ILLUMINISMO (schede)



Caratteri generali dell’illuminismo

 
“Il nostro secolo è particolarmente il secolo della ragione, alla quale tutto deve sottomettersi. La religione con l’allegare la sua santità, la legislazione con l’allegare la sua maestà, vogliono di solito sfuggirvi; ma allora esse eccitano contro di sé dei giusti sospetti e non possono pretendere quella giusta stima che la ragione accorda solo a ciò che ha potuto sostenere il suo libero e pubblico esame.” (Kant, Critica della ragion pura , 1781).


Illuminismo è quel movimento di cultura che si ripromette di illuminare il mondo con la luce della ragione; di mettere in discussione tutto ciò che è accettato per forza di autorità, antichità, fede. Ciò comporta fiducia nell’avvenire, bonificato dalla ragione.


Si tratta dell’ideologia di quella classe (la borghesia capitalista) che sta per travolgere il potere politico dell’aristocrazia e del clero. La sua patria è la Francia, anche se è evidente l’appartenenza ad una tradizione che va dalla “rivoluzione” scientifica di F. Bacone (1561-1626), Galilei (1564-1642), Newton (1642-1727) all’empirismo inglese di Locke (1632-1704), Berkeley (1685-1753), Hume (1711-1766).


Voltaire (1694-1778) polemizza contro la superstizione, l’intolleranza, l’arbitrio. Diderot (1713-1784) e D’Alembert (1717-1783), attraverso l’Enciclopedia, mettono in atto una colossale impresa di revisione critica di tutto lo scibile. Montesquieu (1689-1755) teorizza la divisione dei tre poteri, su cui si modelleranno gli Stati liberali. Rousseau (1712-1778) teorizza lo Stato come prodotto di contratto sociale e non di investitura divina[1].


I nuovi intellettuali (philosophes) sentono di appartenere, per mentalità, alla nuova classe borghese (anche se, per nascita, possono essere aristocratici), di dovere essere divulgatori della cultura (boom dell’editoria) e addirittura uomini di Stato. Insomma non sono più legati ad una corte (stipendiati da un principe), ma sono interpreti degli interessi di una classe (produttiva, progressiva). Non a caso, accanto al “filosofo”, l’ideale umano del secolo è il mercante, utile alla società, produttore e non parassita.


 





[1]La sua esaltazione dello "stato di natura" non è negazione della Ragione, ma riconoscimento che l'uomo ha subito, nel corso della storia, un processo di alienazione (nel mondo feudale-aristocratico) e che si tratta di "disalienarlo" attraverso una battaglia politica e culturale. Quindi, non sospiri e nostalgie romantiche per il passato, ma battaglia per trasformare il presente. Lo stesso si dica per il "sentimento", che in R. è veramente un fatto borghese e rivoluzionario, perché nega il modello umano dominante sin dal Rinascimento: quello del "cortegiano", autocontrollato, artificioso, innaturale.
 
 
L’illuminismo in Italia 

 
A. Asor Rosa, Storia della lett. Italiana,
La Nuova italia, 1985, pp. 342-351.

Nella seconda metà del sec. XVIII in Italia abbiamo un periodo di pace (la pace di Aquisgrana, del 1748, alla fine delle guerre di successione spagnola, polacca ed austriaca, ha determinato l’emarginazione della Spagna e l’inizio dell’egemonia austriaca) che favorisce l’azione riformatrice degli Asburgo in Lombardia, dei Borboni a Napoli e Parma, dei Lorena (Asburgo) in Toscana.[1]

Il movimento riformatore ha a che fare con una legislazione confusa (per quanto concerne i rapporti fra Stato e sudditi, fra potere centrale e poteri locali di feudatari, clero e corporazioni; per quanto riguarda i sistemi di accertamento della rendita e di tassazione) e quindi si promuovono razionalizzazioni in questo senso[2]; ci sono poi i privilegi ecclesiastici (manomorta, esenzione da tasse, monopolio dell’istruzione) e quindi si lotta per affermare l’autorità dello Stato sulla Chiesa (giurisdizionalismo) e sottrarre l’insegnamento ai gesuiti[3]; ci sono inoltre consistenti residui di potere feudale nelle campagne e un conseguente scarso sviluppo delle attività economico-produttive (quindi si promuovono bonifiche e ammodernamenti tecnologici).[4]

Gli intellettuali sono disponibili per quest’opera di riforme come funzionari statali. Sono, ancora (come sempre), gruppi piuttosto ristretti e provengono dalla aristocrazia (un’economia mercantile è in ritardo, e quindi manca la nuova classe; sono allora i settori avanzati dei vecchi ceti a cercare di razionalizzare le strutture, appoggiandosi al sovrano illuminato). Organizzati in Accademie (dei Pugni a Milano) si rivolgono sia al potere costituito sia all’opinione pubblica (ma le classi subalterne, vedi il Sud, sono analfabete) attraverso nuovi mezzi di comunicazione (il giornale-rivista con interessi polivalenti: vedi Il Caffè). Il ritardo della borghesia capitalista si avverte sia nel pensiero economico (che resta al di qua del mercantilismo, per una linea protezionista)[5] sia nel pensiero etico-politico[6]. Circa la letteratura, viene messo l’accento sulla sua natura civile ed utilitaria; ma c’è anche l’assimilazione del sensismo che pone la sensazione alla base del giudizio estetico: quindi si teorizza una forma piacevole unita ad un contenuto utile e vero[7]. Il pensiero giuridico ha il suo capolavoro in Dei delitti e delle pene  di C. Beccaria (1764).

 

 




[1]Restano fuori dal movimento di riforme Venezia, lo Stato dei Savoia, quello Pontificio, il ducato di Modena, le repubbliche di Genova e Lucca.
[2]Ad esempio, in Lombardia si redige il nuovo catasto di tutto lo Stato.
[3]La Compagnia di Gesù viene addirittura soppressa nel 1773.
[4]In Lombardia si creano le prime manifatture; ma nel meridione la feudalità latifondista resta dominante nelle campagne, con relativa arretratezza.
[5]P. Verri, Meditazioni sull'economia politica; F. Galiani, Trattato della moneta.
[6]Sia in Muratori che in P. Verri si ritrova una posizione di matrice cattolica, secondo cui il concetto di felicità, di bene privato, è subordinato a quello di bene pubblico (manca l'ideologia dell'individualismo-antagonismo borghesi).
[7]P. Verri, Pensieri sullo spirito della letteratura in Italia; C. Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile; G. Parini, Discorso sopra la poesia.
 
 
 
C. Beccaria                                    Dei delitti e delle pene (1764)
ed. U. E. 1950

 

A chi legge: “avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore”, compilate da Giustiniano dodici secoli fa, mischiate con riti longobardi e con oscuri commenti di interpreti, “scolo di secoli barbari”, sono tuttora in vigore (pp. 13-16).

Della tortura: evitando appelli al sentimento, si cerca di mostrare l’inutilità e illogicità della tortura: “il mezzo più sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti” (pp. 36-41); ma è illogica anche quando vi si fa ricorso come pena, perché la sofferenza del reo non consente certo di “disfare” un delitto già commesso (giacché la pena si deve ispirare a due principi: impedire che il reo commetta altri reati e distogliere i potenziali criminali dal commettere reati[1]).

Della pena di morte: non fondata in linea di diritto, perché nel contratto sociale[2] l’individuo rinuncia a una parte della sua libertà, ma non concede al sovrano (allo Stato) il diritto di uccidere[3]; inutile, in quanto non trattiene dal compimento di altri delitti; “parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino uno pubblico”; la pena non è espiazione (concezione religiosa), ma risarcimento o autodifesa della società attraverso l’isolamento del criminale (concezione utilitaristica della pena)[4]; del resto è proprio tale isolamento che ha efficacia deterrente (giacché è temuta non l’“intensione”, ma l’“estensione” della pena) (pp. 48-55).

Come si prevengono i delitti: “è meglio prevenire i delitti che punirli”; ci vogliono leggi giuste “che favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi”; bisogna “perfezionare l’educazione”, che è problema che riguarda la natura del governo (cioè, è problema politico) (pp. 93-98).

 

Rocco (guardasigilli nel governo Mussolini) relaziona alla Camera sulla legge 25-XI-1926, che introduce la pena di morte: il liberalismo, considerando l’individuo come fine e non come mezzo, non può accettare la pena di morte; ma per il fascismo il fine è lo Stato, cui l’individuo è subordinato: quindi, per tale fine, l’individuo può essere sacrificato; la pena di morte è fondata come è fondato il diritto dello Stato di chiedere ai cittadini di morire per la patria (il fondamento è la concezione etica dello Stato).

 




[1] “…Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile… Il fine dunque non è altro che d’impedire al reo dal far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali.”
[2]E’ l’idea che fonda la concezione laica dello Stato, la cui autorità quindi proviene dagli uomini e non da Dio: ma, mentre per Hobbes tale contratto mette fine ad uno stato di natura in cui ognuno è in guerra con tutti (e quindi la moltitudine cede al sovrano, legibus solutus, un potere assoluto), per Locke (in questo, vero interprete del giusnaturalismo, secondo cui il diritto di natura preesiste al e deve determinare il diritto positivo) gli individui, attraverso lo Stato (che quindi è inteso come puro strumento, secondo la concezione liberale), intendono tutelare i diritti inalienabili che ciascuno ha per natura (alla vita, libertà e proprietà) - e quindi non consentono con un potere assoluto.
[3]La morte è ammessa quando il criminale abbia "anche privo della libertà, tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione" ; e quando "fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti". Ma il 1° caso non esiste durante il "tranquillo regno delle leggi" (esiste se c'è anarchia); sul 2°, lo stesso B. adduce l'obiezione classica: non l'"intensione", ma l'"estensione" della pena ha effetto deterrente.
[4]Il concetto di pena come autodifesa (peraltro superato dal concetto di pena come rieducazione, ad es. nella nostra Costituzione) si fonda non sul classico principio della restitutio iuris (per cui punitur quia peccatum est ), ma su quello, appunto utilitaristico, per cui punitur ne peccetur.


Il Caffè come spazio della cultura illuminista
 

A. FONTANA, J.L. FOURNEL, Piazza, Corte, Salotto, Caffè,
in Letteratura italiana, vol. 5, Einaudi 1986, pp. 671-686.

 
Il periodico Il Caffè (esce ogni dieci giorni fra il 1764 e il 1766) ha come modello i periodici inglesi di Addison e Steele, The Spectator  e The Tatler  (il chiacchierone), e deve il suo nome al fatto che si presenta come punto di raccolta delle discussioni tenute presso il caffè gestito dal greco Demetrio.

Il caffè appare dunque come il nuovo luogo dove, in età illuminista, si produce cultura. Adempie a quella funzione che nel Medioevo era stata della piazza (sede di cerimonie religiose, cosiccome di attività politica ed economica), nel Rinascimento della corte (dove si elaborano i modelli ideali di quella società), nel primo Settecento del salotto (spazio chiuso, con al centro una figura femminile; nel salotto di Cristina di Svezia sorge l’Arcadia).

Il caffè (la caffetteria, il luogo dove si serve la bevanda, che arriva in Europa nella prima metà del Seicento dall’Arabia e dalla Turchia; ad essa vengono attribuite virtù salutari: favorisce la riflessione e la chiarezza di idee) è uno spazio aperto e pubblico (a differenza della corte e del salotto, spazi chiusi e privati), luogo di incontro e di discussione: quindi luogo privilegiato per gli intellettuali illuministi[1], che di tutti i problemi (sociali, politici, culturali) vogliono discutere e a un pubblico ampio, non specialistico, vogliono rivolgersi. Il caffè è una “manifattura dello spirito”[2], dove il sapere circola secondo la logica del “flusso e riflusso” (le idee scaturiscono dallo scambio di notizie, da un continuo movimento fra interno ed esterno, caffè e mondo); non è un archivio del sapere, al modo del sapere istituzionalizzato della corte e dell’Accademia, ma una fabbrica di opinioni (che si avvale della testimonianza diretta degli avventori) su ogni argomento di interesse sociale e culturale (e tale vuole essere la funzione delle gazzette e dei periodici).

  



[1]Montesquieu nelle Lettere persiane fa dire a Usbek (ipotetico viaggiatore persiano in Europa) che a Parigi c'è una bottega dove si prepara un caffè "che dà nello spirito a chi ne fa uso". Qualcosa di analogo dice Gaspare Gozzi nell'Osservatore veneto, e Goldoni dedicherà una delle sue più note commedie a La bottega del caffè.
[2]Diderot e D'Alembert nell'Enciclopedia: "I caffè sono anche manifatture dello spirito, sia buone che cattive".


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