta»: dovevo venire nel Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:

Considerate la vostra semenza: 
fatti non foste a viver come bruti, 
ma per seguir virtute e conoscenza.

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.

Li miei compagni fec’io si acuti...

...e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuoi dire questo «acuti». Qui ancora  una lacuna, questa volta irreparabile. «... Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima?... Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine (..). 

Quando mi apparve una montagna, bruna 
Per la distanza, e parvemi alta tanto 
Che mai veduta non ne avevo alcuna.

Sì, sì, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano.. le montagne... oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!

Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.

Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «...la terra lagrimosa diede vento ...» no, è un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque, 
Alla quarta levar la poppa in suso 
E la prora ire in giù, come altrui piacque...

Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui...

Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rüben? – Kraut und Rüben –. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: – Choux et navets. – Káposzta és répak.

Infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso.

Foscolo

10) Facciamo un passo indietro, andiamo a Foscolo, autore nel quale ritorna la figura di Ulisse nella sua doppiezza. Tutti ricordiamo A Zacinto di Foscolo. Lì l’eroe greco è definito bello di fama e di sventura. E’ diventato un eroe romantico, cui il poeta si sente simile, e che è reso “bello” dalla “sventura”, dalla sofferenza. Il dolore è un segno di nobiltà, è privilegio di animi non mediocri (“soffri e sii grande!” dice Anfrido ad Adelchi, nella tragedia manzoniana). Di questo privilegio-maledizione Ulisse è il simbolo, e Foscolo se ne serve per mostrarci che lui è ancora più “bello”, se non di “fama”, certamente di “sventura”, visto che, a differenza dell’eroe omerico che alla fine riesce a baciare “la sua petrosa Itaca”, per lui la sofferenza dell’esilio non avrà termine (“a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura”).

11) Ma nell’opera di Foscolo c’è un’altra rappresentazione di Ulisse: nei Sepolcri Ulisse viene contrapposto come itaco astuto al magnanimo Aiace; è colui che con l’astuzia è riuscito a farsi assegnare le armi di Achille, che invece, per valore guerriero, sarebbero spettate ad Aiace. Costui impazzisce e si uccide, ma “a’ generosi / giusta di glorie dispensiera è morte”, e dunque, per volontà degli dei, Ulisse farà naufragio e il mare riporterà sul sepolcro di Aiace (“alle prode Retèe”, sul promontorio Retèo, vicino a Troia) le armi ingiustamente sottrattegli. Così dice il poeta, rivolgendosi ad Ippolito Pindemonte, il dedicatario del carme:

Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
Oltre l’isole Egée, d’antichi fatti
Certo udisti suonar dell’Ellesponto
I liti, e la marea mugghiar portando
Alle prode Retèe l’armi d’Achille
Sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
Giusta di glorie dispensiera è morte:
Nè senno astuto, nè favor di regi
All’Itaco le spoglie ardue serbava,
Chè alla poppa raminga le ritolse
L’onda incitata dagl’inferni Dei.

Sembra qui ritornare lo scelerum inventor, che si contrappone all’altro Ulisse, quello che, per amore di conoscenza, è disposto ad affrontare ogni sacrificio.

Leopardi e Manzoni

12) Per restare ai grandi dell’Ottocento, è interessante il pensiero di Leopardi. Leopardi, pur essendo affascinato da Cristoforo Colombo (e Colombo era stato indicato da Tasso, nella Liberata, come colui che aveva portato a compimento l’impresa di Ulisse), non amava l’Ulisse omerico, lo riteneva non “amabile”, anzi, per certi versi “odioso”, non amava le sue qualità, la “saviezza” e la “pazienza”; diceva di lui nello Zibaldone (p. 3602):

Or dunque volgendoci a' poemi epici veggiamo nell'Odissea che Ulisse, molto stimabile, in molte parti ammirabile e straordinario, in nessuna amabile, benchè sventurato per quasi tutto il poema, niente interessa. Ei non è giovane, anzi n'è ben lontano, benchè Omero si sforza di farlo apparire ancor giovane e bello per grazia speciale degli Dei, di Minerva ec. o per una meraviglia (che niente ci persuade perchè inverisimile), piuttosto che per natura, anzi contro natura. Ma il lettore segue la natura, malgrado del poeta e Ulisse non gli pare nè giovane nè bello. Le qualità nelle quali Ulisse eccede, sono in gran parte altrettanto forse odiose quanto stimabili. La pazienza non è odiosa, ma tanto è lungi da essere amabile, che anzi l'impazienza si è amabile….(e poi in nota) La pazienza è di tutte le virtù forse la più odiosa o la meno amabile, e ciò massimamente doveva essere presso gli antichi, e presso noi ancora, quando la consideriamo in personaggi e circostanze antiche, come in Ulisse.

E nei Pensieri (LXXIV):

Achille è perfettamente amabile; laddove la bontà di Enea e di Goffredo, e la saviezza di questi medesimi e di Ulisse, generano quasi odio.

13) Quanto a Manzoni, il discorso è diverso. Manzoni non nomina Ulisse nella sua opera, ma la vicenda vissuta da Renzo nei Promessi sposi sembra ripetere la struttura dell’Odissea. E’ stato Raimondi a mostrare come, essendo l’Iliade e l’Odissea i due archetipi fondamentali per tutto il romanzo occidentale, i Promessi sposi siano riconducibili al poema di Ulisse: è Renzo che, come succede ad Ulisse, compie un percorso (che è un viaggio lontano dalla “patria”, ricco di peripezie e di ostacoli da superare), al termine del quale tornerà a casa vincitore e con una coscienza superiore (è un cercatore di giustizia, e alla fine apprende che la più alta forma di giustizia risiede nel perdono, come gli ha insegnato fra Cristoforo al lazzaretto). Esemplare l’episodio narrato nel cap. XVI, quando Renzo, in fuga verso l’Adda, si ferma all’osteria di Gorgonzola. Lì giunge anche un mercante che narra agli avventori che lo ascoltano a bocca aperta le grandi vicende (le agitazioni per il pane) che stanno succedendo a Milano; e narra anche di quel caporione venuto da fuori, che era stato arrestato ma che era riuscito a fuggire. Anche Renzo ascolta, ben sapendo che si sta parlando di lui. La situazione ricorda quella di Ulisse, quando, ancora sconosciuto, è ospite presso la reggia di Alcinoo; e lì, in mezzo ai Feaci, ascolta il cantore Demodoco che narra le vicende della guerra di Troia e, fra gli eroi, esalta l’astuto Ulisse, che ha ideato l’inganno del cavallo.  

Pascoli

14) Facciamo un altro salto. Ritroviamo la figura di Ulisse in ben tre testi della produzione di Pascoli. Tre testi di grande suggestione, nei quali Pascoli rievoca l’eroe omerico allo scopo di dare corpo alle proprie, personali inquietudini. L’Ulisse di Pascoli non è né uno scelerum inventor né un eroe della conoscenza, è un vecchio che rievoca con nostalgia le gloriose avventure della sua giovinezza e si interroga sul senso di quelle avventure, che è poi il senso della sua vita.

15) Il ritorno (da Odi e inni). Ulisse, accompagnato dai Feaci, sbarca ad Itaca. Dorme, viene depositato sulla spiaggia insieme a tutti i suoi beni e i Feaci ripartono. Quando l’eroe si sveglia, crede di essere stato ingannato, perché non riconosce in quella terra aspra e rocciosa la sua Itaca, l’isola dei suoi ricordi, della fonte Aretusa, dell’antro delle ninfe, degli alberi fioriti. E’ una fanciulla che viene alla fonte per lavare le vesti a rivelargli che quella è proprio Itaca, e lo invita a guardare la trasparenza dell’acqua per riconoscere che quella è proprio la fonte Aretusa. Ulisse guarda, si specchia nella fonte, vede se stesso vecchio e rugoso, stenta a riconoscersi. Con amarezza capisce che non è l’isola ad essere cambiata, ma lui stesso (“Io era, io era mutato! / Tu, patria, sei come a quei giorni! / Io, sì, mio soave passato, / ritorno, ma tu non ritorni…/”). La gloria e la bellezza sono nel ricordo, non esistono più; il presente è la triste banalità del quotidiano. Nel finale, il coro delle ninfe lo invita a mordere il fiore del loto: solo così troverà la serenità e potrà rivedere, in sogno, le vicende irrevocabili del passato:
Al fonte arguto s’appressò l’eroe,

e vide sè nel puro fior dell’acque.

Arida vide la sua cute, vide

grigi i capelli, e pieni d’ombra gli occhi;

e la fronte solcata era di rughe,

curvo il dosso, nè più molli le membra.

Vide; e rivide ciò che più non era:

sè biondo e snello, coi grandi occhi aperti.

Rivide nella stessa onda, e compianse,

la sua lontana fanciullezza estinta.

(….) il reduce Odisseo

tutto conobbe, poi che sè conobbe;

ed alla patria protendea le braccia:


OD.              Io era, io era mutato!

Tu, patria, sei come a quei giorni!

Io sì, mio soave passato,

ritorno; ma tu non ritorni...

(….)

E le ninfe divine, anime verdi

d’alberi, cristalline anime d’acque,

avean pietà del vecchio eroe, che pianse

quando non vide, e pianse quando vide.


CORO    Coi vecchi nostri canti che sai,

               voci di cose piccole e care,

               t’addormiremo, vecchio; e potrai

                                                  ricominciare.

               E quando il mare, nella tua sera,

               mesto nell’ombra manda il suo grido,

               sciogliere ancora potrai la nera

                                                  nave dal lido.

               Vedrai le terre de’ tuoi ricordi,

               del tuo patire dolce e remoto:

               là resta, e il molto dolce là mordi

                                                  fiore del loto.

               Sarai qui presso. Rotto il tuo remo

               sopra il tuo capo stanco sarà.

               Sul tuo sepolcro noi canteremo

               la tua lontana felicità.


16) L’ultimo viaggio (dai Poemi conviviali) è un poema, composto da 24 sezioni, che già nel numero vuole ripetere la struttura in 24 canti dell’Odissea. Il vecchio Ulisse ha seguito i dettami della profezia di Tiresia (con un remo sulla spalla, giungerai presso uomini che non conoscono mare, né navi, né cibi conditi col sale; lì, un altro viandante scambierà il tuo remo per un ventilabro, quindi pianterai a terra il remo e offrirai sacrifici a Poseidone) è tornato ad Itaca dove, sempre secondo la profezia, lo attende in vecchiezza, serenamente, circondato da popoli ricchi, “la morte che viene dal mare” (thanatos ex halòs: qualcuno traduce “fuori dal mare”, interpretando diversamente il senso della profezia). Ma Ulisse è stanco di quella vita inerte, vuole riprendere il mare insieme ai vecchi compagni (che lo hanno sempre aspettato, tenendo pronta la nave), al pitocco Iro e all’aedo Femio; non vuole partire – come l’Ulisse di Dante – per conoscere nuove genti e nuovi mondi, vuole rivedere i luoghi indimenticabili del passato, rivivere le proprie avventure, accompagnato dal canto eternatore dell’aedo. Vuole ripercorrere i luoghi del suo viaggio, non tanto per divenire “del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”, come dice Dante, ma per conoscere se stesso: vuole capire ciò che non ha capito, vuole capire il senso della vita. Ma ciò che la prima volta era sembrato grande ed eroico si rivela ora banale e quotidiano (o meglio: demitizzato da una spiegazione naturalistica). All’isola di Circe non si sentono i leoni che ruggiscono, né si sente il canto della maga, se non di notte, come in sogno; di giorno, si sentono “ruggir le quercie / a qualche rara raffica, e cantare / lontan lontano eternamente il mare”. L’aedo muore, e la sua cetra resta appesa a un albero. All’isola di Polifemo non ci sono ciclopi, ma, in quello che fu l’antro del gigante, solo un pastore che li accoglie ospitale; dice di non avere mai visto ciclopi, ma bensì l’occhio rosso di un monte (un vulcano) che faceva piovere (eruttava) pietre nel mare. All’isola delle Sirene, dove l’eroe vorrebbe ora sentire quel canto senza essere legato da funi all’albero maestro, dove vorrebbe ottenere quella conoscenza che esse promettono, non vede altro che scogli, dall’aspetto di sirene, verso cui una corrente “rapida e soave” trascina la nave. Ulisse vorrebbe la conoscenza, una conoscenza che dia significato alle peripezie della sua vita (“Son io! Son io, che torno per sapere!”), vuole la conoscenza di se stesso, anche a costo di aggiungere le sue alle altre ossa che biancheggiano sugli scogli (“Solo mi resta un attimo. Vi prego! / Ditemi almeno chi son io! Chi ero!”). E sugli scogli si sfascia la sua nave:
Ed il prato fiorito era nel mare,

nel mare liscio come un cielo; e il canto

non risonava delle due Sirene,

ancora, perché il prato era lontano.

E il vecchio Eroe sentì che una sommessa

forza, corrente sotto il mare calmo,

spingea la nave verso le Sirene;

e disse agli altri d’inalzare i remi:

     La nave corre ora da sé, compagni!

Non turbi il rombo del remeggio i canti

delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto

placidi udite, il braccio su lo scalmo.

     E la corrente tacita e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

(…)

     E il vecchio vide che le due Sirene,

le ciglia alzate su le due pupille,

avanti sé miravano, nel sole

fisse, od in lui, nella sua nave nera.

E su la calma immobile del mare,

alta e sicura egli inalzò la voce.

     Son io! Son io, che torno per sapere!

Ché molto io vidi, come voi vedete

me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,

mi riguardò; mi domandò: Chi sono?

     E la corrente rapida e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

     E il Vecchio vide un grande mucchio d’ossa

d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,

presso le due Sirene, immobilmente

stese sul lido, simili a due scogli.

     Vedo. Sia pure. Questo duro ossame

cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!

Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,

prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!

     E la corrente rapida e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

     E s’ergean su la nave alte le fronti,

con gli occhi fissi, delle due Sirene.

     Solo mi resta un attimo. Vi prego!

Ditemi almeno chi sono io! chi ero!

     E tra i due scogli si spezzò la nave.

Ma le onde del mare lo trasportano fin sulla spiaggia dell’isola di Calypso, la Nasconditrice (tale è il significato del suo nome, dal greco kalýptein, nascondere). La dea (l’unica che dunque esiste veramente) ritrova morto l’uomo che rifiutò il suo amore e rifiutò l’immortalità che lei gli offriva, per ritornare al mare e al suo dolore:

E il mare azzurro che l’amò, più oltre

spinse Odisseo, per nove giorni e notti,

e lo sospinse all’isola lontana,

alla spelonca, cui fioriva all’orlo

carica d’uve la pampinea vite.

(…)

Ed ella che tessea dentro cantando,

presso la vampa d’olezzante cedro,

stupì, frastuono udendo nella selva,

e in cuore disse: Ahimè, ch’udii la voce

delle cornacchie e il rifiatar dei gufi!

(…)

In odio hanno gli dei la solitaria

Nasconditrice. E ben lo so, da quando

l’uomo che amavo, rimandai sul mare

al suo dolore. O che vedete, o gufi

dagli occhi tondi, e garrule cornacchie?

     Ed ecco usciva con la spola in mano,

d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori

del mare, al piè della spelonca, un uomo,

sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco

capo accennava di saper quell’antro,

tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio

pendea con lunghi grappoli dell’uve.

     Era Odisseo: lo riportava il mare

alla sua dea: lo riportava morto

alla Nasconditrice solitaria,

all’isola deserta che frondeggia

nell’ombelico dell’eterno mare.

Nudo tornava chi rigò di pianto

le vesti eterne che la dea gli dava;

bianco e tremante nella morte ancora,

chi l’immortale gioventù non volle.

     Ed ella avvolse l’uomo nella nube

dei suoi capelli; ed ululò sul flutto

sterile, dove non l’udia nessuno:

Non esser mai! non esser mai! più nulla,

ma meno morte, che non esser più!

Ed è lei, Calypso, che svela l’attesa verità: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, / ma meno morte, che non esser più!”; il segreto è il non essere mai nato; questo, rispetto alla morte, al “non esser più”, è un nulla maggiore, un “più nulla”, ma meno doloroso della morte, “meno morte”, in quanto esclude l’attraversamento della vita, l’esperienza del dolore e, soprattutto, la coscienza del nulla da cui si emerge e in cui si precipita). E dunque il vecchio Ulisse è come un Don Chisciotte cui Sancho Panza mostra l’inconsistenza dei suoi sogni: non sirene, ma scogli, non il ciclope, ma un vulcano (non i giganti, ma i mulini a vento). La vita eroica è pura illusione, esiste nel canto degli aedi, nel sogno, nel ricordo (nei romanzi di cavalleria, per Don Chisciotte); nella vita reale esiste la banalità del quotidiano, incapace di riempire di senso la vita. Ma d’altra parte non c’è altro senso che quello rivelato da Calypso, ed è la terribile verità della sapienza silenica.


17) Il sonno di Odisseo (dai Poemi conviviali). Partendo del testo omerico (Odissea, X, 28-55) che racconta in pochi versi del momento in cui, dopo nove giorni di navigazione, i compagni di Ulisse, invidiosi delle ricchezze che presumono che lui stia portando ad Itaca, aprono gli otri in cui Eolo aveva benevolmente rinchiusi i venti contrari alla navigazione, Pascoli costruisce un poemetto (sette strofe) carico di significati allusivi ed inquietanti (come è proprio della sua sensibilità). E’ un componimento particolarmente elaborato, sia per l’uso insistito di espressioni omeriche (la nera nave, l’eccelsa casa, l’asta dalla bronzea punta, ecc.), sia per la struttura perfettamente circolare, segnalata dai versi finali delle strofe e da una fitta rete di richiami, parallelismi, simmetrie.  Ulisse vede all’orizzonte “non sapea che nero: nuvola o terra?”, ma sfinito si addormenta. Le strofe che seguono descrivono l’avvicinarsi della nave all’isola e, come in una ripresa cinematografica, il comparire del porcaro Eumeo intento al suo lavoro, dell’ “eccelsa casa” di Ulisse (da cui si sente provenire il suono del “garrulo telaio” di Penelope), di Telemaco che aspetta nel porto appoggiato alla lancia “dalla bronzea punta”, del cane Argo che corre scodinzolando, di Laerte che interrompe il lavoro dei campi per guardare “l’infinito mare” appoggiato alla marra. Ma poi gli otri vengono aperti, la nave è trascinata lontano, Odisseo si sveglia e vede ancora quel “non sapea che nero”: 
I
Per nove giorni, e notte e dì, la nave

nera filò, ché la portava il vento

e il timoniere, e ne reggeva accorta

la grande mano d’Odisseo le scotte;

né, lasso, ad altri le cedea, ché verso

la cara patria lo portava il vento.

Per nove giorni, e notte e dì, la nera

nave filò, né l’occhio mai distolse

l’eroe, cercando l’isola rupestre

tra il cilestrino tremolìo del mare;

pago se prima di morir vedesse

balzarne in aria i vortici del fumo.

Nel decimo, là dove era vanito

il nono sole in un barbaglio d’oro,

ora gli apparse non sapea che nero:

nuvola o terra? E gli balenò vinto

dall’alba dolce il grave occhio: e lontano

s’immerse il cuore d’Odisseo nel sonno.

II

     E venne incontro al volo della nave,

ecco, una terra, e veleggiava azzurra

tra il cilestrino tremolìo del mare;

e con un monte ella prendea del cielo,

e giù dal monte spumeggiando i botri (scoscesi fossati)

scendean tra i ciuffi dell’irsute stipe; (sterpi spinosi)

e ne’ suoi poggi apparvero i filari

lunghi di viti, ed a’ suoi piedi i campi

vellosi della nuova erba del grano:

e tutta apparve un’isola rupestre,

dura, non buona a pascere polledri,

ma sì di capre e sì di buoi nutrice:

e qua e là sopra gli aerei picchi

morian nel chiaro dell’aurora i fuochi

de’ mandrïani; e qua e là sbalzava

il mattutino vortice del fumo,

d’Itaca, alfine: ma non già lo vide

notando il cuore d’Odisseo nel sonno.

III

     Ed ecco a prua dell’incavata nave

volar parole, simili ad uccelli,

con fuggevoli sibili. La nave

radeva allora il picco alto del Corvo

e il ben cerchiato fonte; e se n’udiva

un grufolare fragile di verri;

ed ampio un chiuso si scorgea, di grandi

massi ricinto ed assiepato intorno

di salvatico pero e di prunalbo;

ed il divino mandrïan dei verri,

presso la spiaggia, della nera scorza

spogliava con l’aguzza ascia un querciolo

e grandi pali a rinforzare il chiuso

poi ne tagliò coi morsi aspri dell’ascia;

e sì e no tra lo sciacquìo dell’onde

giungeva al mare il roco ansar dei colpi,

d’Eumeo fedele: ma non già li udiva

tuffato il cuore d’Odisseo nel sonno.

IV

     E già da prua, sopra la nave, a poppa,

simili a freccie, andavano parole

con fuggevoli fremiti. La nave

era di faccia al porto di Forkyne;

e in capo ad esso si vedea l’olivo,

grande, fronzuto, e presso quello un antro:

l’antro d’affaccendate api sonoro,

quando in crateri ed anfore di pietra

filano la soave opra del miele:

e si scorgeva la sassosa strada

della città: si distinguea, tra il verde

d’acquosi ontani, la fontana bianca

e l’ara bianca, ed una eccelsa casa:

l’eccelsa casa d’Odisseo: già forse

stridea la spola fra la trama, e sotto

le stanche dita ricrescea la tela,

ampia, immortale... Oh! non udì né vide

perduto il cuore d’Odisseo nel sonno.

V

     E su la nave, nell’entrare il porto,

il peggio vinse: sciolsero i compagni

gli otri, e la furia ne fischiò dei venti:

la vela si svoltò, si sbatté, come

peplo, cui donna abbandonò disteso

ad inasprire sopra aereo picco:

ecco, e la nave lontanò dal porto;

e un giovinetto stava già nel porto,

poggiato all’asta dalla bronzea punta:

e il giovinetto sotto il glauco olivo

stava pensoso; ed un veloce cane

correva intorno a lui scodinzolando:

e il cane dalle volte irrequïete

sostò, con gli occhi all’infinito mare;

e com’ebbe le salse orme fiutate,

ululò dietro la fuggente nave:

Argo, il suo cane: ma non già l’udiva

tuffato il cuore d’Odisseo nel sonno.

VI

     E la nave radeva ora una punta

d’Itaca scabra. E tra due poggi un campo

era, ben culto; il campo di Laerte;

del vecchio re; col fertile pometo;

coi peri e meli che Laerte aveva

donati al figlio tuttavia fanciullo;

ché lo seguiva per la vigna, e questo

chiedeva degli snelli alberi e quello:

tredici peri e dieci meli in fila

stavano, bianchi della lor fiorita:

all’ombra d’uno, all’ombra del più bianco,

era un vecchio, poggiato su la marra:

il vecchio, volto all’infinito mare

dove mugghiava il subito tumulto,

limando ai faticati occhi la luce,

riguardò dietro la fuggente nave:

era suo padre: ma non già lo vide

notando il cuore d’Odisseo nel sonno.

VII

     Ed i venti portarono la nave

nera più lungi. E subito aprì gli occhi

l’eroe, rapidi aprì gli occhi a vedere

sbalzar dalla sognata Itaca il fumo;

e scoprir forse il fido Eumeo nel chiuso

ben cinto, e forse il padre suo nel campo

ben culto: il padre che sopra la marra

appoggiato guardasse la sua nave;

e forse il figlio che poggiato all’asta

la sua nave guardasse: e lo seguiva,

certo, e intorno correa scodinzolando

Argo, il suo cane; e forse la sua casa,

la dolce casa ove la fida moglie

già percorreva il garrulo telaio:

guardò: ma vide non sapea che nero

fuggire per il violaceo mare,

nuvola o terra? e dileguar lontano,

emerso il cuore d’Odisseo dal sonno.

Non sappiamo se tutto ciò che è stato descritto sia apparso realmente mentre Ulisse dormiva, o si sia trattato di un sogno: le formule verbali o avverbiali che introducono le apparizioni sono volutamente ambigue (“e venne incontro”, “apparve”, “ed ecco”, ecc.). Ma l’ipotesi del sogno sembra più convincente: le immagini appaiono in una loro fissità a-temporale (come è proprio del ricordo e del sogno) e il preciso parallelismo fra il momento dell’addormentamento e quello del risveglio fanno pensare che l’unica cosa reale che Ulisse vede sia quel “non sapea che nero (allusione al male, alla morte?) e che tutto ciò che sta nel mezzo sia la visione sognata (espressione di un desiderio che mai si realizza, sempre sfugge?), come sembra testimoniare l’uso ripetuto del “forse” nell’ultima strofa.

D’Annunzio

18) La demitizzazione dell’eroe, che abbiamo visto soprattutto ne L’ultimo viaggio, è probabilmente anche una risposta alla esaltata idealizzazione che ne aveva fatto D’Annunzio in Maia, il primo libro delle Laudi, un paio d’anni prima (1903). La idealizzazione romantica dell’eroe, che abbiamo visto in A Zacinto, diventa in Maia di D’Annunzio raffigurazione del super-uomo (strumento dunque per dare corpo a quell’ideologia a lui così cara). Il poeta, mentre naviga nel mar Jonio con i suoi compagni, immagina di incrociare la rotta di Ulisse che affronta il mare da solo, come si addice a chi si è innalzato al di sopra della mediocrità e in questa altezza non può avere compagni. Il poeta e i suoi amici lo chiamano, pregandolo di prenderli con sé; Ulisse nemmeno volge il capo verso di loro, ma quando è il poeta da solo a invocarlo (“Tra costoro io sono il più forte! / Mettimi a prova!”), lo folgora con lo sguardo (“e il folgore degli occhi suoi / mi ferì per mezzo alla fronte”), quindi prosegue nella sua rotta. Ma quello sguardo basta perché il poeta si senta eletto e da quel momento i suoi compagni sentano il peso della sua volontà di potenza.

Incontrammo colui

che i Latini chiamano Ulisse,

nelle acque di Leucade, sotto

le rogge (color ruggine) e bianche rupi

che incombono al gorgo vorace,

presso l'isola macra (arida, pietrosa)

come corpo di rudi

ossa incrollabili estrutto

e sol d'argentea cintura

precinto. Lui vedemmo

su la nave incavata. E reggeva

ei nel pugno la scotta (cima che consente di orientare la vela)

spiando i volubili vènti,

silenzioso; e il pìleo (copricapo a forma conica, con la punta tondeggiante)

tèstile dei marinai

coprivagli il capo canuto,

la tunica breve il ginocchio

ferreo, la palpebra alquanto

l'occhio aguzzo; e vigile in ogni

muscolo era l'infaticata

possa del magnanimo cuore.

(…)

«O Laertiade» gridammo,

e il cuor ci balzava nel petto

come ai Coribanti dell'Ida

per una virtù furibonda

e il fegato acerrimo ardeva

«o Re degli Uomini, eversore

di mura, piloto di tutte

le sirti, ove navighi? A quali

meravigliosi perigli

conduci il legno tuo nero?

Liberi uomini siamo

e come tu la tua scotta

noi la vita nostra nel pugno

tegnamo, pronti a lasciarla

in bando o a tenderla ancóra.

Ma, se un re volessimo avere,

te solo vorremmo

per re, te che sai mille vie.

Prendici nella tua nave

tuoi fedeli insino alla morte!»

Non pur degnò volgere il capo.

Come a schiamazzo di vani

fanciulli, non volse egli il capo

canuto; e l'aletta vermiglia

del pìleo gli palpitava

al vento su l'arida gota

che il tempo e il dolore

solcato aveano di solchi

venerandi. «Odimi» io gridai

sul clamor dei cari compagni

«odimi, o Re di tempeste!

Tra costoro io sono il più forte.

Mettimi alla prova. E, se tendo

l'arco tuo grande,

qual tuo pari prendimi teco.

Ma, s'io nol tendo, ignudo

tu configgimi alla tua prua.»

Si volse egli men disdegnoso

a quel giovine orgoglio

chiarosonante nel vento;

e il fólgore degli occhi suoi

mi ferì per mezzo alla fronte.

Poi tese la scotta allo sforzo

del vento; e la vela regale

lontanar pel Ionio raggiante

guardammo in silenzio adunati.

Ma il cuor mio dai cari compagni

partito era per sempre;

ed eglino ergevano il capo

quasi dubitando che un giogo

fosse per scender su loro

intollerabile. E io tacqui

in disparte, e fui solo;

per sempre fui solo sul Mare.

E in me solo credetti.

Uomo, io non credetti ad altra

virtù se non a quella

inesorabile d'un cuore possente.

E a me solo fedele

io fui, al mio solo disegno.

Gozzano

19) Non stupirà di ritrovare in Gozzano il rovesciamento ironico di quella figura. Non stupirà, perché l’anti-eroico ed anti-dannunziano Gozzano, così come ha rivisitato in maniera ironica le immagini del super-uomo (Totò Merumeni è appunto un super-uomo fallito, un inetto che ha rinunciato ad ogni aspirazione eroica ed ora, appartato dal mondo, si consola con un “esile fiorita di versi consolatori”) e della donna fatale (La signorina Felicita, nella sua semplicità ed ignoranza campagnola è il rovescio della donna di lusso, della “intellettuale gemebonda”, che appartiene al mondo, reale e letterario, di D’Annunzio), così in un delizioso componimento (L’ipotesi, pubblicato fra le Poesie sparse, ma composto prima de La signorina Felicita) propone in chiave ironico-parodistica quell’Ulisse esaltato da D’Annunzio nei modi suddetti. Il poeta immagina di avere sposato la signorina Felicita, di avere avuto con lei una vita felice e di ritrovarsi, loro due ormai settantenni (“un giorno d’estate, nel mille e… novecento… quaranta”), a discutere con amici di vari argomenti; e siccome il discorso cade sul “Re di Tempeste” Odisseo, il poeta immagina di raccontarne la storia “ad uso della consorte ignorante”. Il racconto si risolve in una straordinaria dissacrazione della figura di Ulisse, che investe non solo D’Annunzio ma risale fino al canto di Dante (il testo è fitto di citazioni letterali delle espressioni dantesche): l’eroe omerico è infatti rappresentato come uno scapestrato, marito infedele, “che visse a bordo d’un yacht / toccando tra liete brigate / le spiagge più frequentate / dalle famose cocottes…”; decise poi di andare in America a cercar fortuna, ma sbagliò rotta e, invece di giungere in California o Perù, si trovò davanti il monte del Purgatorio, dove la nave fece naufragio “e Ulisse piombò nell’inferno dove ci resta tuttora”:

Il Re di Tempeste era un tale

che diede col vivere scempio

un bel deplorevole esempio

d’infedeltà maritale,

che visse a bordo d’un yacht

toccando tra liete brigate

le spiaggie più frequentate

dalle famose cocottes...

Già vecchio, rivolte le vele

al tetto un giorno lasciato,

fu accolto e fu perdonato

dalla consorte fedele...

Poteva trascorrere i suoi

ultimi giorni sereni,

contento degli ultimi beni

come si vive tra noi...

Ma né dolcezza di figlio,

né lagrime, né pietà

del padre, né il debito amore

per la sua dolce metà

gli spensero dentro l’ardore

della speranza chimerica

e volse coi tardi compagni

cercando fortuna in America...

- Non si può vivere senza

danari, molti danari...

Considerate, miei cari

compagni, la vostra semenza! -

Vïaggia vïaggia vïaggia

vïaggia nel folle volo

vedevano già scintillare

le stelle dell’altro polo...

vïaggia vïaggia vïaggia

vïaggia per l’alto mare:

si videro innanzi levare

un’alta montagna selvaggia...

Non era quel porto illusorio

la California o il Perù,

ma il monte del Purgatorio

che trasse la nave all’in giù.

E il mare sovra la prora

si fu rinchiuso in eterno.

E Ulisse piombò nell’Inferno

dove ci resta tuttora...

Saba

20) Nella poesia di Saba (Ulisse) è il poeta stesso che si identifica con Ulisse. Ricorda gli isolotti pericolosamente affioranti quando da ragazzo navigava lungo le coste dalmate: insidiosi, ma “al sole / belli come smeraldi”. Ora riconosce in quei luoghi l’autenticità della vita: “il porto / accende ad altri i suoi lumi”, ma per sé il poeta vuole ancora quella vita, l’unica degna di essere vissuta, quella che richiede “non domato spirito” e che si ama “con doloroso amore”:

Nella mia giovanezza ho navigato

lungo le coste dalmate . Isolotti

a fior d’onda emergevano, ove raro

un uccello sostava intento a prede

coperti d’alghe, scivolosi, al sole

belli come smeraldi. Quando l’alta

marea e la notte li annullava, vele

sottovento sbandavano più al largo,

per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno

 è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi; me al largo

sospinge ancora il non domato spirito,

e della vita il doloroso amore.


Joyce

21) Nel cuore del Novecento, la figura di Ulisse è rievocata dal capolavoro di Joyce. Il titolo annuncia che quella del protagonista del romanzo (Leopold Bloom) è una moderna Odissea, e infatti lo stesso autore aveva indicato (nel cosiddetto “schema Linati”: una lettera del 1920 al suo primo traduttore italiano) per i diversi capitoli riferimenti precisi ad episodi del poema omerico (Circe per l’episodio del bordello, Proteo per il monologo interiore di Stephen sulla spiaggia, Eolo per l’episodio di Leopold al giornale, ecc.). La vicenda ha come ambientazione non il Mediterraneo, ma la Dublino dei primi del Novecento e si svolge non nel tempo di dieci anni, ma di una giornata (precisamente, il 16 giugno del 1904); ha come protagonisti Leopold Bloom (di professione agente pubblicitario), Stephen Dedalus (un giovane insegnante, ribelle ed anticonformista, ossessionato dal ricordo della madre morta e della debolezza della figura paterna), Molly (la moglie infedele di Leopold, cantante lirica in declino). L’opera è strutturata in 18 capitoli, suddivisi in tre sezioni:

a.       la “telemachia” (i primi tre, con al centro Stephen, che in fondo è alla ricerca del padre di cui ha sempre sentito la mancanza),

b.      la vera e propria “odissea” (i dodici capitoli che seguono, con al centro Leopold e le sue peregrinazioni dublinesi: più volte incrocia Stephen, finchè lo incontra in un bordello),

c.       il “nòstos” (gli ultimi tre capitoli, che appunto riguardano il ritorno a casa: nel bordello Leopold soccorre Stephen dopo una rissa e se lo porta a casa; quindi Stephen se ne va, Bloom si addormenta e l’ultimo episodio è dedicato al celebre monologo interiore – vero e proprio flusso di coscienza, senza coesione sintattica e senza punteggiatura – in cui Molly, che non riesce a prendere sonno, rievoca il suo rapporto con il marito).

22) E dunque, in questi termini, l’Ulisse di Joyce sembra diventare una parodia dell’Ulisse omerico: di fatto, non c’è niente di più anti-eroico di quel personaggio, cui capitano quelle vicende (le vicende della banalità quotidiana, dove le battaglie diventano risse da bordello) e che ha in moglie una donna, sensuale e infedele, che può ricordare Penelope solo per opposizione. Eppure anche questa moderna Odissea si caratterizza per avere al centro l’esplorazione di un territorio nuovo: e sono i meandri della psiche, ma anche le tecniche narrative (i narratori e i tipi di focalizzazione sono molteplici: e la ricerca si spinge fino all’estremo di registrare i fatti psichici nella forma, sconnessa e frammentaria, dello stream of consciousness) e infine la lingua (utilizzata in tutte le sue possibilità espressive, dal drammatico, al satirico, all’osceno, ecc., in un straordinaria mescolanza).

Adorno-Horkheimer

23) Concludo ricordando l’interpretazione che Adorno-Horkheimer, in Dialettica dell’illuminismo, hanno dato dell’episodio dell’incontro con le Sirene. Il canto delle Sirene non è altro che il richiamo di un mondo diverso da quello esistente, il mondo della soddisfazione, che si oppone a quello del sacrificio e della rinuncia. Ma quel richiamo i marinai non lo possono sentire, a loro è ordinato di turarsi le orecchie con la cera: piegati sui remi, continuano a lavorare, sul loro lavoro si fondano i rapporti sociali esistenti, è bene che non sappiano che un mondo diverso è possibile. Il signore, Ulisse, può sentire quel canto, ma si è fatto legare all’albero maestro: può sentirne la bellezza e la promessa di felicità, ma non può abbandonarsi ad esso, perché vorrebbe dire perdere il proprio “sé”, annullare la propria identità faticosamente costruita in opposizione alla natura, perdersi nella comunione con il tutto. Quella interpretazione diventava dunque, per i pensatori di Francoforte, metafora della situazione in  cui si trova il mondo attuale: l’enorme sviluppo tecnologico che caratterizza la nostra società consentirebbe una vita libera, bella e giocosa per l’umanità (consentirebbe cioè il passaggio alla cosiddetta dimensione ludico-estetica), se non fosse che gli interessi costituiti, i detentori del potere reale, intendono conservare a proprio vantaggio la situazione esistente, basata sull’oppressione e sul dominio. Il canto delle Sirene indica quella dimensione liberata, ma noi, come i marinai di Ulisse, siamo incapaci di sentirlo; e chi lo sente, non vuole lasciarsene sedurre perché ha paura di quell’altra dimensione in cui non valgono più identità e rapporti esistenti, tutto si configura in modo radicalmente diverso (il modo, appunto, ludico-estetico).



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