INETTO in letteratura (lezioni)

La figura dell’inetto nella letteratura fra Ottocento e Novecento
(I parte)

Premessa


1)      Chi è l’inetto? Che cos’è l’inettitudine? L’inettitudine è – lo dice la parola – una mancanza di attitudine. A che? Alla vita. Dunque si tratta di un disadattamento, o meglio, di una inadeguatezza rispetto alla vita, di una incapacità di vivere. Del resto l’etimologia di “inetto” è in-aptus, cioè “non adatto”: l’inetto è un non-adatto alla vita, dunque un perdente, uno sconfitto.

2)      E’ una figura, quella dell’inetto, che ricorre nella letteratura europea a cavallo fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. E’ una figura che compare con modalità diverse nei diversi autori, ma sempre con la caratteristica di rappresentare un uomo che non riesce a – o non vuole – realizzare se stesso, un uomo che fallisce nei suoi progetti o anche che rinuncia ad ogni progetto. Dunque si tratta di una sorta di anti-eroe, o eroe negativo.


Il contesto storico-sociale: la crisi d’identità della piccola borghesia e il mito della forza


3)      Se poi ci chiediamo come si spiega la presenza di questo personaggio letterario in questa età, siamo portati a pensare che la figura dell’inetto bene rappresenti la crisi di identità di una classe sociale, la piccola borghesia, che non riconosce più il proprio ruolo, schiacciata com’è, nell’età della seconda rivoluzione industriale, fra le elites del potere – economico e finanziario – da una parte, e l’irrompere sulla scena – sociale e politica – delle grandi masse operaie e contadine dall’altra. Non è un caso che gli inetti di cui parliamo siano quasi sempre dei piccoli impiegati, frustrati e avviliti socialmente e psicologicamente.

4)      Se poi più specificamente ci riferiamo all’Italia, la tematica dell’inettitudine sembra essere una sorta di opposizione alla ideologia dominante nell’età umbertina (e in particolare nel decennio segnato dall’egemonia di Crispi), una ideologia che predica il rafforzamento dello Stato borghese all’insegna dell’efficienza e della capacità, che prospetta il superamento delle miserie del presente attraverso la celebrazione dei miti dell’attitudine e della forza.

5)      E’ una ideologia che si ritrova tanto in De Sanctis (in suo saggio esorta a “rifare il sangue, ricostruire la fibra, rialzare le forze vitali… ritemprare i caratteri e col sentimento della forza rigenerare il coraggio morale, la sincerità, l’iniziativa, la disciplina, l’uomo virile, e perciò l’uomo libero”) quanto in D’Annunzio (scrive in una lettera a un giovane musicista di Napoli nel 1884: “Lavorate, lavorate, lavorate, voi giovani, voi pieni di fede e di forza! Ci sono ancora molte vette da conquistare. (…) Getta via lungi da te tutti i timori, tutte le timidezze, tutte le esitazioni: sii audace, sempre audace; non ti stancare mai di cercare, di tentare, di provare. (…) Non ti spaventare della lotta: è la lotta per la vita, lo struggle for life del Darwin, la lotta inevitabile e inesorabile. Guai a chi si abbatte. Guai alli umili!”); e si ritrova nei correnti manuali di psicologia: sentite cosa scrive un certo Emilio Morselli, in un trattato intitolato Psicologia moderna:


Una fra le necessità che si presentano più urgenti ai tempi nostri è il possesso di una volontà forte, perseverante, attiva, poiché appare evidentissimo che la causa di molti malanni e di molti insuccessi è la debolezza della nostra volontà, la ripugnanza per lo sforzo, specialmente per lo sforzo durevole e continuato; donde il nuovo termine di una vecchia malattia, che etimologicamente corrisponde a “mancanza di volontà”, e consiste in una specie di atonia, di orrore per la fatica intellettuale e fisica, funesta per i giovani; vediamo che moltissimi fra questi, senza energia, fiacchi, inerti, dormono parecchie ore più del necessario, si levano intorpiditi, molli, indolenti, senza vigore, e così durano tutta la giornata con qualche lampo d’energia subito spenta


Il mio percorso: Svevo fra Leopardi e Montale


6)      Io mi sono appassionato a questa tematica leggendo i romanzi di Svevo; del resto, se si guarda alla letteratura italiana del periodo, è proprio Svevo l’autore che per antonomasia ci rimanda alla figura dell’inetto (si pensi che Svevo aveva intitolato proprio Un inetto il suo primo romanzo; ma quel titolo non piaceva all’editore, che lo convinse a cambiarlo in Una vita). E dunque le mie lezioni si incentreranno soprattutto sull’analisi dei protagonisti dell’opera – non solo dei romanzi, ma anche delle novelle – dello scrittore triestino.

7)      Mi è parso poi di rintracciare un filo che parte da Leopardi, passa per Svevo e arriva fino a Montale. Parte da Leopardi perché in certe sue riflessioni si può riconoscere una sorta di diagnosi ante litteram dell’inettitudine (dell’inettitudine nella forma caratteristica che essa assume in Svevo); arriva a Montale, perché tale autore – non a caso tra i primi a leggere e valorizzare i romanzi di Svevo – sembra esprimere nella sua poesia una condizione umana molto simile a quella dell’inetto sveviano.


I precedenti italiani: i fratelli Ferramonti


8)      Ma prima di Svevo, che nomina esplicitamente questo tipo umano (Un inetto, come dicevo, doveva essere il titolo del suo primo romanzo), ci sono dei precedenti nella letteratura italiana e in quella europea della seconda metà dell’Ottocento, dunque sarà bene indicare qualche esempio, se non altro per riconoscere poi la specificità dell’inetto sveviano rispetto a tali precedenti.

9)      Mi piace ricordare, prima di tutto, un autore poco conosciuto, Carlo Gaetano Chelli, un romano, autore nel 1883 del romanzo L’eredità Ferramonti (1883). Ne ha fatto un film, nel 1978, Bolognini, con Anthony Quinn nella parte del vecchio Gregorio Ferramonti, Gigi Proietti e Fabio Testi nella parte dei due figli, Pippo e Mario, Dominique Sanda nella parte della astuta seduttrice Irene. Sono inetti Pippo e Mario Ferramonti, i protagonisti maschili del romanzo. Sono due caratteri diversi, ma entrambi incapaci di affrontare la vita, destinati al fallimento. Sono i figli del ricco fornaio Gregorio, che però non li ama, e non li vuole come eredi, perché incapaci di proseguire la sua attività: Mario è un donnaiolo che ama la bella vita e “nuota” nei debiti, che il padre deve poi saldare; Pippo è inadatto al commercio, ha fatto un cattivo affare investendo in un negozio di ferramenta che non sa gestire. Chi invece sa affrontare la vita con spregiudicatezza è una donna, Irene, astuta calcolatrice, che ha progettato di impadronirsi dell’eredità Ferramonti: si fa sposare da Pippo, quindi seduce prima il cognato Mario, poi il vecchio Gregorio, che la nominerà erede universale. Il progetto di Irene fallisce perché il tribunale non riconosce la validità del documento firmato da Gregorio. Ma lei si rifarà una nuova vita, mentre il cognato Mario – il donnaiolo che si è innamorato di lei – si uccide disperato, e il marito Pippo, abbandonato, impazzisce e muore.


I precedenti italiani: Corrado Silla e Andrea Sperelli


10)  Dunque si tratta di inetti sia nel campo sociale che in quello sentimentale. La stessa cosa si può dire di Corrado Silla, il protagonista di Malombra, il romanzo di Fogazzaro uscito nel 1881: si tratta di uno scrittore privo di successo, che riconosce se stesso come “inetto alle opere grandi che vagheggiava, alle piccole che lo premevano, a farsi amare, a vivere”. Dunque inetto non solo a realizzare i propri progetti, grandi o piccoli che fossero, ma anche “a farsi amare”, tant’è che barcamenandosi fra due donne (una, Marina, che sollecita i suoi sensi, l’altra, Edith, che sente affine spiritualmente), se le lascia sfuggire entrambe. Anche per lui, come per i fratelli Ferramonti, la conclusione sarà tragica: finirà ucciso da Marina con un colpo di pistola.

11)  Il fallimento sentimentale di Corrado Silla ricorda quello di Andrea Sperelli, l’esteta protagonista de Il piacere, il romanzo di D’Annunzio, pubblicato nel 1889. Anche Andrea, come Corrado, è attratto da due donne (la sensuale Elena Muti e la spirituale Maria Ferres) ma non riesce a trattenere nessuna delle due, entrambe lo abbandonano. Per Andrea non c’è la morte nel finale, ma c’è il riconoscimento, nella solitudine in cui si ritrova, del proprio fallimento.


I precedenti stranieri: L’ “uomo superfluo” di Turgheniev


12)  Se passiamo a qualche esempio della letteratura straniera, mi piace ricordare che Svevo, nel suo Profilo autobiografico, scrive di avere letto e amato i grandi romanzieri russi. Nomina Turgheniev, ma certamente allude anche a Lermontov (Un eroe del nostro tempo), Dostoevskij (L’idiota), Goncarov.

13)  Turgheniev ha creato il personaggio dell’ “uomo superfluo”, che ritorna nei suoi romanzi e che dà il titolo ad un racconto del 1850, il Diario di un uomo superfluo, in cui il protagonista, Cjulkaturin, così spiega la propria condizione: “La natura, si vede, non aveva contato sulla mia comparsa e di conseguenza mi ha trattato come un ospite inatteso e non invitato… Durante tutta la mia vita ho sempre trovato il mio posto occupato, forse perché cercavo il mio posto non là dove avrei dovuto cercarlo.”; e Rudin, nell’omonimo romanzo del 1856, si esprime in questi termini: “Mi manca… nemmeno io so dire che cosa mi manca… mi manca probabilmente proprio quella qualità che ci fa capaci di muovere i cuori degli uomini e di impadronirsi del cuore di una donna.”.


I precedenti stranieri: Oblomov


14)  Goncarov è autore di un romanzo che ebbe un notevole successo, Oblomov, dal nome del protagonista, pubblicato nel 1859. Su questo romanzo vorrei soffermarmi. Oblomov è un inetto, un personaggio abulico, incapace di vivere attivamente, di adoperarsi per trasformare la realtà circostante, per realizzare qualche progetto; continua a crearsi alibi (i pericoli del futuro e i relativi dolori) pur di sfuggire agli impegni del presente; si lascia vivere, pigramente, passando la giornata fra un pasto e una dormita (sembra l’esempio perfetto di quel dormiglione di cui parla lo psicologo Morselli); e per questa sua abulia, si ritrae spaventato anche dal grande amore (Olga, la donna che scuote la sua vita, che potrebbe e vorrebbe “salvarlo”) e accetta invece un amore che non gli costa fatica (per la padrona dell’appartamento in cui abita, che lo accetta così com’è e lo serve con dedizione).

15)  Ma Oblomov non è un piccolo borghese, non appartiene a quella classe sociale, la piccola borghesia, che, abbiamo detto, riversa in inettitudine la crisi di identità che patisce nell’età della seconda rivoluzione industriale. Oblomov è un proprietario terriero che vive di rendita in città (a San Pietroburgo), simbolo, quindi, con la sua inerzia, di una società arretrata, feudale, conservatrice. Il romanzo è del 1859, quindi vuole essere anche una denuncia della arretratezza della società russa rispetto al resto d’Europa, laddove ci sono popoli (tedeschi e inglesi soprattutto) e classi sociali (la borghesia) che innovano, modificano la realtà, operano per progredire. Di questa classe sociale (e di questi popoli) è espressione l’amico del cuore di Oblomov, Andrej Stolz (di madre russa e padre tedesco), pieno di iniziative, dotato di spirito pratico, del tutto antitetico rispetto all’inerte Oblomov, che lui cerca, invano, di sollevare dalla sua apatia.

16) Dunque si potrebbe concludere che l’inettitudine di Oblomov è dovuta al suo essere un “redditiero” viziato, che può permettersi di non lavorare, abituato sin dall’infanzia ad essere circondato da servi. Ma è una conclusione semplicistica. Nei continui dialoghi con Stolz emerge una sua filosofia, che diventa una denuncia dei comportamenti umani dominanti, e l’attivismo a cui Stolz lo esorta pare ad Oblomov niente altro che una lotta degli uni contro gli altri per sopraffarsi a vicenda, una lotta cui Oblomov non vuole adeguarsi:


Che cosa, in particolare, non ti piace di questa vita?" (gli chiede Stolz).

"Tutto: le continue corse, l'eterno gioco delle meschine passioni, soprattutto l'avidità, il bisogno di tagliarsi le gambe l'un l'altro, le chiacchiere, i pettegolezzi, il punzecchiarsi a vicenda, quello squadrarsi da capo a piedi; se ascolti le conversazioni, ti gira la testa, ti senti stordito. A prima vista, ti sembrano tutti intelligenti, ti par di leggere tanta dignità sui loro visi, ma appena li ascolti: "A questo hanno dato quello, questo ha ottenuto l'appalto." "Per quale ragione, di grazia?", grida qualcuno. "Quello ieri sera al club ha perso tutto al gioco: quell'altro ha guadagnato trecentomila rubli!". Che noia, che noia, che noia!... Ma dov'è l'uomo? Dove si è nascosto? come fa a perdersi in queste futilità?".

"Il mondo e la società devono pure occuparsi di qualcosa", disse Stolz, "ognuno ha i suoi interessi. È la vita...".

"Il mondo, la società! Forse tu, Andrej, mi porti in questo mondo, in questa società proprio per farmi passare la voglia di frequentarli. La vita: bella vita! Cosa c'è da cercare lì? Interessi dello spirito o del cuore? Guarda dunque dov'è il centro intorno al quale si muove tutto questo: non c'è un centro, non c'è niente di profondo, niente che arrivi al cuore. Sono tutti quanti dei cadaveri, tutti addormentati peggio di me questi individui che vivono nel mondo e nella società! Che cosa li guida nella vita? Certo, non se ne stanno sdraiati, tutto il giorno si affannano ad andare avanti e indietro come mosche, e a che pro? (…)

"Nessuno ha lo sguardo limpido, sereno", proseguì Oblomov, "tutti si trasmettono l'un l'altro preoccupazioni, angosce, pene, tutti sono alla morbosa ricerca di qualche cosa. Se almeno cercassero la verità, il bene per sé e per gli altri... no, il successo di un amico li fa impallidire. Uno ha un'altra idea fissa: domani deve passare in un ufficio pubblico, dove si trascina una pratica da cinque anni; la parte avversa continua a spuntarla, e lui per cinque anni si porta quel chiodo nella testa, con un solo desiderio: dare lo sgambetto all'altro e sulla sua caduta costruire l'edificio della propria fortuna. Fare anticamera sospirando per cinque anni: questo sarebbe il suo ideale, lo scopo della sua vita! Un altro si tormenta perché è condannato ad andare ogni giorno in ufficio e a starci fino alle cinque; ma un altro ancora sospira con tristezza perché lui non ha questa fortuna...".

17)  Se lo guardiamo da questo punto di vista, Oblomov appare come un idealista deluso che si ritira consapevolmente da un mondo che lui non accetta. Sottolineo questo aspetto perché dimostra come l’inettitudine possa essere vista come una forma di critica ai valori dominanti nella società: un aspetto che certamente ritroveremo in Svevo.

I precedenti stranieri: L’idiota di Dostoevskij

18) Quanto a Dostoevskij, il protagonista de L’idiota (1869), il principe Myskin, è inetto in un modo particolare: non è un abulico come Oblomov, è un disadattato, un estraneo rispetto alla società in cui si trova (ma, direi, lo sarebbe rispetto a qualsiasi società), semplicemente perché è come un fanciullo innocente, totalmente ispirato ad una ingenua sincerità e bontà d’animo, sempre un po’ impacciato e ridicolo nel mondo degli adulti. E infatti coi fanciulli trova immediata corrispondenza, come emerge da un episodio del suo soggiorno in Svizzera, che lui stesso racconta:

“Laggiù, laggiù non c’erano che bambini e io stavo tutto il tempo coi bambini, solo con loro. Erano i bambini del villaggio, tutta una banda che frequentava la scuola. Io non è che insegnassi loro, no, per questo c’era il maestro di scuola Jules Thibault; io forse insegnavo anche, ma soprattutto stavo con loro, e i miei quattro anni trascorsero tutti così. Non avevo bisogno di nient’altro. Dicevo loro tutto, senza nascondere nulla… Mi ha sempre colpito il pensiero di quanto poco i grandi conoscano i bambini, i padri e le madri conoscono poco addirittura i propri figli. Ai bambini non bisogna nascondere nulla, col pretesto che sono piccoli e che per loro è troppo presto sapere. Che idea triste e disgraziata! I bambini poi si accorgono benissimo che i loro padri li ritengono troppo piccoli e credono che non capiscano nulla, mentre invece loro capiscono tutto alla perfezione. I grandi non sanno che un bambino può dare un consiglio straordinariamente importante anche in un caso di maggior merito. Oh mio Dio! Quando vi guarda uno di quei graziosi uccellini, pieno di fiducia e di felicità, dovreste aver vergogna di ingannarlo! Io li chiamo uccellini perché al mondo non c’è niente di meglio di un uccellino. (…) Thibault mi invidiava e basta; all’inizio continuava a scuotere la testa e a meravigliarsi che i bambini con me capissero tutto  mentre con lui non capivano quasi nulla, poi prese a burlarsi di me quando gli dissi che noi due non insegnavamo loro quasi nulla, anzi erano loro che insegnavano a noi.  Ma come poteva invidiarmi e calunniarmi, quando egli stesso viveva con i bambini? Attraverso i bambini l’ani ma guarisce. (…) Quanto a Schneider, parlò e discusse molto con me del dannoso “sistema” da me tenuto con i bambini. Alla fine mi espresse un suo pensiero molto strano, mi disse di essersi pienamente convinto che ero anch’io un perfetto bambino, un vero e proprio bambino, che solo per la statura e il viso somigliavo a un adulto, ma che quanto a sviluppo, anima, carattere, e forse anche intelligenza, non ero un adulto, e che così sarei rimasto, anche se fossi vissuto fino a sessant’anni. Io ne risi molto: certo, non aveva ragione: infatti che bambino son io? Una cosa soltanto è vera: è una fatto che non mi piace stare con gli adulti, con la gente, coi grandi – e l’ho notato da un pezzo – non mi piace, perché non ci so stare. Qualunque cosa mi dicano, per quanto siano buoni verso di me, con loro, non so perché, mi sento sempre a disagio…”

19)  Del resto lo stesso Dostoevskij dichiara di aver voluto “raffigurare un uomo assolutamente buono”. Dunque Myskin è un Cristo del XIX secolo (sono ricorrenti nel romanzo riferimenti a Cristo, in particolare al quadro di Hans Holbein il giovane che raffigura il Cristo deposto), assolutamente privo di malizia, mosso soltanto da pietà e assoluta fiducia nel prossimo. E il mondo degli “adulti”, fatto di convenzioni, formalismi, malizia e menzogne, ride della diversità del principe fanciullo, ma ogni volta resta abbagliato di fronte alle verità da lui svelate con semplicità ed immediatezza. Se allora vogliamo azzardare un confronto con l’inetto sveviano, potremmo dire che l’ “idiota” è come un alieno, un marziano che arriva da un altro mondo (e del resto, il principe Myskin nel romanzo arriva in mezzo alla bella società russa da un altro mondo, precisamente da una clinica svizzera dove è stato in cura per lungo tempo e dove nel finale ritornerà, con la mente ottenebrata dall’epilessia), non appartiene al nuovo mondo in cui è “atterrato”, e quel mondo lo guarda stupito e chiama idiozia la sua diversità. L’inetto di Svevo invece appartiene a quel mondo, a quella società; si sente diverso, ma vorrebbe essere uguale agli altri, invidia i vincenti; è inetto proprio perché fallisce nel tentativo di essere come gli altri, e fallisce non perché lui sia l’assolutamente buono in un mondo di malizia, ma perché c’è in lui un eccesso di riflessione (un’ipertrofia della coscienza) che blocca, inibisce la naturalezza del vivere.

I precedenti stranieri: Amiel

20) Ma se c’è un autore che più di altri, a fine Ottocento, ha comunicato questa idea della inettitudine come condizione esistenziale, questi è lo scrittore ginevrino Henri Frederic Amiel, autore di un poderoso, quasi maniacale, diario (Frammenti di un giornale intimo, di oltre 17000 pagine, pubblicato postumo nel 1884) in cui si descrive come un inetto, reso incapace di vivere da un eccesso di autoanalisi. Di Amiel si è detto che sembra uscito da un romanzo di Svevo. Ed Amiel è un autore letto e particolarmente amato da Montale. Ecco qualcuna delle sue riflessioni:

Ho l’epidermide del cuore troppo sottile… Ciò che potrebbe essere mi guasta ciò che è, ciò che dovrebbe essere mi rode di tristezza. Perciò la realtà, il presente, la necessità, l’irreparabile mi ripugnano, o anche mi spaventano. Ho troppa immaginazione, coscienza e penetrazione, e non abbastanza carattere. Solo la vita teorica ha sufficiente elasticità, immensità, riparabilità; la vita pratica mi fa arretrare. (6/4/51)

L’energica soggettività che s’afferma con la fede in se stessa mi è estranea… Io sono essenzialmente oggettivo e la specialità che mi distingue è quella di potermi porre da tutti i punti di vista, di vedere con tutti gli occhi… Di qui l’attitudine alla teoria e l’irresolutezza nella pratica; di qui il talento critico e la difficoltà nella produzione spontanea; di qui anche la lunga incertezza delle convinzioni e delle opinioni. (18/11/51)

L’uomo volgare non dubita di nulla e non sospetta nulla. Il filosofo è più circospetto. Inoltre è inadatto all’azione perché, pur vedendo la meta meglio degli altri, misura troppo bene la propria debolezza e non si illude sulle sue probabilità. (30/8/72)

Ho scoperto per tempo che era più facile rinunciare a un progetto che realizzarlo… e non potendo ottenere tutto ciò che sarebbe stato nel voto della mia natura, vi ho rinunciato in blocco… Ho anticipato in spirito tutti i disinganni. (18/8/73)[1]


Ho il terrore dell’azione e mi sento a mio agio solo nella vita impersonale, disinteressata, oggettiva del pensiero. Perché ciò? Per timidezza… Da dove deriva questa timidezza? Dallo sviluppo eccessivo della riflessione, che ha ridotto quasi a niente la spontaneità, lo slancio, l’istinto e con ciò stesso l’audacia e la fiducia. Quando bisogna agire io vedo dappertutto solo cause di errore e di pentimento, minacce nascoste e dispiaceri mancati.

21)  Sottolineo questa associazione fra inettitudine, incapacità di agire e eccesso di riflessione, di analisi e auto-analisi, perché questo è un tratto distintivo dei personaggi sveviani. A questa tipologia umana, con le differenze che riscontreremo, sono riconducibili i protagonisti dei romanzi, ed anche delle novelle, di Svevo.
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[1] Dice Svevo nel Profilo autobiografico: “E’ il destino di tutti gli uomini d’ingannare se stessi sulla natura delle proprie preferenze per attenuare il dolore dei disinganni che la vita apporta a tutti”.

(II parte)

Svevo: la vita e l’opera

1)      Ma prima di affrontare l’analisi di tali personaggi, sarà bene, per chi ne avesse una conoscenza superficiale, inquadrare l’autore nei tratti fondamentali della sua biografia e del contesto sociale in cui visse.

2)      Di Svevo si può dire innanzitutto che si tratta di uno scrittore “eccentrico”, nel senso letterale che non vive in uno dei tradizionali centri della cultura italiana, voglio dire Firenze, Roma o, senz’altro – a partire dall’età dell’illuminismo fino a tutto l’Ottocento – Milano. Svevo era di Trieste, lì era nato nel 1861, in un tempo in cui Trieste era ancora territorio dell’impero asburgico (lo sarà fino al 1918), e lì visse e scrisse, lontano quindi dai suddetti centri del dibattito culturale e della produzione letteraria italiana.

3)      Trieste era un vero e proprio crocevia, dove si incontravano tre mondi: quello slavo, quello tedesco, quello italiano. E questo spiega la specificità della formazione di Svevo, che legge autori come Schopenhauer, Nietzsche e Freud (allora non ancora tradotto) e padroneggia la lingua tedesca meglio di quella italiana (a casa parlavano triestino, l’italiano l’aveva imparato a scuola; ma proprio in questa incertezza linguistica risiede parte del fascino della sua scrittura)). Lo stesso nome, Italo Svevo, è uno pseudonimo che rivela la duplicità culturale dello scrittore, per metà italiano e per metà svevo, cioè tedesco. Il suo vero nome era Ettore Schmitz, di famiglia ebraica. Sin da ragazzo i suoi interessi erano letterari e filosofici, ma il padre – un commerciante in vetrami – volle che facesse studi commerciali, prima in un collegio della Baviera poi a Trieste.

4)      Nel 1880, in seguito ai dissesti finanziari del padre, Svevo dovette cercare lavoro e divenne impiegato di banca, un lavoro che mantenne per ben 19 anni e di cui, per sua stessa ammissione, c’è traccia nella vicenda di Alfonso Nitti, il protagonista del suo primo romanzo, Una vita. Svevo, come Alfonso, dedica il suo tempo libero alla frequentazione della biblioteca civica, dove legge i classici italiani, i romanzieri francesi e russi.

5)      Nel 1892 pubblica a proprie spese Una vita. Il romanzo non ha alcuna risonanza, se non locale, come non ne ha il secondo romanzo, Senilità, pubblicato nel 1898. Intanto però la sua vita è cambiata, ha sposato una cugina, Livia Veneziani, che appartiene a una famiglia di facoltosi industriali: i suoi possiedono una fabbrica ben avviata di vernici antiruggine per navi. Svevo lascia l’impiego in banca ed entra nella ditta dei suoceri. Diventa un manager, un dirigente d’industria, come tale viaggia in Francia e in Inghilterra, dove per un periodo dirige una filiale dell’azienda. Dichiara di aver ripudiato la letteratura (così scrive in una pagina di diario del 1902: “Io, a quest’ora e definitivamente, ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura”), di non potere più scrivere perché, come dirà nel Profilo autobiografico, “bastava un solo rigo per renderlo meno adatto al lavoro pratico cui giornalmente doveva attendere. Subentrava subito la distrazione e la cattiva disposizione”.

6)      Intanto conosce Joyce che, esule dall’Irlanda, a Trieste insegnava inglese. I due fanno amicizia e si scambiano le rispettive opere. Joyce apprezza i due romanzi di Svevo e lo esorta a riprendere l’attività letteraria.

7)      Probabilmente durante la guerra (le autorità austriache hanno requisito la fabbrica di vernici e Svevo si trova libero da impegni) compone il terzo romanzo, La coscienza di Zeno, che viene pubblicato nel 1923. Ancora silenzio in Italia. L’unico che ne riconosce la grandezza è Montale, che gli dedica un saggio nel 1925. La fama arriva prima in Europa, grazie Joyce che fa leggere il romanzo a due italianisti francesi (Larbaud e Cremieux), che non solo ne promuovono la traduzione in francese ma lo sostengono con critiche elogiative.

8)      Per quanto tardiva, era la fama. Si cominciò a parlare di un “caso Svevo”, gli stranieri venivano a Trieste per vedere i luoghi dove erano ambientati i suoi romanzi. Svevo progetta un quarto romanzo, sempre con protagonista Zeno. Di questo ci rimangono solo frammenti, perché Svevo muore il 13 settembre 1928 a seguito di un incidente stradale a Motta di Livenza, in provincia di Treviso.

Svevo: la novità della tecnica narrativa e della tematica

9)      Svevo è uno scrittore straordinario, sia perché adotta una tecnica narrativa innovativa (il che è evidente particolarmente nel terzo romanzo), sia per questa tematica incentrata sulla condizione umana dell’inetto a vivere, da lui trattata in maniera costante, tanto che si è detto che nell’opera di Svevo protagonista è sempre lo stesso personaggio: è un inetto Alfonso Nitti (Una vita), è un inetto Emilio Brentani (Senilità) ed è un inetto Zeno Cosini (anche se, a differenza dei primi due, vorrà convincere il lettore di essere un vincente).

L’inetto pre-esiste ai romanzi: Una lotta e L’assassinio di via Belpoggio

10)  Non solo: anche nei suoi racconti si ritrovano esemplari figure di inetti. Prima ancora del primo romanzo ci sono due racconti – Una lotta (1888) e L’assassinio di via Belpoggio (1890) – che vale la pena di ricordare.

11)  In Una lotta Arturo Marchetti, poeta di provincia, contende una donna ad Ariodante Chigi, bello e sportivo. Naturalmente l’inetto, riflessivo e titubante, è sopraffatto dall’antagonista, con poche idee, ma determinato.  Arturo si illude di aver fatto colpo sulla donna (Rosina) con la sua intelligenza e cultura, ma scopre poi che il preferito è il muscoloso Ariodante. Si macera in pensieri di vendetta che dovrebbe consistere in parole di sprezzante superiorità nei confronti dei due (da notare il motivo, poi ricorrente, dell’anticipazione mentale del discorso che intende fare alla donna, e che invece non farà); ma, quando trova Rosina in affettuosa compagnia dell’amico-rivale, non riesce a fare altro che affrontare fisicamente Ariodante col risultato di finire a terra stordito da due pugni in testa.  Il letterato con le stimmate dell’inetto ritornerà con Mario Samigli (Una burla riuscita), Alfonso Nitti (Una vita), Emilio Brentani (Senilità).

12)  Ne L’assassinio di via Belpoggio Giorgio è il solito "inetto" (non è riuscito negli studi, ha dilapidato il patrimonio della madre), ridotto a fare il facchino; uccide un certo Antonio che, ingenuamente, gli ha mostrato una grossa somma di denaro. Il racconto comincia ad assassinio compiuto (l’inetto ha agito d’istinto, in preda ai fumi dell’alcool; se si fosse trattato di progettare il delitto, lo ammette lui stesso, non l’avrebbe mai commesso, pervaso e quindi bloccato da mille dubbi e mille paure) e si sviluppa seguendo le azioni e i pensieri del protagonista fino a che questi confessa il crimine. Va alla stazione, da dove pensa di prendere il treno per la Svizzera ma desiste, perché sembrerebbe una fuga; il giorno dopo cerca affannosamente notizie sul giornale; si precipita a comprare un cappello diverso e a progettare di tagliarsi i capelli quando un collega di lavoro (Giovanni, che vive con lui) gli dice che l'assassino aveva i capelli lunghi e un "cappello a cencio"; si prepara a difendersi adducendo motivi di alto valore morale, ovvero di aver voluto aiutare la madre in miseria (allora va a trovarla, ma scopre che è morta da una settimana). Dopo allucinazioni da colpevole, si trova effettivamente un poliziotto in casa (l'ha portato il collega Giovanni, insospettito) al quale confessa subito:[1] non certo perché sopraffatto dal rimorso e pentito, ma per liberarsi dalla tortura che si sta infliggendo con quel continuo rimuginare e arrovellarsi sulle possibilità di essere scoperto.

L’inetto di Svevo ha aspetti comici che rimandano allo schlèmiel ebraico

13)  Ma rispetto ai precedenti cui abbiamo accennato c’è una originalità dell’inetto sveviano: Silla di Malombra, i fratelli Ferramonti, lo stesso Oblomov, sono personaggi tragici che quasi sempre scontano la loro inettitudine con il suicidio. Negli inetti di Svevo c’è sì la tragicità del fallimento (Alfonso si uccide, Emilio si ritrova solo e vive di ricordi, peraltro idealizzati; diverso è il caso di Zeno, come vedremo), ma c’è un aspetto comico che li contraddistingue, talchè si è parlato, già da parte dei primi critici, di una somiglianza con Charlot e, più recentemente, con il Woody Allen prima maniera.

14)  L’uomo che questi autori rappresentano non sarebbe altro che lo schlèmiel ebraico, cioè l’uomo ridicolo e maldestro, colui che “inciampa nelle piccole cose” (lo dice Svevo parlando di Zeno), colui che Moni Ovadia, citando proverbi ebraici, definisce così: “lo schlèmiel è uno che cade di schiena e si rompe il naso”; o anche: “lo schlèmiel è uno che quando tira una corda a uno che sta annegando gli butta tutti e due i capi”. Accomunerebbe tutti e tre anche il fatto che nella loro opera rappresentano sempre lo stesso personaggio. Di più, la polemica di Chaplin contro le macchine che sovrastano l’uomo (in Tempi moderni come nel finale de Il grande dittatore) è la stessa che si ritrova nel finale de La coscienza di Zeno.

15)  In considerazione di ciò c’è chi ritiene che la figura dell’inetto non sia altro che la proiezione (inconfessata) della diversità ebraica. Lo ha fatto Giacomo Debenedetti, che ha trovato appiglio nelle tesi (decisamente antifemministe e antisemite) sostenute da Otto Weininger in Sesso e carattere. Weininger definisce infatti l'ebreo come il diseredato privo di ogni felice istinto del vivere, femminilmente passivo (e la donna, per lui, è priva di immaginazione, intelligenza creatrice e moralità). E Debenedetti trova una conferma alla sua idea in quel passo di Senilità dove si dice, a proposito del Balli: “Uomo nel vero senso della parola, il Balli non riceveva e quando si trovava accanto il Brentani, poteva avere il sentimento di essere accompagnato da una delle tante femmine a lui soggette”.

16)  Per tornare alla comicità dell’inetto sveviano, come esempio basterebbe leggere il capitolo della Coscienza intitolato La storia del mio matrimonio: la goffaggine, l’insicurezza di Zeno, il suo inciampare nelle piccole cose, lo rendono ridicolo, suscitano l’ilarità generale. E’ una vicenda  che ha il suo culmine comico nel momento in cui Zeno, rifiutato da Ada (di cui è innamorato), fa la stessa proposta di matrimonio alla giovane Alberta, quindi, rifiutato ancora una volta, e visto che non può provarci con Anna che è una bambina, si rassegna a chiedere la mano di Augusta (la più brutta delle sorelle Malfenti, ma a lui sin dall’inizio destinata dai genitori); ma l’intero capitolo è punteggiato da tanti piccoli “incidenti”. Si potrebbe ricordare di quando, al buio di una seduta spiritica, Zeno fa una dichiarazione di amore ad Augusta credendo che si tratti di Ada. Ma valga come esempio l’episodio della zia Rosina:

Capitò la zia Rosina, una sorella di Giovanni, più vecchia di lui, ma di lui molto meno intelligente. Aveva però qualche tratto della sua fisonomia morale bastevole a caratterizzarla quale sua sorella. Prima di tutto la stessa coscienza dei proprii diritti e dei doveri altrui alquanto comica, perché priva di qualsiasi arma per imporsi, eppoi anche il vizio di alzare presto la voce. Essa credeva di aver tanti diritti nella casa del fratello che - come appresi poi - per lungo tempo considerò la signora Malfenti quale un'intrusa. Era nubile e viveva con un'unica serva di cui parlava sempre come della sua più grande nemica. Quando morì raccomandò a mia moglie di sorvegliare la casa finché la serva che l'aveva assistita non se ne fosse andata[2]. Tutti in casa di Giovanni la sopportavano temendo la sua aggressività.

       Zia Rosina prediligeva Ada fra le nipoti. Mi venne il desiderio di conquistarmene l'amicizia anch'io e cercai una frase amabile a indirizzarle. Mi ricordai oscuramente che l'ultima volta in cui l'avevo vista (cioè intravvista, perché allora non avevo sentito il bisogno di guardarla) le nipoti, non appena essa se ne era andata, avevano osservato che non aveva una buona cera. Anzi una di esse aveva detto:

       - Si sarà guastato il sangue per qualche rabbia con la serva!

      Trovai quello che cercavo. Guardando affettuosamente il faccione grinzoso della vecchia signora, le dissi:

       - La trovo molto rimessa, signora.

      Non avessi mai detta quella frase. Mi guardò stupita e protestò:

      - Io sono sempre uguale. Da quando mi sarei rimessa?

      Voleva sapere quando l'avessi vista l'ultima volta. Non ricordavo esattamente quella data e dovetti ricordarle che avevamo passato un intero pomeriggio insieme, seduti in  quello stesso salotto con le tre signorine, ma non dalla parte dove eravamo allora, dall'altra. Io m'ero proposto di dimostrarle dell'interessamento, ma le spiegazioni ch'essa esigeva lo facevano durare troppo a lungo. La mia falsità mi pesava producendomi un vero dolore.

       La signora Malfenti intervenne sorridendo:

       - Ma lei non voleva mica dire che zia Rosina è ingrassata?

       Diavolo! Là stava la ragione del risentimento di zia Rosina ch'era molto grossa come il fratello e sperava tuttavia di dimagrire.

       - Ingrassata! Mai più! Io volevo parlare solo della cera migliore della signora.

       Tentavo di conservare un aspetto affettuoso e dovevo invece trattenermi per non dire un'insolenza.

       Zia Rosina non parve soddisfatta neppur allora. Essa non era mai stata male nell'ultimo tempo e non capiva perché avesse dovuto apparire malata. E la signora Malfenti le diede ragione:

       - Anzi, è una sua caratteristica di non mutare di cera - disse rivolta a me. - Non le pare?

       A me pareva. Era anzi evidente. Me ne andai subito. Porsi con grande cordialità la mano a zia Rosina sperando di rabbonirla, ma essa mi concedette la sua guardando altrove.



(In un altro momento, sempre nel salotto di casa Malfenti, e sempre con zia Rosina, Zeno suscita l’ilarità generale)



Ad un certo momento ero rimasto da una parte del salotto, solo con zia Rosina. Essa parlava ancora del tavolino. Abbastanza grassa, stava immobile sulla sua sedia e mi parlava senza guardarmi. Io trovai il modo di far capire agli altri che mi seccavo e tutti mi guardavano, senza farsi vedere dalla zia, ridendo discretamente.

       Per aumentare l'ilarità mi pensai di dirle senz'alcuna preparazione:

       - Ma Lei, signora, è molto rimessa, la trovo ringiovanita.

       Ci sarebbe stato da ridere se essa si fosse arrabbiata. Ma la signora invece di arrabbiarsi mi si dimostrò gratissima e mi raccontò che infatti s'era molto rimessa dopo di una recente malattia. Fui tanto stupito da quella risposta che la mia faccia dovette assumere un aspetto molto comico così che l'ilarità che aveva sperata non mancò. Poco dopo l'enigma mi fu spiegato. Seppi, cioè, che non era zia Rosina, ma zia Maria, una sorella della signora Malfenti. 

17)  Ma Svevo stesso era così. Sentite questo episodio che racconta in una lettera alla moglie

Passando davanti ad una baracca vidi che c’erano in vendita delle sigarette con la soprascritta: La fusée (…) Ne accesi una poco dopo e mi fermai a guardare un’automobile che passava. In quella la mia sigaretta si mette a fumare da sola e mi scoppia in bocca con un crepitio abbastanza forte. Lasciai cadere la sigaretta dallo spavento ma non ero sicuro se fosse scoppiata essa o l’automobile. Il chauffeur però rideva più di me, ciò che provava che l’automobile non era danneggiata. Io non so ancora esattamente che cosa voglia dire fusée ma ad ogni modo è cosa da cui bisogna stare alla larga e non lo dimenticherò più. Adesso ho cinque sigarette che non so dove mettere perché ho paura che prendano fuoco in valigia.


Caratteri dell’inetto sveviano: Una vita  

18)  Con ciò possiamo dire che l’inettitudine dei personaggi sveviani si caratterizza per due aspetti: 1) l’irresolutezza nell’agire, ovvero l’incapacità di decidere; 2) la mancanza di disinvoltura, ovvero la goffaggine, l’impaccio nei rapporti interpersonali.

19)  Il primo personaggio che si presenta con i suddetti crismi è Alfonso Nitti, il protagonista di Una vita. Si tratta di un giovane che dopo la morte del padre (medico condotto), lascia la madre per venire a lavorare a Trieste, dove trova impiego presso la banca Maller. Ma quel lavoro non gli piace, ha ambizioni letterarie e nel tempo libero frequenta la biblioteca comunale (in questo, rispecchia la biografia di Svevo). Stringe una relazione “letteraria” con Annetta, la figlia di Maller, che progetta di scrivere un romanzo e lo vorrebbe come collaboratore. Più che dalla donna, Alfonso è attratto dalla sua figura sociale (e infatti disprezza la sua modesta intelligenza, la sua presunzione di scrittrice). Alfonso la seduce ma, quando potrebbe fare un salto di classe sposando la ricca ereditiera, fugge spaventato da Annetta e da Trieste, adducendo la scusa di una malattia della madre. La madre è davvero morente, ma questo Alfonso lo apprende solo quando arriva: la sua è una vera e propria fuga, sebbene sia stato consigliato da Francesca (amica di Annetta, con delle mire sul di lei padre, il banchiere Maller) di rimanere, se non vuole rischiare di perdere l'amore della frivola Annetta. E infatti, in sua assenza, Annetta s'impegna col cugino (Macario), e non ne vuole più sapere di Alfonso. Questi soffre in banca l'ostilità del principale (non viene più invitato in casa Maller, in banca gli vengono affidate mansioni di scarsa importanza) e, dopo un vano tentativo di rivedere Annetta, si uccide (in maniera originale: accendendo un braciere e respirando l’ossido di carbonio).

20)   Alfonso è un piccolo borghese che subisce una inferiorità sociale e psicologica rispetto al mondo alto borghese che frequenta (il salotto di casa Maller): questa condizione è alla radice di quella insicurezza che lo rende incapace alla vita. Si risarcisce dalle frustrazioni con i sogni di gloria letteraria, con la presunzione di una superiorità spirituale datagli dalla sua cultura umanistica (come fanno gli altri inetti “letterati” che compaiono nell’opera di Svevo: Arturo Marchetti, Emilio Brentani, Mario Samigli); ma nel mondo reale, dove vigono i valori del profitto, dell’efficienza produttiva, dell’energia nella realizzazione pratica, Alfonso è irrimediabilmente uno sconfitto: per questo fugge (si sente incapace di reggere il rapporto con Annetta e il mondo che lei rappresenta) e per questo si uccide (non sopporta l’umiliazione che gli viene inflitta da quel mondo).

Una vita: le “anticipazioni mentali” e il suicidio di Alfonso

21)  Ma anche nella scelta del suicidio, che è l’ultimo suggello della sua impotenza, Alfonso si auto-inganna, illudendosi di compiere un gesto di superiorità. Lui che è stato umiliato da Annetta (l’ha cercata, ha immaginato tutte le parole che le avrebbe detto, ma lei non si è presentata all’appuntamento), che è stato sfidato a duello dal fratello di lei, giustifica il suicidio come negazione della volontà di vivere, affermazione della noluntas, seguendo, pur senza citarlo, l’impostazione filosofica di Schopenhauer (autore letto ed assai amato da Svevo). Le pagine finali sono esemplari, sia nella parte in cui Alfonso teorizza la scelta del suicidio (la presenta come una scelta razionale, un atto eroico di rinuncia alla vita; in realtà vuole essere rimpianto da Annetta, da morto si illude di recuperare il suo affetto), sia nella parte precedente in cui cerca di calmarsi immaginando il discorso che le avrebbe fatto nel colloquio che è sicuro di ottenere – e che invece non otterrà (è una condizione psicologica che ritroveremo in Emilio Brentani, il protagonista di Senilità, che anticipa mentalmente ciò che deve dire ad Angiolina, l’amante che lo tradisce, e che invece non riuscirà a dire)

     La sua prima idea era stata di attendere l'occasione per parlare con Annetta, fermarla magari sulla via, ma poi gli parve di non poter vivere in quell'agitazione e volle levarsela subito. Il giorno appresso avrebbe scritto ad Annetta pregandola di accordargli un colloquio.

        Finì col farlo subito; gli parve che quell'attività gli avrebbe ridato la calma. Saltò dal letto e accese la lampada. Da lungo tempo a quel tavolo non aveva scritto; la penna irrugginita resisteva e dovette diluire l'inchiostro che non fluiva.

        Incominciò con un "Illustrissima signorina" che gli parve dignitoso e umile, e in brevi termini chiese il colloquio dicendo che aveva a comunicarle cosa di somma importanza per lui e, credeva, anche per lei. Se accordava questo colloquio, egli non ne dubitava, la pregava di portarsi fra le otto e le nove ore della sera del giorno appresso sul primo molo, il più vicino alla via dei Forni. Ebbe poi un accento d'ingenuo rammarico: "Non so più come trattarvi, o Annetta, perché voi forse mi odiate," e poi d'ironia altrettanto ingenua: "Firmo con nome e cognome perché al nome solo forse non mi riconoscereste."

        Non dormì ma era cessato quell'avvilimento che più volte gli aveva cacciato le lagrime agli occhi. Ora l'agitazione era di tutt'altra specie e facilmente scoperse che gli era derivata da quelle due frasi più dolci, quasi da innamorato imbizzito, dirette ad Annetta. Come aggradevolmente lo molceva il pensiero che il giorno appresso l'avrebbe riveduta! (…)

        Andò immaginando le parole che le avrebbe dette. Non si sarebbe scusato di averla sedotta perché sarebbe stato poco abile. La sua passione lo aveva trascinato e non sapeva pentirsi di un atto che gli aveva procurato la maggior felicità di cui in sua vita avesse goduto. Lo sapeva per averlo letto: Le donne perdonavano sempre gli omaggi alla loro bellezza e in qualunque modo venissero fatti, magari anche fossero delitti. Poi non avrebbe speso molte parole per rassicurarla sul suo conto, renderla certa che si sarebbe piuttosto lasciato ammazzare che dire una sola parola del segreto che a lei lo univa. (…) Doveva apparire quale un innamorato che non tiene troppo rancore per essere stato abbandonato e al quale anzi del suo amore è rimasta una dolce amicizia fraterna. Si sarebbe informato con affetto se essa allora era felice e avrebbe tentato di dimostrare una grande gioia nel caso molto probabile ch'ella avesse assicurato di amare Macario. Poteva invece avvenire che ella gli confessasse di non essere felice e si confidasse a lui con abbandono. In tal caso non v'era più difficoltà e non aveva bisogno di riflettere lungamente al contegno da seguire.

        (……………..)

Il suicidio gli avrebbe forse ridato l'affetto di Annetta. Come in quell'istante non l'aveva amata giammai. Non si trattava più d'interesse né di sensi. Quanto più egli l'aveva vista allontanarsi da lui tanto più l'aveva amata; ora che definitivamente perdeva ogni speranza di riconquistare quel sorriso, quell'affettuosa parola, la vita gli sembrava incolore, nulla. Una volta scomparso, Annetta non avrebbe più avuto il ribrezzo della paura per lui, per il suo ricordo, ed era tutto quello ch'egli poteva sperare. Non voleva vivere dovendo continuare ad apparirle quale un nemico spregevole sospettato di voler danneggiarla e farle pagare a caro prezzo gli stessi favori da lei accordatigli.

       Non aveva pensato mai al suicidio che col giudizio alterato dalle idee altrui. Ora lo accettava non rassegnato ma giocondo. La liberazione! Si rammentava che fino a poco prima aveva pensato altrimenti e volle calmarsi, vedere se quel sentimento giocondo che lo trascinava alla morte non fosse un prodotto della febbre da cui poteva essere posseduto. No! Egli ragionava calmo! Schierava dinanzi alla mente tutti gli argomenti contro al suicidio, da quelli morali dei predicatori a quelli dei filosofi più moderni; lo facevano sorridere! Non erano argomenti ma desideri, il desiderio di vivere.

       Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose. L'abbandonava senza rimpianto. Era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia che egli aveva sognata. Bisognava distruggere quell'organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo. Non avrebbe scritto ad Annetta. Le avrebbe risparmiato persino il disturbo e il pericolo che poteva essere per lei una tal lettera.



[1] Può ricordare la struttura di Delitto e castigo, ma la differenza è abissale: qui non è implicata la questione morale (che travolge Raskolnikov), c’è solo l’ansia del colpevole di venire scoperto (tema, peraltro, interessante anche questo, ma non adeguatamente sviluppato: la crisi precipita con troppa facilità, i comportamenti di Giorgio non sono sempre psicologicamente convincenti). Certamente, è già l'inetto, determinato dagli (e non determinante gli) avvenimenti, immobilizzato da un eccesso di coscienza (di pensiero), destinato, ovviamente, a soccombere.   
[2] Si noti l’uso del “tempo misto”:  viene anticipato un evento futuro (come poco prima, quando dice “come appresi poi”)

(III parte)

Ripresa della lezione precedente: l’autoinganno del suicidio di Alfonso

1)      Alfonso decide di uccidersi perché non sopporta l’ultima umiliazione che ha subito: Annetta non è venuta all’appuntamento e anzi è venuto suo fratello che l’ha sfidato a duello. Ma anche nella scelta del suicidio, che è, a ben guardare, l’ultimo suggello della sua impotenza, Alfonso si auto-inganna, illudendosi di compiere un gesto di superiorità (“era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii”): con sicurezza, quasi con entusiasmo (“lo accettava non rassegnato ma giocondo”, e l’aggettivo “giocondo” è ripetuto subito dopo) teorizza il suicidio come una scelta razionale, filosofica, di rinuncia alla vita, come negazione della volontà di vivere, affermazione della noluntas (il riferimento a Schopenhauer sembra evidente laddove dice: “Bisognava distruggere quell'organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo”: l’organismo di cui si parla è l’organismo vivente, determinato, secondo Schopenhauer, da una cieca e assoluta volontà di vivere, e dunque non conosce pace, è sempre impegnato nella “lotta” per la vita; il “filosofo” Alfonso vuole affermare la propria superiorità, opponendo, col suicidio, a quella forza cieca e assoluta, una non-volontà, la propria volontà di non vivere).

2)      Ma se guardiamo il passo con più attenzione vediamo che quel suicidio ha altre motivazioni: in realtà Alfonso vuole essere rimpianto da Annetta, da morto si illude di recuperare il suo affetto. Lo dice chiaramente nel paragrafo iniziale, ma anche prima, riflettendo sul fatto che lei gli aveva mandato il fratello per sfidarlo a duello, aveva concluso che solo se lui fosse morto lei si sarebbe riappacificata, l’avrebbe amato ancora (“Annetta lo voleva morto! Desiderò che le riuscisse e poi lo rimpiangesse. Sognava che l’amore per lui, senz’altra causa, un giorno le rinascesse nel cuore e che ella andasse alla sua tomba a spargervi fiori e lacrime.” – per inciso, sembra una ripresa dal Petrarca di Chiare fresche dolci acque). Dunque la teorizzazione filosofica è un auto-inganno, l’inetto mente a se stesso, o meglio, mescola verità e menzogne: la verità sta nel riconoscimento della sua incapacità di vivere, la menzogna nella copertura filosofica che cerca di dare a tale condizione.

Autoinganno e menzogna in Senilità

3)      L’auto-inganno, ovvero il mentire a se stesso per non ammettere la propria inettitudine, è una caratteristica che ritorna nei protagonisti dei romanzi successivi. In Senilità (secondo alcuni, il più bello dei romanzi di Svevo) è proprio il narratore che si incarica di svelare le menzogne di Emilio Brentani, e basta leggere la pagina iniziale per rendersene conto. Ma prima sarà opportuno ricordare brevemente la trama del romanzo. Anzitutto il titolo: non ci sono vecchi nel romanzo, di Emilio si dice che aveva trentacinque anni e che sua sorella Amalia era di qualche anno più giovane di lui. La “senilità” di cui si parla è dunque una condizione non anagrafica ma psicologica, la condizione di chi è privo di energie vitali, subisce gli eventi, è incapace di imporre la propria volontà: tale è appunto la condizione di Emilio – un modesto impiegato (in un’agenzia di assicurazioni) con la passione per la letteratura (ha scritto un romanzo con una modesta risonanza locale: si noti, ancora, il motivo autobiografico) – così come della sorella Amalia (“piccola e pallida”, più giovane di lui, ma “più vecchia per carattere, o forse per destino”, che “viveva per lui come una madre dimentica di se stessa”, insomma una casalinga che non ha mai vissuto, non ha mai conosciuto l’amore). Emilio “aggancia” una ragazza, Angiolina, e si illude di vivere con lei una facile avventura amorosa, che potrà troncare quando vorrà, come capita a tanti uomini, ad esempio al suo amico Stefano Balli, scultore, di modesto successo artistico, ma vitale, di forte personalità, brillante e simpatico nei rapporti umani, in particolare con le donne, che lui conquista con facilità. Ed ecco le pagine iniziali del romanzo:

Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso così: - T'amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d'accordo di andare molto cauti. - La parola era tanto prudente ch'era difficile di crederla detta per amore altrui, e un po' più franca avrebbe dovuto suonare così: - Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera la mia famiglia.

        La sua famiglia? Una sorella non ingombrante né fisicamente né moralmente, piccola e pallida, di qualche anno più giovane di lui, ma più vecchia per carattere o forse per destino. Dei due, era lui l'egoista, il giovane; ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa, ma ciò non impediva a lui di parlarne come di un altro destino importante legato al suo e che pesava sul suo, e così, sentendosi le spalle gravate di tanta responsabilità, egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità. A trentacinque anni si trovava nell'anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l'amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza.

        La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché intanto si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L'altra carriera era letteraria e, all'infuori di una riputazioncella, soddisfazione di vanità più che d'ambizione - non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancora meno. Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia. Il romanzo, stampato su carta cattiva, era ingiallito nei magazzini del libraio, ma mentre alla sua pubblicazione Emilio era stato detto soltanto una grande speranza per l'avvenire, ora veniva considerato come una specie di rispettabilità letteraria che contava nel piccolo bilancio artistico della città. La prima sentenza non era stata riformata, s'era evoluta.           

        Per la chiarissima coscienza ch'egli aveva della nullità della propria opera, egli non si gloriava del passato, però, come nella vita così anche nell'arte, egli credeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di preparazione, riguardandosi nel suo più segreto interno come una potente macchina geniale in costruzione, non ancora in attività. Viveva sempre in un'aspettativa, non paziente, di qualche cosa che doveva venirgli dal cervello, l'arte, di qualche cosa che doveva venirgli di fuori, la fortuna, il successo, come se l'età delle belle energie per lui non fosse tramontata.

4)      Proprio nell’incipit, ci scontriamo con due livelli di menzogna da parte del protagonista: uno consapevole (dice di desiderare una relazione non compromettente per amore di lei; ma il narratore ci avverte che, se fosse stato sincero, avrebbe detto: “per me non sarai che un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia”) ed uno inconsapevole (ma subito brutalmente svelato dal narratore, che ironizza sia sulla famiglia sia sulla carriera, anche attraverso diminutivi sprezzanti: impieguccio, famigliuola, riputazioncella).

5)      Nel romanzo abbiamo quindi due prospettive: quella di Emilio, che mente a se stesso, e quella del narratore, che denuncia la menzogna. A volte lo dice apertamente (egli mentiva...), a volte lo smascheramento è affidato all’ironia, a un semplice aggettivo od avverbio rivelatore (In passato egli aveva vagheggiato delle idee socialiste, naturalmente senza mai muovere dito per attuarle: quel naturalmente denuncia l’inettitudine di Emilio). Un altro procedimento usato è quello di riportare, senza commenti, il pensiero di Emilio (ad esempio, attraverso il discorso indiretto libero), lasciando che sia lo stridente contrasto con la realtà oggettiva a svelarne la ridicola inadeguatezza (In compenso dell’amore che ne riceveva, egli non poteva darle che una cosa soltanto: la conoscenza della vita, l’arte di approfittarne. Anche il suo era un dono preziosissimo, perché con quella bellezza e quella grazia, diretta da persona abile come era lui, avrebbe potuto essere vittoriosa nella lotta per la vita: la convinzione di Emilio di essere abile ed esperto della vita, si scontra con l’immagine che già abbiamo di lui, quella di un uomo, al contrario, timoroso della vita, tutt’altro che vincente). Proseguiamo nella lettura:

Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa da una bella salute, camminava accanto a lui, la testa china da un lato come piegata dal peso del tanto oro che la fasciava, guardando il suolo ch'ella ad ogni passo toccava con l'elegante ombrellino come se avesse voluto farne scaturire un commento alle parole che udiva. Quando credette di aver compreso disse: - Strano - timidamente guardandolo sottecchi. - Nessuno mi ha mai parlato così. - Non aveva compreso e si sentiva lusingata al vederlo assumere un ufficio che a lui non spettava, di allontanare da lei il pericolo. L'affetto ch'egli le offriva ne ebbe l'aspetto di fraternamente dolce.

        Fatte quelle premesse, l'altro si sentì tranquillo e ripigliò un tono più adatto alla circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche che nei lunghi anni il suo desiderio aveva maturate e affinate, ma, facendole, egli stesso le sentiva rinnovellare e ringiovanire come se fossero nate in quell'istante, al calore dell'occhio azzurro di Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non aveva provato, di comporre, di trarre dal proprio intimo idee e parole: un sollievo che dava a quel momento della sua vita non lieta, un aspetto strano, indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava! Raggiante di gioventù e bellezza ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il triste passato di desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l'avvenire ch'ella, certo, non avrebbe compromesso (sono riportati i pensieri di Emilio tramite il discorso indiretto libero).

        Egli s'era avvicinato a lei con l'idea di trovare un'avventura facile e breve, di quelle che egli aveva sentito descrivere tanto spesso e che a lui non erano toccate mai o mai degne di essere ricordate. Questa s'era annunziata proprio facile e breve. L'ombrellino era caduto in tempo per fornirgli un pretesto di avvicinarsi ed anzi - sembrava malizia! - impigliatosi nella vita trinata della fanciulla, non se n'era voluto staccare che dopo spinte visibilissime. Ma poi, dinanzi a quel profilo sorprendentemente puro, a quella bella salute - ai rétori corruzione e salute sembrano inconciliabili (il narratore ironizza sulla sua predisposizione a deformare la realtà secondo schemi letterari)- aveva allentato il suo slancio, timoroso di sbagliare e infine s'incantò ad ammirare una faccia misteriosa dalle linee precise e dolci, già soddisfatto, già felice.

         Ella gli aveva raccontato poco di sé e per quella volta, tutto compreso del proprio sentimento, egli non udì neppure quel poco. Doveva essere povera, molto povera, ma per il momento - lo aveva dichiarato con una certa quale superbia - non aveva bisogno di lavorare per vivere. Ciò rendeva l'avventura anche più gradevole, perché la vicinanza della fame turba là dove ci si vuol divertire (ancora il discorso indiretto libero). Le indagini di Emilio non furono dunque molto profonde ma egli credette che le sue conclusioni logiche, anche poggiate su tali basi, dovessero bastare a rassicurarlo. Se la fanciulla, come si sarebbe dovuto credere dal suo occhio limpido, era onesta, certo non sarebbe stato lui che si sarebbe esposto al pericolo di depravarla; se invece il profilo e l'occhio mentivano, tanto meglio. C'era da divertirsi in ambedue i casi, da pericolare in nessuno dei due.

6)      Nella rappresentazione di Angiolina, riconosciamo ancora il punto di vista deformante di Emilio (come discorso indiretto libero); idealizza secondo schemi letterari la figura della donna (il volto illuminato dalla vita..., tanto oro..., raggiante di gioventù e bellezza..., quel profilo sorprendentemente puro..., ecc.), che certo non corrisponde a quella idealizzazione, come si preoccupa di farci capire il narratore (non solo con un giudizio secco - ai retori corruzione e salute sembrano inconciliabili - ma anche lasciandoci intravedere nell’occasione dell’incontro - l’ombrellino caduto ed impigliatosi nel suo vestito - la malizia della donna navigata).

Senilità: la trama

7)      Tornando alla trama, Angiolina è, come si è capito, una ragazza “leggera”, di facili costumi, tutt’altro che la figura idealizzata da Emilio, che la chiama Ange (laddove il Balli, che ne riconosce subito la natura non angelica ma molto carnale – mangia con voracità formaggi e salumi – la chiamerà Giolona). Ma proprio per la sua esuberanza e vitalità, Emilio, che si illudeva di dominare nel rapporto, se ne innamora, quindi da dominatore diventa dominato, soffre perché intuisce i tradimenti della donna, vuole chiudere la relazione con lei ma non ne è capace. Intanto Amalia si innamora di Stefano, che vede spesso in casa in quanto amico del fratello. Emilio se ne rende conto perché la sente di notte che invoca il nome di Stefano nel delirio di un sogno, quindi invita l’amico a non frequentare più la sua casa. Amalia ne soffre talmente che cerca di stordirsi annusando l’etere; questo la indebolisce, si ammala di polmonite e muore. Quando è moribonda, Balli dice ad Emilio che ha dovuto respingere delle avances di Angiolina. Emilio, un po’ perché non può più ingannarsi sulla reale natura di Angiolina, un po’ perché, per quanto lo neghi, avverte come una colpa nei confronti della sorella la sua relazione, decide di andare ad un ultimo appuntamento per chiudere definitivamente con Angiolina: ma con calma, da essere superiore. Senonché, quando la trova più arrogante e spavalda che mai (non ha tempo per lui, deve andare ad un altro appuntamento), svaniscono i propositi di calma superiore, la scuote tenendola per un braccio, la copre di insulti e quando lei fugge non trova di meglio che tirarle, in maniera molto infantile, una manciata di sassolini. Ma qualche tempo dopo riprende a soffrire quando viene a sapere che è fuggita con il cassiere infedele di una banca. Emilio rientra nella senilità di sempre, ma continua ad ingannarsi perché nel ricordo la idealizza. La vede con la sua bellezza, ma con le qualità di Amalia e “con l’occhio limpido e intellettuale”.[1]

Senilità: la novità rispetto a Una vita

8)      Se ci chiediamo che differenze ci siano fra questo romanzo e il precedente, sottolineerei due aspetti: innanzi tutto qui la vicenda è imperniata su quattro personaggi (Emilio, Amalia, Stefano, Angiolina) e sulle loro relazioni, laddove in Una vita i personaggi sono tanti (non ci sono solo il protagonista ed Annetta, c’è l’amico rivale Macario, c’è il banchiere Maller, c’è Francesca, governante in casa Maller e amante del banchiere, c’è Lucia Lanucci, la figlia nella famiglia presso cui Alfonso sta a pensione); in secondo luogo, mentre Una vita – pur soffermandosi sui pensieri e le immaginazioni del protagonista – ha ancora un impianto naturalistico, cioè ci sono descrizioni d’ambiente, sia di quello impiegatizio (la banca dove lavora Alfonso) sia di quello sociale (all’ambiente alto-borghese di casa Maller si contrappone quello proletario di casa Lanucci), in Senilità la vicenda è povera di eventi, diventa assolutamente centrale l’analisi dell’interiorità, ovvero dei pensieri e delle immaginazioni del protagonista (che l’autore riporta attraverso il discorso indiretto libero), tendono a scomparire le descrizioni d’ambiente (poche righe sono dedicate al lavoro di Emilio, e lo stesso può dirsi dei luoghi di Trieste, della casa di Emilio o di quella di Angiolina). Si afferma insomma la novità della narrativa sveviana, interessata più all’interiorità del personaggio, alla sua coscienza, che all’esteriorità della vicenda e dell’ambientazione.



[1] Ne ha fatto un film Bolognini nel 1962, con Anthony Franciosa (Emilio), Claudia Cardinale (Angiolina), Philippe Leroy (Balli), Betsy Blair (Amalia).


(IV parte)

Senilità: la “cena dei vitelli”

1)      Leggiamo ora un passo tratto dall’episodio della cosiddetta “cena dei vitelli” (i protagonisti la chiamano così perché in quell’occasione hanno mangiato solo vitello, in  tutte le salse). Emilio ha confidato all’amico Stefano i suoi dubbi, le sue ansietà a proposito di Angiolina e chiede un consiglio. Stefano, che vuole insegnargli come si trattano le donne, come si vive con leggerezza un’avventura, gli propone di incontrarsi in quattro (lui con la donna che sta frequentando in quel momento, una certa Margherita, Emilio con Angiolina) e cenare insieme. La cena naturalmente diventa un’occasione in cui brillano la personalità sicura, la simpatia e la chiacchiera straripante di Stefano, che trova subito corrispondenza in Angiolina, mentre Margherita (mite e sottomessa) ed Emilio sono ridotti pressoché al silenzio:

Margherita si pose fra Stefano e Emilio; Angiolina sedette l'ultima in faccia a lei e, ancora in piedi, rivolse un'occhiata strana al Balli. Ad Emilio parve di sfida, ma lo scultore l'interpretò meglio: - Cara Angiolina, - le disse senza complimenti, - ella mi guarda così sperando ch'io trovi bello anche il suo naso, ma non serve (quando si sono presentati, Balli, che è uno scultore e conosce le linee del volto, le ha detto che ha dei begli occhi ma un brutto naso, che dovrebbe essere rifatto). Il suo naso dovrebbe essere fatto così. - Segnò sul tavolo, col dito bagnato nella birra, la curva che egli voleva, una linea grossa che sarebbe stato difficile figurarsi su un naso.

Angiolina guardò quella linea come se avesse voluto apprenderla, e si toccò il naso: - Sta meglio così - disse a mezza voce come se non le fosse più importato di convincere nessuno.

- Che cattivo gusto! - esclamò il Balli non potendo però tenersi dal ridere. Si capì che da quel momento Angiolina lo divertì molto. Continuò a dirle delle cose sgradevoli ma pareva lo facesse per provocarla a difendersi. Ella stessa ci si divertiva. Nel suo occhio c'era per lo scultore la medesima benevolenza che brillava in quello di Margherita; una donna copiava l'altra, ed Emilio, dopo aver cercato invano di cacciare qualche parola nella conversazione generale, era ora intento a domandarsi perché avesse organizzata quella adunanza.

Ma il Balli non lo aveva dimenticato. Seguì il suo sistema, che pareva dovesse essere la brutalità, persino col cameriere. Lo sgridò perché non gli offriva di cena altro che vitello in tutte le salse; rassegnatosi a prenderne, gli diede i suoi ordini e quando il cameriere stava già per uscire dalla stanza, gli gridò dietro in un nuovo comico accesso d'ira ingiustificata: - Bastardo, cane! - Il cameriere si divertì a esser sgridato da lui ed eseguì tutti i suoi ordini con una premura straordinaria. Così, avendo domato tutti intorno a sé, al Balli parve d'aver dato ad Emilio una lezione in piena regola. (dunque la lezione consiste nel trattare gli altri, in particolare le donne, con brutalità, da superiore ad inferiore)

Ma a costui non riuscì d'applicare quei sistemi neppure nelle cose più piccole. Margherita non voleva mangiare: - Bada, disse il Balli, - è l'ultima sera che passiamo insieme; non posso soffrire le smorfie io! - Ella acconsentì che si facesse da cena anche per lei; tanto presto le venne l'appetito che ad Emilio sembrò di non avere avuto giammai da Angiolina un tale segno di affetto. Intanto anche questa, dopo lunga esitazione, aveva dichiarato di non volerne sapere di vitello

- Hai inteso, - le disse Emilio, - Stefano non può soffrire le smorfie. - Ella si strinse nelle spalle; non le importava di piacere a nessuno, e ad Emilio parve che il disprezzo fosse diretto piuttosto a lui che al Balli. (Emilio, un po’ comicamente, si è subito adeguato alla imposizione di Stefano; Angiolina invece, che è uno spirito libero, non ci pensa nemmeno, anzi disprezza Emilio perché ne riconosce la sudditanza nei confronti di Stefano)

- Questa cena di vitelli - disse il Balli con la bocca piena guardando in faccia gli altri tre - non è precisamente una cosa molto armonica. Voi due stonate insieme; tu nero come il carbone, ella bionda come una spiga alla fine di Giugno, sembrate messi insieme da un pittore accademico. Noi due poi si potrebbe metterci sulla tela col titolo: Granatiere con moglie ferita.

Con sentimento molto giusto, Margherita disse: - Non si va mica insieme per farsi vedere dagli altri. - Il Balli, serio e brusco anche in quell'atto affettuoso, le diede in premio un bacio sulla fronte.

Angiolina, con un pudore nuovo, s'era messa a contemplare il soffitto. - Non faccia la schizzinosa, - le disse il Balli corrucciato. - Come se voi due non faceste di peggio.

- Chi lo dice? - chiese Angiolina subito minacciosa verso Emilio

- Io no - protestò poco felicemente il Brentani.

- E che cosa fate insieme tutte le sere? Io non lo vedo mai dunque è con lei ch'egli passa le sue serate. Ha da capitargli anche l'amore, in quella verde età! Addio bigliardo, addio passeggiate. Io resto solo ad aspettarlo o bisogna m'accontenti del primo imbecille che mi viene per i versi. Ci eravamo trovati tanto bene insieme! Io, la persona più intelligente della città e lui la quinta, perché dopo di me vi sono tre posti vuoti e subito al prossimo c'è lui.

Margherita, che in seguito a quel bacio aveva riacquistata tutta la sua serenità, ebbe per Emilio un'occhiata affettuosa - Davvero! Mi parla continuamente di lei. Le vuole molto bene

Invece ad Angiolina parve che la quinta intelligenza della città fosse poca cosa, e conservò tutta la sua ammirazione per chi ne era la prima. - Emilio mi ha raccontato ch'ella canta tanto bene. Canti un po'. L'udrei tanto volentieri.

- Non mi mancherebbe altro. Dopo di cena io riposo. Ho la digestione difficile come quella di un serpente (i due sono simili: Stefano si rifiuta ad una richiesta di Angiolina così come poco prima lei si era rifiutata di compiacere lui; laddove da parte di Margherita ed Emilio ci sono solo sottomissione e consenso).

Margherita sola intuì lo stato d'animo di Emilio. I suoi occhi, posandosi su Angiolina, divennero serii; poi si rivolse ad Emilio, si dedicò a lui, ma per parlargli di Stefano: - Talvolta è brusco, certo, ma non sempre, e anche quando lo è non incute spavento. Si fa quello che vuole lui, perché gli si vuol bene. Poi, sempre a voce bassa, modulata dolcemente, ella disse: Un uomo che pensa è tutt'altra cosa di quelli che non pensano. - Si capiva che parlando di quegli altri, pensava a gente in cui s'era imbattuta ed egli, distratto per un istante dal suo doloroso imbarazzo, la guardò con compassione. Ella aveva ragione d'amare negli altri le qualità che le giovavano; da sola, così dolce e debole, non si sarebbe potuta difendere (Margherita è sensibile, capisce che la debolezza di Emilio è simile alla propria; chi non lo capisce è Emilio, che prova compassione per lei e invece dovrebbe provarla anche per se stesso).

Ma il Balli si ricordò di nuovo di lui: - Come sei ammutolito! - Poi, rivolto ad Angiolina, chiese: - E’ sempre così nelle lunghe sere che passate insieme?

Ella che pareva dimentica dei suoi inni d'amore, disse con malumore: - E’ un uomo serio.

Il Balli ebbe la buona intenzione di risollevarlo: ne tessé la biografia caricandola: - Come bontà è lui il primo ed io il quinto. E’ il solo maschio col quale io abbia saputo andar d'accordo. E’ il mio alter ego, il mio altro io, pensa come me, e... è sempre del mio parere quando io subito non so essere del suo. - All'ultima frase aveva dimenticato il proposito col quale aveva cominciato a parlare (ha sottolineato la debolezza di Emilio, la sua incapacità di imporsi, la sua subalternità ad una personalità più forte) e, di buon umore, schiacciava Emilio sotto il peso della propria superiorità. Quest'ultimo non seppe far altro che comporre la bocca ad un sorriso.

Poi sentì che sotto quel sorriso doveva essere ben facile d'indovinare uno sforzo e, per simulare meglio disinvoltura, volle parlare. S'era discorso, - egli non sapeva neppure da chi, - di far posare Angiolina per una figura che il Balli ideava. Egli era d'accordo: - Si tratta già di copiare la sola testa - disse ad Angiolina come se non avesse saputo che ella avrebbe accordato anche di più. Ma ella, senza interpellarlo, mentre egli era stato distratto dai discorsi di Margherita, aveva già accettato, e, bruscamente, interruppe le parole di Emilio, che, per nulla spontanee, s'erano disposte in una perorazione fuori di luogo, esclamando: - Ma se ho già accettato (di grande comicità: l’intervento di Emilio è stato ridicolizzato).

Il Balli ringraziò e disse che ne avrebbe sicuramente approfittato, ma soltanto di a qualche mese, perché, per il momento, era troppo occupato con altri lavori (il Balli è superiore, non si concede con facilità). La guardò lungamente sognando la posa in cui l'avrebbe ritratta e Angiolina divenne rossa dal piacere. Almeno Emilio avesse avuto un compagno di sofferenza. Ma no! Margherita non era affatto gelosa, e guardava Angiolina anche lei con l'occhio d'artista. Stefano ne avrebbe fatta una cosa bella, disse, e parlò con entusiasmo delle sorprese che le aveva date l'arte, quando dall'argilla docile usciva una faccia, un'espressione, la vita.

Il Balli presto si rifece brusco. - Lei si chiama Angiolina? Un vezzeggiativo con codesta statura da granatiere? Angiolona la chiamerò io, anzi Giolona. - E da allora la chiamò sempre così con quelle vocali larghe, larghe, il disprezzo stesso fatto suono. Emilio si sorprese che il nome non dispiacesse ad Angiolina; ella non se ne adirò mai e quando il Balli glielo urlava nelle orecchie, rideva come se qualcuno le avesse fatto il solletico.

2)      E’ dunque evidente che alla “cena dei vitelli” le coppie si compongono in modo diverso: da una parte Stefano e Angiolina, accomunati da una esuberante vitalità, dalla sicurezza di sé (si sono come annusati all’inizio, con diffidenza, ma poi si sono riconosciuti simili, Angiolina si diverte, ride, non si adira quando lui la chiama Giolona con tono sprezzante); dall’altra Stefano e Margherita, accomunati dalla debolezza di carattere, dalla insicurezza, di cui Margherita sembra più consapevole di Emilio).

Senilità: le anticipazioni mentali dell’inetto

3)      Uno dei modi in cui si manifesta l’inettitudine, abbiamo detto, è quello di progettare dei discorsi che poi l’inetto non riesce a fare, anticipare mentalmente delle parole che poi non riesce a dire, ad immaginare atteggiamenti di superiorità che non riesce a tenere. C’è un bell’episodio in Senilità, ed è quando il Balli, una sera, avverte l’amico Emilio di avere appena visto Angiolina in affettuosa compagnia di un uomo (l’ombrellaio, un negoziante che vende ombrelli). Emilio finge indifferenza, dice che ci penserà nei giorni successivi, per ora ha troppo sonno e intende andare a dormire:

Si diresse verso casa per andare a coricarsi.

Ma, giunto al Chiozza, si fermò a guardare verso la stazione, la parte della città ove Angiolina faceva all'amore con l'ombrellaio. - Eppure - pensò e pensò l'idea e le parole - sarebbe bello ch'ella passasse per di qua ed io potessi subito dirle che fra di noi tutto è finito. Allora sì che tutto sarebbe finito ed io potrei andare a dormire veramente calmo. Per di qua deve passare! S'appoggiò ad un paracarro e quanto più attendeva, tanto più forte si faceva la sua speranza di vederla quella stessa notte.

Per essere pronto pensò anche le parole che le avrebbe dirette. Dolci. Perché no? - Addio Angiolina. Io volevo salvarti e tu mi hai deriso. - Deriso da lei, deriso dal Balli! Una rabbia impotente gli gonfiò il petto. Finalmente egli si destava e tutta la rabbia e la commozione non lo addoloravano tanto come l'indifferenza di poco prima, una prigionia del proprio essere impostagli dal Balli (prima, appunto, ha finto indifferenza, per mostrare a Balli la propria superiorità; ma quella indifferenza l’aveva fatto soffrire). Dolci parole ad Angiolina? Ma no! Poche e durissime e fredde. - Io sapevo già ch'eri fatta così. Non mi sorprese affatto. Domandalo al Balli. Addio.

Camminò per calmarsi perché al pensare quelle fredde parole s'era sentito bruciare. Non offendevano abbastanza! Con quelle parole non offendeva che se stesso; si sentiva venire le vertigini. - Così si uccide - pensò - non si parla. - Una grande paura di se stesso lo calmò. Sarebbe stato ugualmente ridicolo anche uccidendola, si disse, come se egli avesse avuto un'idea da assassino. Non la aveva avuta; ma, rassicuratosi, si divertì a figurarsi vendicato con la morte di Angiolina. Quella sarebbe stata la vendetta che avrebbe fatto obliare tutto il male di cui ella era stata l'origine. Dopo, egli avrebbe potuto rimpiangerla, e lo pervase una commozione che gli cacciò le lagrime agli occhi (il pensiero della morte che poi suscita il rimpianto dell’innamorato, è anche presente, seppure con rapporti diversi, nel finale di Una vita).

Pensò che con Angiolina egli avrebbe dovuto seguire lo stesso sistema adottato col Balli. Quei due suoi nemici dovevano essere trattati nello stesso modo (sente come nemico anche il Balli, che pure è il suo amico da sempre; ma da sempre da una parte ne disprezza la mediocre intelligenza, dall’altra ne invidia la facilità del vivere). A lei egli avrebbe detto che non l'abbandonava causa il tradimento ch'egli s'era atteso, ma per il sozzo individuo ch'ella aveva scelto a suo rivale. Egli non voleva più baciare dove aveva baciato l'ombrellaio. Finché s'era trattato del Balli, del Leardi e magari del Sorniani, aveva chiuso un occhio, ma l'ombrellaio! Nell'oscurità studiò la smorfia di schifo con cui avrebbe detta questa parola.

Qualunque parola egli immaginasse di dirigerle, sempre veniva colto da un convulso riso. Avrebbe continuato a parlarle così tutta la notte? Era dunque necessario di parlarle subito. Ricordò ch'era probabile che Angiolina rincasasse dalla parte di via Romagna. Col suo passo rapido egli avrebbe ancora potuto raggiungerla. Non aveva finito di pensare tutto questo e, già, lieto di poter prendere una decisione che tagliasse il dubbio che gli annebbiava la mente, si mise a correre. Il movimento dapprima gli diede un po' di sollievo. Poi rallentò il passo reso esitante da una nuova idea. Se essi rincasavano da quella parte, non sarebbe stato più sicuro, per ritrovarli, di salire alla via Fabio Severo dalla parte del Giardino Pubblico e discenderne andando loro incontro per via di Romagna? La corsa non gli faceva paura e avrebbe impreso quel giro enorme; ma in quella gli parve di veder passare dinanzi al caffè Fabris Angiolina accompagnata da Giulia e da un uomo che doveva essere l'ombrellaio. A tanta distanza riconobbe la fanciulla saltellante graziosamente come quando voleva piacere a lui. Cessò di correre perché aveva tutto il tempo per raggiungerli. Poté anche pensare senza esasperarsi le parole che le avrebbe dirette subito. Perché circondare quell'avventura di tanti particolari e pensieri strani? Era un'avventura solita, e di là a pochi minuti sarebbe stata liquidata nel modo più semplice (mente a se stesso: per lui non è certo un’avventura solita, e sta dimostrando con la miriade di pensieri che gli frullano per la testa che non è per niente semplice liquidarla).

Giunto sotto all'erta di via Romagna, non vide più le persone che dovevano averla già passata. Camminò più presto colto da un dubbio che l'affannò quanto la salita. E se non fosse stata Angiolina? Come avrebbe potuto lottare contro la propria agitazione, sempre rinascente, per tutta una notte?

Quantunque ora si trovassero a pochi passi da lui, nell'oscurità egli continuò a credere che quelle tre persone fossero quelle che egli cercava. Perciò ebbe un momento di calma. Era tanto facile di calmarsi quando poteva procedere subito ad un'azione! Quel gruppo ricordava quell'altro di cui il Balli gli aveva fatta la descrizione. In mezzo a due donne camminava un uomo grosso e tarchiato che dava il braccio a quella ch'egli aveva creduta Angiolina, e che ora però non aveva niente di caratteristico nel suo modo di muoversi. La guardò in faccia con lo sguardo calmo e ironico preparato con tanta fatica (ha preparato anche lo sguardo!). Ebbe una grande sorpresa vedendo una faccia ignota, di vecchia, asciutta asciutta.

Una delusione dolorosa. Nel desiderio di non lasciare così quel gruppo cui l'aveva attaccato tanta speranza, ebbe l'idea di chiedere a quella gente se forse non avessero visto Angiolina, e pensava già il modo con cui l'avrebbe descritta. Si vergognò! Una sola parola che avesse detta, e tutti avrebbero indovinato tutto. Continuò a camminare con passo celere che presto degenerò in corsa. Vedeva dinanzi a sé un lungo tratto di strada bianca e ricordò che, quando avrebbe girato, ne avrebbe visto un altro altrettanto lungo e poi un altro. Interminabile! Ma bisognava uscire dal dubbio e per il momento il dubbio era se Angiolina si trovasse su quella strada o altrove.

Un'altra volta pensò le frasi ch'egli le avrebbe dirette quella notte stessa o la mattina appresso. Dignitosamente (quanto più aumentava la sua agitazione, tanto più calmo egli si sognava) dignitosamente le avrebbe detto che per liberarsi di lui le sarebbe bastato di dirgli una parola, una sola parola. Non sarebbe occorso deriderlo. - Io mi sarei ritirato subito. Non mi occorreva di esser cacciato dal mio posto da un ombrellaio. - Ripeté più volte questa frase, modificandone qualche parola e cercando di perfezionare anche il suono della voce che diveniva sempre più ironico e tagliente. Cessò quando s'accorse che, per lo sforzo di trovare l'espressione, urlava.

4)       Ovviamente quella sera non incontra Angiolina. La va a cercare il giorno dopo, la trova in casa e, per quanto lei menta in vari modi (sostenuta dalla madre, che le tiene bordone), lui riesce a dirle: “Quando avrò riacquistato la mia calma potremo anche rivederci. Ma per lungo tempo è meglio che restiamo divisi.” Ma è appena uscito dalla stanza che si tormenta all’idea di non poterla rivedere, soprattutto perché gli pare di averle sentito emettere un gemito di dolore al vederlo allontanarsi. Ovviamente non sa resistere e dopo qualche tempo, incontrandola per strada, le chiede di accompagnarla e riprende la relazione, sempre tormentandosi perché non può non vedere gli indizi dei suoi tradimenti (arriva tardi agli appuntamenti, sembra conoscere l’affittacamere della casa di malaffare dove lui la conduce, usa delle espressioni che deve avere assimilato da qualche nuovo conoscente – può essere uno studente, visto che conosce delle canzoni goliardiche ed usa qualche latinismo; o un veneziano, visto che usa qualche parola in dialetto veneziano).

Senilità: l’ultimo appuntamento

5)       Mentre Amalia sta morendo, Emilio si ricorda di avere un appuntamento con Angiolina e, malgrado Balli (Emilio è andato a cercarlo per farsi aiutare, quando ha visto Amalia in quelle condizioni) cerchi di dissuaderlo, insiste dicendo che intende lasciarla definitivamente e immaginando di offrire alla sorella quella rottura come un “olocausto”. Balli lo lascia andare, facendosi promettere che non farà scenate alla ragazza:

Aveva risposto alle nuove raccomandazioni del Balli con un nuovo sorriso. L'aria rigida della sera lo scosse, lo refrigerò fino in fondo all'anima. Lui usare delle violenze ad Angiolina! Perché era lei la causa della morte d'Amalia? Ma quella colpa non poteva esserle rimproverata. Oh, il male avveniva, non veniva commesso. Un essere intelligente non poteva essere violento perché non v'era posto a odii. Per l'antica abitudine di ripiegarsi su se stesso e analizzarsi, gli venne il sospetto che forse il suo stato d'animo era risultato dal bisogno di scusarsi e di assolversi. Ne sorrise come di cosa comicissima. Come erano stati colpevoli lui e Amalia di prendere la vita tanto sul serio!

6)      Si sta giustificando: dice che il male accade senza che nessuno lo commetta, cioè a prescindere da responsabilità individuali; parla della non colpevolezza di Angiolina, in realtà vuole assolvere se stesso, perché si sente colpevole di avere trascurato la sorella al punto di non accorgersi che si stava stordendo con l’etere. Il sospetto gli viene, ma lo esorcizza sorridendone come di cosa comica e pensando che non poteva essere colpevole chi, come lui e la sorella, prendeva la vita tanto sul serio. Ma quell’ultima frase è carica di ambiguità. Emilio sembra avvertire confusamente che proprio lì sta il problema (e la colpa!), nell’aver represso, lui e la sorella, pulsioni e desideri naturali, nell’essere stati vittime della “serietà” di un moralismo piccolo-borghese, in definitiva nell’essersi negati alla vita: lì sta l’origine del male, che provoca la sofferenza di Emilio e conduce Amalia alla morte.

Alla riva, dopo di aver guardato l'orologio, si fermò. Qui il tempo appariva peggiore che non in città. Al sibilare del vento si univa imponente il clamore del mare, un urlo enorme composto dall'unione di varie voci più piccole. La notte era fonda; del mare non si vedeva che qua e biancheggiare qualche onda che il caos aveva voluto infranta prima di giungere a terra. Sui battelli, alla riva, si era sull'attenti e si vedeva qualche figura di marinaio, in alto, su quegli alberi che facevano la solita varia danza nelle quattro direzioni, lavorare nella notte e nel pericolo.

Ad Emilio parve che quel tramestìo si confacesse al suo dolore. Vi attingeva ancora maggiore calma. L'abito letterario gli fece pensare il paragone fra quello spettacolo e quello della propria vita. Anche , nel turbine, nelle onde di cui una trasmetteva all'altra il movimento che aveva tratto lei stessa dall'inerzia, un tentativo di sollevarsi che finiva in uno spostamento orizzontale, egli vedeva l'impassibilità del destino. Non v'era colpa, per quanto ci fosse tanto danno (a parte la sottolineatura dell’abitudine a vedere la realtà attraverso schemi letterari, Emilio ribadisce il bisogno di auto-assolversi: non c’è colpa, c’è l’ineluttabilità del destino, come un’onda è sospinta dall’altra senza che possa farci niente).

Accanto a lui un grosso marinaio piantato solidamente sulle gambe coperte di stivaloni, urlò verso il mare un nome. Poco dopo gli rispose un altro grido; egli allora si gettò su una colonna vicina, ne slegò una gomena che v'era attortigliata, l'allentò e la saldò di nuovo. Lentamente, quasi impercettibilmente, uno dei maggiori bragozzi si allontanò dalla riva ed Emilio comprese ch'era stato attaccato ad una boa vicina per salvarlo dalla terra.

Il grosso marinaio prese ora tutt'altra attitudine; s'era appoggiato alla colonna, aveva accesa la pipa e in quel diavoleto si godeva il suo riposo.

Emilio pensò che la sua sventura era formata dall'inerzia del proprio destino. Se, una volta sola nella sua vita, egli avesse avuto da slegare e riannodare in tempo una corda; se il destino di un bragozzo, per quanto piccolo, fosse stato affidato a lui, alla sua attenzione, alla sua energia; se gli fosse stato imposto di forzare con la propria voce i clamori del vento e del mare, egli sarebbe stato meno debole e meno infelice (cerca ancora di giustificare la propria inettitudine, accusando il destino, o la natura, che ha fatto di lui un intellettuale piccolo borghese e non un marinaio con compiti semplici e concreti: così si è autoassolto, io sono fatto così, non ho colpe; e sfugge alle sue responsabilità sia di fronte alla sorella, sia di fronte ad Angiolina).

Andò all'appuntamento. (…) Non c'era dolore in quell'ora in cui egli poteva fare proprio quello che la sua natura esigeva. Assaporava con voluttà quel sentimento calmo di rassegnazione e di perdono. Non pensò nessuna frase per comunicare il suo stato d'animo ad Angiolina; anzi il loro ultimo abboccamento doveva esserle assolutamente inesplicabile, ma egli avrebbe agito come se qualche essere più intelligente fosse stato presente a giudicare lui e lei.

Il tempo s'era risolto in un vento freddo e violento, ma continuo, uguale; nell'aria non c'era più alcuna lotta.

Angiolina gli venne incontro dal viale di Sant'Andrea. Vedendolo esclamò con grande stizza - una stonatura dolorosa nello stato d'animo di Emilio: - Son qui da mezz'ora. Ero in procinto di andarmene.

Egli, dolcemente, la trasse accanto ad un fanale e le fece vedere l'oriuolo che segnava precisamente l'ora stabilita per l'appuntamento.

- Allora mi sono ingannata - disse ella, non molto più dolcemente. Mentre egli andava studiando il modo con cui dirle che quello sarebbe stato l'ultimo loro incontro, ella si fermò e gli disse: - Per questa sera dovresti lasciarmi andare. Ci vedremo domani; fa freddo e poi...

Egli fu strappato all'indagine che sempre continuava su se stesso e la guardò, la osservò; comprese subito che non era il freddo che le faceva desiderare d'andarsene. Lo colpì inoltre di trovarla vestita con maggior accuratezza del solito. Un vestito bruno che non le aveva mai visto, elegantissimo, sembrava tirato fuori per qualche grande occasione; anche il cappello gli sembrò nuovo, e osservò persino delle scarpettine poco adatte per camminare a Sant'Andrea con quel tempo. - E poi? - ripeté egli fermandosele accanto e guardandola negli occhi.

- Senti, voglio dirti tutto - disse lei assumendo un aspetto di confidenza risoluta, assolutamente fuori di posto e continuò imperterrita, senz'accorgersi che lo sguardo di Emilio si faceva sempre più torvo: - Ho ricevuto un dispaccio dal Volpini con cui m'annunzia il suo arrivo. Non so che cosa egli voglia da me; ma a quest'ora, certo, si trova già a casa mia. (Volpini è il fidanzato ufficiale, il promesso sposo. E’ stato lo stesso Emilio a suggerirle di sposarsi per poi avere lui come amante, salvo poi tormentarsi di dubbi e gelosie quando la vede subito ben disposta a questa soluzione. E infatti lei si serve spesso della scusa del Volpini per andare ad altri appuntamenti)

Ella mentiva, non v'era alcun dubbio. (…) Sconvolto, rise triste: - Come? Colui che ieri ti scrisse quella lettera, oggi capita a ritirarla in persona ed anzi ti avvisa la sua venuta telegraficamente. Grandi affari! Grandi affari! Da dover ricorrere al telegrafo! E se tu ti ingannassi e in luogo del Volpini fosse un altro?

Ella sorrise ancora sicura di sé: - Ah, a te è stato raccontato dal Sorniani, che due sere fa mi ha visto a ora tarda sulla via, accompagnata da un signore? Avevo lasciata la casa dei Deluigi (sono degli amici di famiglia, dove lei dice di andare tutte le volte che ha appuntamenti con altri uomini) in quel momento, e avendo paura di camminar sola di notte, quella compagnia mi riuscì comoda. - Egli non l'udiva, ma l'ultima frase di quella ch'ella credeva fosse una giustificazione, la udì e, per la sua stranezza, la ritenne: - Quello era un Deo gratias qualunque. - Poi continuò: - Peccato che ho dimenticato a casa il dispaccio. Ma se non mi vuoi credere, tanto peggio. Non vengo forse sempre puntuale a tutti gli appuntamenti? Perché oggi avrei da inventare delle frottole per mancarvi?


- Oggi tu hai un altro appuntamento. Vattene presto! C'è qualcuno che t'attende.

- Ebbene, se credi di me questa cosa, è meglio ch'io me ne vada! - Parlava risoluta, ma non si mosse. (dunque, anche nella rottura non è lui che decide, ma lei; e lui, a dispetto di tutti i propositi di mostrare una calma superiore, non sopporta questo ultimo attestato della sua inferiorità; la sua rabbia esplode, eppure era venuto all’appuntamento col proposito di non essere violento perché lei non aveva nessuna colpa, visto che “il male accadeva, non veniva commesso”)

Le parole fecero a lui lo stesso effetto come se fossero state accompagnate dall'atto immediato. Ella voleva lasciarlo! - Aspetta prima un istante, che ci spieghiamo! - Anche nell'ira enorme che lo pervadeva tutto, egli pensò un momento se non fosse tuttavia possibile di ritornare allo stato di calma rassegnata in cui s'era trovato poco prima. Ma non sarebbe stato giusto di atterrarla e calpestarla? L'afferrò per le braccia per impedirle di andare, s'appoggiò al fanale che aveva dietro di sé e avvicinò la propria faccia sconvolta a quella di lei rosea e tranquilla. - E' l'ultima volta che ci vediamo! - urlò

- Sta bene, sta bene - disse ella occupata soltanto a liberarsi di quella stretta che le faceva male. - E sai perché? Perché tu sei una... - Esitò un istante, poi urlò quella parola che persino alla sua ira era sembrata eccessiva, la urlò vittorioso, vittorioso del suo stesso dubbio.

- Lasciami - gridò ella sconvolta dalla rabbia e dalla paura - lasciami o chiamo aiuto.

- Tu sei una... - replicò egli che finalmente, vedendola irritata, poteva rinunziare a percuoterla. - Ma credi dunque che io da lungo tempo non mi sia accorto con chi abbia avuto da fare Quando ti trovavo vestita da serva, sulle scale di casa tua -rammentò quella sera in tutti i particolari - con quello scialle grezzamente colorito sulla testa, le braccia calde di alcova, pensai subito la parola che ora t'ho detta (lei una volta si era travestita in quel modo per non farsi riconoscere, andando ad incontrare un altro uomo). Non volli dirtela e giuocherellai con te (mente: altro che gioco, noi sappiamo con che intensità e drammaticità ha vissuto quell’avventura) come facevano tutti gli altri, Leardi, Giustini, Sorniani e... e... il Balli.

- Il Balli! - rise ella urlando per farsi udire attraverso al rumore del vento e della voce d'Emilio. - Il Balli si vanta; non è vero niente.

- Perché lui non volle, quello sciocco, per riguardo a me come se a me potesse importare che t'abbia posseduta un uomo di meno, te... - e per la terza volta le disse quella parola Ella raddoppiò gli sforzi per svincolarsi, ma lo sforzo di trattenerla era ora per Emilio lo sfogo migliore; le cacciava con voluttà le dita nelle braccia morbide.

Egli sapeva che il momento in cui l'avrebbe lasciata libera, ella se ne sarebbe andata e tutto sarebbe stato finito, tutto e in modo tanto differente da quello ch'egli aveva sognato. - Ed io ti ho voluto bene - disse, forse tentando di mitigarsi, ma aggiunse subito: - Sempre però sapevo quello che tu sei. Sai quello che sei? - Oh, aveva trovata infine una soddisfazione bisognava obbligarla a confessare quello ch'ella era: - Di' su. Che cosa sei?

Ella ora, apparentemente estenuata, aveva paura; la faccia sbiancata, lo fissava con uno sguardo che chiedeva compassione. Si lasciava scuotere senza resistenza e a lui parve ch'ella stesse per cadere. Allentò la stretta e la sostenne. Tutt'ad un tratto ella si svincolò e si mise a correre disperatamente. Ella dunque aveva mentito ancora! Egli non avrebbe saputo raggiungerla; si chino, cercò un sasso, e non trovandone raccolse delle pietruzze che le scagliò dietro. Il vento le portò e qualcuna dovette colpirla perché ella gettò un grido di spavento; altre furono arrestate dai rami secchi degli alberi e produssero un rumore sproporzionatissimo all'ira che le aveva lanciate (il ridursi al gesto puerile di tirarle una manciata di sassolini è l’ultimo suggello alla sua impotenza).

Che fare ora? L'ultima soddisfazione cui aveva anelato, gli era stata negata. Ad onta di tanta sua rassegnazione tutto intorno a lui rimaneva rude, senza dolcezza; egli stesso era brutale! Le arterie gli battevano dalla sovraeccitazione; in quel freddo egli ardeva d'ira, di febbre, immobile sulle gambe paralitiche e già era rinato in lui l'osservatore calmo che lo rimproverava.

- Non la rivedrò mai più - disse come per rispondere ad un rimprovero. - Mai! Mai! - E quando poté camminare, questa parola gli risuonò nel rumore dei propri passi e nel sibilo del vento sul paesaggio sconsolato. Sorrise da solo ripassando per i luoghi per cui era venuto e ricordando le idee che lo avevano accompagnato a quell'appuntamento. Come rimaneva sorprendente la realtà!

Non andò subito a casa. Gli sarebbe stato impossibile d'atteggiarsi ad infermiere in quello stato d'animo. Il sogno lo possedeva intero, tanto che non avrebbe saputo dire per quali vie fosse poi rincasato. Oh! Se l'abboccamento con Angiolina fosse stato quale egli l'aveva voluto, avrebbe potuto andare diritto al letto d'Amalia senz'alterare neppure l'espressione della propria faccia.

Scoperse una nuova analogia fra la sua relazione con Angiolina e quella con Amalia. Da entrambe egli si distaccava senza poter dire l'ultima parola che avrebbe addolcito almeno il ricordo delle due donne. Amalia non poteva udirla; ad Angiolina egli non aveva saputo dirla.

7)      Nell’immaginazione di Emilio sono affiancate, si fondono e confondono, le due donne della sua vita: la sorella e l’amante, figura materna l’una, immagine dell’eros l’altra. Sono affiancate e accomunate dal fatto che ad entrambe Emilio non è riuscito a dire l’ultima parola. Ma quell’ultima parola mancata è l’attestazione di un fallimento complessivo, sul piano dei rapporti affettivi ed amorosi. Ha lasciato sola la sorella morente con l’intenzione di offrirle in “olocausto” la rottura con Angiolina, ma nell’ultimo incontro la rottura la subisce, non la determina. Ha progettato di mostrarsi calmo e superiore con Angiolina, ma invece di mantenere la calma si è lasciato andare ad una ridicola violenza. La verità è che non ha saputo amare né l’una né l’altra.

Senilità: la pagina finale

8)      Ma la fusione e confusione fra le due donne nella mente di Emilio ha il suo compimento nel finale del romanzo. Amalia è morta, Angiolina è fuggita col cassiere infedele di una banca. Emilio ne soffre, pensa con dolore sia all’una che all’altra. Col tempo però il dolore si affievolisce, Emilio rientra nella sua vita “senile”, ma nella sua immaginazione (di “letterato ozioso”, dice il narratore) Angiolina subisce una strana trasformazione:

Lungamente la sua avventura lo lasciò squilibrato, malcontento. Erano passati per la sua vita l'amore e il dolore e, privato di questi elementi, si trovava ora col sentimento di colui cui è stata amputata una parte importante del corpo. Il vuoto però finì coll'essere colmato.  Rinacque in lui l'affetto alla tranquillità, alla sicurezza, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio.

Anni dopo egli s'incantò ad ammirare quel periodo della sua vita, il più importante, il più luminoso. Ne visse come un vecchio del ricordo della gioventù. Nella sua mente di letterato ozioso,  Angiolina subì una metamorfosi strana. Conservò inalterata la sua bellezza, ma acquistò anche tutte le qualità d'Amalia che morì in lei una seconda volta. Divenne triste, sconsolatamente inerte, ed ebbe l'occhio limpido ed intellettuale. Egli la vide dinanzi a sé come su un altare, la personificazione del pensiero e del dolore e l'amò sempre, se amore è ammirazione e desiderio. Ella rappresentava tutto quello di nobile ch'egli in quel periodo avesse pensato od osservato.

Quella figura divenne persino un simbolo. Ella guardava sempre dalla stessa parte, l'orizzonte, l'avvenire da cui partivano i bagliori rossi che si riverberavano sulla sua faccia rosea, gialla e bianca. Ella aspettava! L'immagine concretava il sogno ch'egli una volta aveva fatto accanto ad Angiolina e che la figlia del popolo non aveva compreso.

Quel simbolo alto, magnifico, si rianimava talvolta per ridivenire donna amante, sempre però donna triste e pensierosa. Sì! Angiolina pensa e piange! Pensa come se le fosse stato spiegato il segreto dell'universo e della propria esistenza; piange come se nel vasto mondo non avesse più trovato neppure un Deo gratias qualunque.

9)      Finalmente, nel ricordo, Emilio realizza la sua aspirazione di sempre: fonde, nell’immagine trasfigurata di Angiolina, la donna-madre e la donna-sesso. E’ quello che ha sempre cercato di fare, idealizzandola sin dall’inizio e poi chiamandola Ange. Ma ora non c’è realtà che può smentire questa sua idealizzazione (o divinizzazione, visto che Emilio la vede come “su un altare”). Angiolina non solo ha acquisito “tutte le qualità di Amalia”, ma anche “divenne triste” ed “ebbe l’occhio limpido e intellettuale”: tutte cose, lo sappiamo, assolutamente estranee al carattere di Angiolina. Di più, è diventata il simbolo del sole dell’avvenire, cioè della speranza di un futuro socialista, lei che, lo sappiamo, quando Emilio aveva cercato di spiegarle la bontà del socialismo, aveva reagito con livore nei confronti degli operai, chiamandoli “invidiosi” e “fannulloni”.

10)  Dunque Emilio continua ad auto ingannarsi. E il narratore lo smaschera, impietosamente. L’ultimo paragrafo, molto discusso dai lettori, è rivelatore. Il narratore ci ha già segnalato gli auto inganni di Emilio, chiamandolo ironicamente “letterato ozioso”, definendo “strana” la metamorfosi di Angiolina, ma poi, appunto, rappresentando come simbolo del socialismo e “personificazione del pensiero e del dolore” quella che noi conosciamo come Giolona. Ora però, nelle ultime righe (“Sì! Angiolina pensa e piange! ecc.”) è il narratore stesso che commenta sarcasticamente l’idealizzazione di Emilio, non si tratta più dei pensieri di quest’ultimo: ne è spia l’uso del tempo presente, laddove invece, se si volesse riportare il pensiero di Emilio tramite il discorso indiretto libero, si userebbe il tempo imperfetto (vedi come esempio qualche passo delle pagine iniziali). Ed è quindi l’autore che si prende gioco dell’ultima mistificazione di Emilio, fa la parodia del suo pensiero: già con gli esclamativi (“Sì! Angiolina pensa e piange!”), poi con l’idea che lei possa aver capito e riflettere “sul segreto dell’universo e della propria esistenza”, in fine con l’immagine di lei che piange “come se nel vasto mondo non avesse più trovato neppure un Deo gratias qualunque”, alludendo maliziosamente al fatto che la ragazza tuttalpiù può piangere perché non trova neppure un’avventura occasionale (così lei aveva definito un tale incontrato per strada e da cui si era fatta accompagnare).

(V parte)

La coscienza di Zeno: struttura narrativa

1)   Vediamo ora il terzo romanzo, La coscienza di Zeno. Si tratta di una struttura narrativa nuova, sostanzialmente per due ragioni. Anzitutto, a differenza dei primi due romanzi, è narrato in prima persona. Infatti il romanzo, ce lo dice il narratore stesso, non è altro che la stesura delle proprie memorie, dei ricordi del proprio passato, una rievocazione della propria vita, che il protagonista avrebbe redatto su consiglio dello psicanalista. Zeno infatti dichiara di essere malato, la sua malattia è l’inettitudine: il lettore, che conosce i suoi due “fratelli carnali”, Alfonso ed Emilio (è Svevo stesso che li chiama così nel Profilo autobiografico), se ne rende conto, ma lui crede che si tratti di una debolezza di carattere dovuta al vizio del fumo; ad ogni buon conto, si affida alla psicanalisi, una terapia decisamente nuova per quei tempi (Svevo è uno dei primi, se non il primo, a utilizzare in letteratura le rivoluzionarie idee di Freud circa il funzionamento della mente umana, circa il fatto che le nostre azioni, i nostri comportamenti sono spesso determinati da una parte nascosta della nostra coscienza, dal  cosiddetto “inconscio”).

2)   La seconda novità riguarda la struttura cronologica della narrazione. Gli avvenimenti non sono narrati seguendo una linea temporale continua, gli avvenimenti cioè non si succedono secondo una cronologia naturale, per cui, di capitolo in capitolo, c’è un prima e c’è un dopo secondo lo scorrere naturale del tempo, come succede nei romanzi tradizionali (pensiamo ai Promessi sposi: la vicenda è narrata seguendo lo scorrere naturale del tempo, dal matrimonio impedito all’inizio al matrimonio che si compie alla fine). La coscienza di Zeno invece, proprio perché si basa sull’idea di mettere a fuoco, da parte del protagonista, dei momenti significativi della propria vita, rompe questo schema, nella narrazione si mescolano passato, presente e futuro, è in atto il cosiddetto “tempo misto”. Basta vedere l’indice per capire che non c’è una linearità temporale: si tratta di sei capitoli a se stanti (Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale, Psico-analisi), in cui i tempi, appunto, si intersecano: ad esempio nel primo capitolo, Il fumo, Zeno racconta del suo vizio, da cui invano cerca di liberarsi, da ragazzo fino al suo presente, quindi nella narrazione è presente anche la moglie, ma di costei, di come l’ha conosciuta e del perché si sono sposati, sapremo in un capitolo successivo, La storia del mio matrimonio. 

La coscienza di Zeno: la prefazione

3)   Abbiamo detto che il tipico comportamento dell’inetto sveviano è quello di mentire: mentire agli altri e mentire a se stesso, cioè auto-ingannarsi, cercare alibi alla propria inettitudine. Ma se in Senilità era il narratore che smascherava le menzogne del protagonista, ciò non sarà possibile ne La coscienza, perché il narratore è il protagonista stesso. Dunque toccherà al lettore distinguere le verità e le menzogne, che sono sapientemente mescolate, come ci avverte il dottor S.[1] nella prefazione (è lo psicanalista che ha avuto in cura Zeno e che gli ha consigliato di scrivere le sue memorie come “preludio alla psicanalisi”; ora il dottore pubblica quelle memorie “per vendetta” – lo dice lui stesso – perché Zeno sul più bello si è sottratto alla cura):

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico–analisi s’intende,  sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.

Di psico–analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico–analisi arricceranno il naso a tanta novità (allude al fatto che il malato non può analizzare da solo i propri ricordi, perché continuerebbe a “rimuovere”, a nascondere, ciò che non vuole ammettere; ci vuole la presenza dello psicanalista). Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico–analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.

Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!...

DOTTOR S.

4)   Questa prefazione ci colpisce subito perché il dottore – che parla di truffa, di vendetta, di lauti onorari – ci pare inattendibile, professionalmente non credibile. Insomma ci pare vittima della stessa sfiducia, anzi disprezzo, che Zeno manifesta nei confronti dei dottori. Ma questa prefazione non l’ha scritta Zeno, bensì l’autore. Dunque ci si pone il problema della distanza (dello scarto) fra autore e narratore, fra Svevo e Zeno. In altre parole, qual è il punto di vista dell’autore rispetto a quello del narratore? Non è possibile capirlo, talché il romanzo sembra essere autobiografico (malgrado quel che dice Svevo stesso in una lettera a Montale; ma Svevo ha vissuto un problema del fumo come quello di Zeno, Svevo ha espresso la stessa sfiducia di Zeno nei confronti della psicanalisi, ecc.). A questo proposito, mi pare che si possa addurre un argomento decisivo: la prefazione del dottor S. (che, in quanto pre-testo, è precedente ed esterna rispetto alla narrazione di Zeno, dunque attribuibile esclusivamente all’autore) tradisce, inaspettatamente, lo stesso punto di vista di Zeno, di decisa antipatia, nei confronti dei medici. Il dottor S. è uno dei tanti medici messi alla berlina nel romanzo, ma che si ridicolizzi da solo (la pubblicazione fatta “per vendetta”, i “lauti onorari” che si prefigge di ottenere) è incredibile: l’autore si è tradito (è lui che ha inventato la finzione della prefazione), quell’antipatia è la sua, e dunque lui, almeno in questo, si identifica con Zeno. E in questa ambiguità (dove finisce l’autobiografia di Svevo e comincia l’invenzione letteraria?) risiede molto del fascino del romanzo, perché il lettore si sente sollecitato a decifrare non tanto le menzogne del narratore Zeno, quanto quelle dell’autore Svevo (come se ci fossero cose che l’autore vuole nascondere anche a se stesso: vedi con che insistenza, e buone argomentazioni, si difende dalla colpa, presunta, di aver voluto la morte del padre).

La coscienza di Zeno: il vizio del fumo

5)   Dunque Zeno, su consiglio del medico, si mette a trascrivere le sue memorie e le suddivide per capitoli. Il primo riguarda il vizio del fumo, vizio che risale a quando Zeno era bambino e rubava i soldi e i mezzi sigari al padre, e vizio da cui cerca invano di liberarsi. Famose le pagine in cui ci racconta che associava tutte le date importanti ad una “ultima sigaretta”, che non era mai l’ultima; ma anche le pagine in cui, da adulto e già sposato, si fa ricoverare in clinica. Di grande comicità è la vicenda della seduzione di Giovanna, l’infermiera che dovrebbe fargli da guardiana: non solo la ubriaca con del cognac, ma la convince che, se fuma una decina di sigarette, diventa incontenibile con le donne; quindi Giovanna si ritira nella sua stanza, lasciandogli la porta aperta e un pacchetto con dieci sigarette; naturalmente Zeno ne approfitterà per fuggire (non resiste alla cura della reclusione, ma anche vuole accertarsi che la moglie non lo stia tradendo con il dottore).

6)   Tornando al vizio del fumo, a ben guardare si tratta anche di altro, e cioè dell’alibi con cui Zeno può giustificare la sua incapacità di affrontare la vita (la sua inettitudine): pensa di essere inetto perché avvelenato dalla nicotina, e dunque, contro tutti i propositi, continua a fumare (altrimenti dovrebbe constatare di essere inetto a prescindere dalla nicotina). Del resto, che la verità sia questa, lo sospetta lui stesso:

Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato: «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta! !».

Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio (è un recipiente di vetro, una specie di ampolla, usato in laboratorio di chimica). Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.

Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge. Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?

Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. (intravede la verità: il vizio del fumo come alibi dell’inettitudine)

La coscienza di Zeno: la morte del padre

7)   Il capitolo intitolato La morte del padre è centrale, piscanaliticamente, non solo perché si narra del terribile trauma che Zeno patisce in occasione, appunto, della morte del padre e del conseguente sentimento di colpa che il figlio si porta dietro per tutta la vita; ma anche per la narrazione del rapporto conflittuale, della incomprensione fra il padre e il figlio, incomprensione che si manifesta in varie occasioni, particolarmente in quella della cena la sera precedente l’entrata in coma. La morte chiude definitivamente la possibilità di sanare quella incomprensione, quella mancanza di comunicazione. Il padre vorrebbe il figlio forte e sicuro, costui si rivela invece debole e insicuro (inetto, lo dimostrano i continui cambiamenti di facoltà universitaria); pensa che il figlio sia “pazzo”, perché non sa prendere sul serio le cose concrete della vita, e costui, con poca serietà, gli porta un certificato medico di sanità mentale; il padre ha pensieri sulla morte e sul dopo, chiede un parere al figlio, e questi gli paragona la morte al piacere sessuale (ovviamente causando l’irritazione del padre); il padre, infine, pensa al conforto della religione, e cerca l’appoggio del figlio, ma questi gli dice che per lui la religione è solo un oggetto di studio. La sera che precede la catastrofe, il padre vorrebbe dire al figlio una parola decisiva, ma quella parola non gli viene e non gli verrà mai più (un’ultima parola non detta! Come ad Amalia ed Angiolina da parte di Emilio): resta dunque un non detto fra di loro, un fallimento di comunicazione. E’ questa la vera colpa che Zeno sente, e la volontà di espiarla si rivela alla fine, laddove ammette di essere tornato alla religione (intesa come pratica interiore e non pubblica), di far pregare per il padre e di pregare anche lui qualche volta (adesso, ma è troppo tardi, potrebbe intendersi con il padre).

8)   Il senso di colpa di Zeno ha il suo culmine nell’episodio della morte del padre. Zeno si sente colpevole, nel suo subconscio, di aver desiderato la morte del padre, anche se, al livello conscio della memoria e della scrittura difende ostinatamente la propria assoluta innocenza e buona fede. Ma l’interpretazione psicanalitica non lascia dubbi, anche se Zeno si rifiuta di accettarla e nell’ultimo capitolo ironizza sul dottore che gliela propone: si tratta di un complesso di Edipo non risolto, quello per cui, secondo Freud, ogni bambino è innamorato della madre e desidera la morte del padre. Zeno rifiuta tale teoria, ma nel suo subconscio il senso di colpa persiste, anche ora che è vecchio, vista l’insistenza puntigliosa con cui nella narrazione protesta la propria innocenza, si affanna a giustificare ogni suo comportamento e visto l’odio che conserva nei confronti dei dottori, un odio che sembra essere stato originato dal dottor Coprosich[2] – il medico che è intervenuto quando il padre è entrato in coma, e che lo ha rimproverato sia di avere trascurato il padre, sia, soprattutto, di non volerne il prolungamento della vita.


Andammo al letto dell’ammalato. Con l’aiuto dell’infermiere egli girò e rigirò quel povero corpo inerte per un tempo che a me parve lunghissimo. Lo ascoltò e lo esplorò. Tentò di farsi aiutare dal paziente stesso, ma invano.

– Basta! – disse ad un certo punto. Mi si avvicinò con gli occhiali in mano guardando il pavimento e, con un sospiro, mi disse:

– Abbiate coraggio! È un caso gravissimo. Andammo alla mia stanza ove egli si lavò anche la faccia.

Era perciò senza occhiali e quando l’alzò per asciugarla, la sua testa bagnata sembrava la testina strana di un amuleto fatta da mani inesperte. Ricordò di averci visti alcuni mesi prima ed espresse meraviglia perché non fossimo più ritornati da lui. Anzi aveva creduto che lo avessimo abbandonato per altro medico; egli allora aveva ben chiaramente dichiarato che mio padre abbisognava di cure. Quando rimproverava, così senz’occhiali, era terribile. Aveva alzata la voce e voleva spiegazioni. I suoi occhi le cercavano dappertutto.

Certo egli aveva ragione ed io meritavo dei rimproveri (primo rimorso). Debbo dire qui, che sono sicuro che non è per quelle parole che io odio il dottor Coprosich. Mi scusai raccontandogli dell’avversione di mio padre per medici e medicine; parlavo piangendo e il dottore, con bontà generosa, cercò di quietarmi dicendomi che se anche fossimo ricorsi a lui prima, la sua scienza avrebbe potuto tutt’al più ritardare la catastrofe cui assistevamo ora, ma non impedirla.

Però, come continuò a indagare sui precedenti della malattia, ebbe nuovi argomenti di rimprovero per me. Egli voleva sapere se mio padre in quegli ultimi mesi si fosse lagnato delle sue condizioni di salute, del suo appetito e del suo sonno. Non seppi dirgli nulla di preciso; neppure se mio padre avesse mangiato molto o poco a quel tavolo a cui sedevamo giornalmente insieme. L’evidenza della mia colpa m’atterrò (secondo rimorso), ma il dottore non insistette affatto nelle domande. Apprese da me che Maria lo vedeva sempre moribondo e ch’io perciò la deridevo.

Egli stava pulendosi le orecchie, guardando in alto.

– Fra un paio d’ore probabilmente ricupererà la coscienza almeno in parte, – disse.

– C’è qualche speranza dunque? – esclamai io.

– Nessunissima! – rispose seccamente. – Però le mignatte non sbagliano mai in questo caso. Ricupererà di sicuro un po’ della sua coscienza, forse per impazzire.

Alzò le spalle e rimise a posto l’asciugamano. Quell’alzata di spalle significava proprio un disdegno per l’opera propria e m’incoraggiò a parlare. Ero pieno di terrore all’idea che mio padre avesse potuto rimettersi dal suo torpore per vedersi morire, ma senza quell’alzata di spalle non avrei avuto il coraggio di dirlo.

– Dottore! – supplicai. – Non le pare sia una cattiva azione di farlo ritornare in sé?

Scoppiai in pianto. La voglia di piangere l’avevo sempre nei miei nervi scossi, ma mi vi abbandonavo senza resistenza per far vedere le mie lagrime e farmi perdonare dal dottore il giudizio che avevo osato di dare sull’opera sua.

Con grande bontà egli mi disse:

– Via, si calmi. La coscienza dell’infermo non sarà mai tanto chiara da fargli comprendere il suo stato. Egli non è un medico. Basterà non dirgli ch’è moribondo, ed egli non lo saprà. Ci può invece toccare di peggio: potrebbe cioè impazzire. Ho però portata con me la camicia di forza e l’infermiere resterà qui.

Più spaventato che mai, lo supplicai di non applicargli le mignatte. Egli allora con tutta calma mi raccontò che l’infermiere gliele aveva sicuramente già applicate perché egli ne aveva dato l’ordine prima di lasciare la stanza di mio padre. Allora m’arrabbiai. Poteva esserci un’azione più malvagia di quella di richiamare in sé un ammalato, senz’avere la minima speranza di salvarlo e solo per esporlo alla disperazione, o al rischio di dover sopportare – con quell’affanno! – la camicia di forza? Con tutta violenza, ma sempre accompagnando le mie parole di quel pianto che domandava indulgenza, dichiarai che mi pareva una crudeltà inaudita di non lasciar morire in pace chi era definitivamente condannato.

Io odio quell’uomo perché egli allora s’arrabbiò con me. È ciò ch’io non seppi mai perdonargli. Egli s’agitò tanto che dimenticò d’inforcare gli occhiali e tuttavia scoperse esattamente il punto ove si trovava la mia testa per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi disse che gli pareva io volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che vi era ancora (terzo rimorso). Me lo disse proprio così, crudamente.

Ci si avviava a un conflitto. Piangendo e urlando obbiettai che pochi istanti prima egli stesso aveva esclusa qualunque speranza di salvezza per l’ammalato. La casa mia e chi vi abitava non dovevano servire ad esperimenti per i quali c’erano altri posti a questo mondo!

Con grande severità e una calma che la rendeva quasi minacciosa, egli rispose:

– Io le spiegai quale era lo stato della scienza in quell’istante. Ma chi può dire quello che può avvenire fra mezz’ora o fino a domani? Tenendo in vita suo padre io ho lasciata aperta la via a tutte le possibilità.

Si mise allora gli occhiali e, col suo aspetto d’impiegato pedantesco, aggiunse ancora delle spiegazioni che non finivano più, sull’importanza che poteva avere l’intervento del medico nel destino economico di una famiglia. Mezz’ora in più di respiro poteva decidere del destino di un patrimonio.

Piangevo oramai anche perché compassionavo me stesso per dover star a sentire tali cose in simile momento. Ero esausto e cessai dal discutere. Tanto le mignatte erano già state applicate!

Il medico è una potenza quando si trova al letto di un ammalato ed io al dottor Coprosich usai ogni riguardo. Dev’essere stato per tale riguardo ch’io non osai di proporre un consulto, cosa che mi rimproverai per lunghi anni (quarto rimorso). Ora anche quel rimorso è morto insieme a tutti i miei altri sentimenti di cui parlo qui con la freddezza con cui racconterei di avvenimenti toccati ad un estraneo (non è vero, vista la passione con cui ci ha appena raccontato l’episodio e visto il sogno che racconta subito dopo). Nel mio cuore, di quei giorni, non v’è altro residuo che l’antipatia per quel medico che tuttavia si ostina a vivere.

(…) La notte scorsa, dopo di aver passata parte della giornata di ieri a raccogliere questi miei ricordi, ebbi un sogno vivissimo che mi riportò con un salto enorme, attraverso il tempo, a quei giorni. Mi rivedevo col dottore nella stessa stanza ove avevamo discusso di mignatte e camicie di forza, in quella stanza che ora ha tutt’altro aspetto perché è la stanza da letto mia e di moglie. Io insegnavo al dottore il modo di curare e guarire mio padre, mentre lui (non vecchio e cadente com’è ora, ma vigoroso e nervoso com’era allora) con ira, gli occhiali in mano e gli occhi disorientati, urlava che non valeva la pena di fare tante cose. Diceva proprio così: «Le mignatte lo richiamerebbero alla vita e al dolore e non bisogna applicargliele!». Io invece battevo il pugno su un libro di medicina ed urlavo: «Le mignatte! Voglio le mignatte! Ed anche la camicia di forza!» (il rimorso persiste ancora, nel tempo presente del narratore).

(…) Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d’uopo che ogni mio sentimento fosse affievolito dagli anni.

L’infermiere mi disse:

– Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza!

Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?

Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò:

– Muoio!

E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli potè sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!

Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell’orecchio:

– Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!

Era una bugia (il dottore aveva consigliato, non obbligato). Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più:

– Ti lascerò movere come vorrai.

L’infermiere disse:

– È morto.

Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza!

Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia.

Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre!

Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l’infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: – Il padre alzò alto alto la mano e con l’ultimo suo atto picchiò il figliuolo. – Egli lo sapeva e perciò Coprosich l’avrebbe risaputo.

Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere. L’infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma. La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire (aggettivi e verbi che delineano una figura terrificante, che minaccia e punisce il figlio colpevole). Non volli, non seppi più rivederlo.

Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto (per sentirsi innocente ha bisogno di rimuovere l’immagine punitiva del padre, quindi se lo raffigura nel ricordo “debole e buono”). Divenni buono, buono (dunque, riconosce di non essere stato buono precedentemente, ma ostile e aggressivo) e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte (si adatta al ruolo infantile della debolezza nei confronti del padre).

La coscienza di Zeno: il matrimonio

9)   L’idea del matrimonio è associata all’idea di un rinnovamento, di una svolta, quindi di una guarigione. Di fatto, non è altro che un modo per diventare figlio di colui che Zeno ha scelto come nuovo padre, cioè Giovanni Malfenti, commerciante di poca cultura ma di grande determinazione, della specie dei lottatori, della specie insomma che Svevo ammira e a cui vorrebbe appartenere. Ma in maniera contraddittoria, perché il vecchio Malfenti è anche il solito rivale dell’inetto, invidiato e odiato, il rivale che deride l’inetto con argomenti simili a quelli usati da Macario in Una vita (“Conosce i classici a mente. Sa chi ha detto questo e chi ha detto quello. Non sa però leggere un giornale!”). Nell’ultimo capitolo ci verrà detto che lo stesso psicanalista ha visto nel vecchio Malfenti un secondo padre per Zeno, talché quest’ultimo ha cercato di “sfregiarne” la casa (cercando di sedurne le figlie e tradendo la figlia sposata).

10)   La fanciulla scelta per il matrimonio, Ada, non è solo quella ritenuta più bella fra le figlie di Malfenti, ma anche quella che sembra somigliare di più al padre. Questo è il punto di partenza, ma il desiderio di avere Ada diventa sempre più forte man mano che Zeno si accorge che la ragazza non ne vuol sapere di lui (se ne accorge, anche se mette in atto una serie di autoinganni per nasconderselo, dilaziona continuamente il proposito di dichiararsi, perché ha paura della verità). Del resto in quel salotto tutti si accorgono della sua inettitudine (le gaffes sono continue, anche se solo la piccola Anna ha il coraggio innocente di dargli ripetutamente del pazzo), e la mamma Malfenti ne approfitta per indurlo a chiedere la mano della maggiore, e più brutta, delle figlie, Augusta, proprio quella che Zeno aveva escluso di poter scegliere sin dal primo incontro. E così succederà quando Zeno (prima addolorato perché invitato dalla madre a frequentare di meno il salotto Malfenti, in quanto sta “compromettendo” Augusta, poi umiliato da Guido Speier che in quel salotto miete successi di simpatia, soprattutto in quanto abilissimo a suonare il violino, ed è chiaramente prediletto da Ada: Guido è l’amico-rivale, l’“atto a vivere”, che può ricordare Stefano Balli di Senilità e Macario di Una vita) chiederà la mano di Ada; rifiutato, ci proverà con la diciassettenne Alberta; quindi, terrorizzato dall’idea di non poter più frequentare quel salotto, si butta su Augusta; costei, che pure sa del suo amore per Ada (Zeno le si era dichiarato al buio, pensando che fosse Ada, la sera in cui Guido aveva organizzato una seduta spiritica), accetta e la vicenda si conclude secondo quelli che erano, sin dall’inizio, i progetti della signora Malfenti.

11)   Ma Augusta, la donna non voluta, si rivela poi un’ottima moglie, la moglie “sana” che può finalmente mettere ordine nella vita di Zeno, laddove sarà fallimentare il matrimonio fra Guido e Ada. Ma sulla salute di Augusta, che Zeno contrappone alla propria malattia, ritorneremo, perché ci chiarisce la natura dell’inettitudine.

La coscienza di Zeno: l’adulterio

12)   L’adulterio è perseguito da Zeno secondo una logica simile a quella dell’ultima sigaretta. Carla gli piace, ma non la stima, la maltratta, ha sempre il sospetto che lo faccia per denaro (anche se, con uno dei tipici giudizi dati a posteriori dal narratore, riconosce che la ragazza era fondamentalmente onesta e sincera con lui). Vive il rapporto con grandi sensi di colpa, sempre, dall’inizio alla fine, ha in mente il proposito di chiudere e in tasca la busta con i soldi per liquidarla. Ma ogni volta si vuole godere il piacere dell’ultimo amplesso (cosiccome si gode il piacere dell’ultima sigaretta; analogamente, in un certo giorno, ha scritto sul vocabolario alla lettera C “ultimo tradimento”), dopo di che sente la repulsione e il pentimento, ciò che gli consente di ritornare a casa sereno, rigenerato dal proposito di essere un marito fedele. Ma il giorno dopo siamo daccapo, al punto che, quando è proprio Carla a chiudere il rapporto (commossa alla vista della bella e triste moglie di Zeno, che peraltro le ha indicato Ada e non Augusta, decide di accettare la proposta di matrimonio del maestro di canto), Zeno si ostina a volere un ultimo incontro, che, ovviamente, non sarebbe mai l’ultimo.

La coscienza di Zeno: l’associazione commerciale

13)   E’ il capitolo della rivincita. L’associazione commerciale con Guido si rivela fallimentare, Guido fa delle operazioni sbagliate e addirittura, nel tentativo di commuovere la moglie Ada per farsi prestare la somma perduta giocando in borsa, inscena un finto suicidio. Senonché il finto suicidio, per il ritardo nell’arrivo del medico, diventa vero. Zeno si affanna a spiegare, in tutte le occasioni in cui il suo comportamento poteva sembrare colpevole, che lui ha sempre voluto bene a Guido e che lo ha sempre consigliato per il meglio. Anzitutto fa notare che lui non aveva responsabilità nell’azienda, aiutava Guido come contabile per puro affetto, senza compenso, dunque tutti gli errori furono colpa esclusiva di Guido. Poi, in occasione del disastroso acquisto di sessanta tonnellate di solfato di rame, dice di essere stato assente dall’ufficio e quindi di non avere visto la lettera con cui gli inglesi concedevano la possibilità di revocare l’ordine. Quando Guido comincia a giocare in borsa, lui era l’unico a sconsigliarlo. E quando si arriva alla catastrofe della perdita in borsa, è lui che mette a disposizione di Guido un quarto della somma.

14)   Ma tutte queste giustificazioni non richieste, fanno supporre una sua cattiva coscienza, un suo contributo alla rovina e alla morte di Guido (del resto aveva ben capito – ma non aveva detto niente – che Guido avrebbe inscenato un finto suicidio, perché gli aveva chiesto informazioni sui tempi entro cui il veronal avrebbe avuto effetto mortale). Ed è quello che pensa anche Ada, che lo smaschera quando Zeno la va a trovare dopo la mancata partecipazione al funerale di Guido (ha seguito un funerale sbagliato: si tratta di quello che Freud chiama un “atto mancato”, un lapsus di comportamento, che sembra un errore involontario, in realtà rivela una reale intenzione dettata dall’inconscio): “Tu non gli hai mai voluto bene”, gli dice con durezza, quando lui si aspetterebbe complimenti e ringraziamenti, perché, giocando in borsa, ha ridotto di tre quarti la perdita di Guido. Del resto, Zeno continua anche a negare di provare ancora amore per Ada, che, malatasi del morbo di Basedow, ha perso la sua bellezza; ma continua a cercare i suoi elogi, vuole apparire ai suoi occhi migliore di Guido, anzi, tutto quello che fa ha questo fine (fine, peraltro, apparentemente raggiunto: “sei il migliore uomo della famiglia”, gli dice Ada quando gli chiede di vigilare su Guido, dopo il primo tentativo di suicidio).  

La Coscienza di Zeno: l’apparente rivincita dell’inetto 

15)   Tornando al rapporto con Guido, certo è che l’inetto ha qui la sua rivincita, visto che sia nella vita privata, dei rapporti famigliari, che in quella lavorativa, degli affari, è il rivale a soccombere. Ma come per la scelta di Augusta (che, non voluta da Zeno, si rivela poi un’ottima moglie), così per il successo commerciale si può dire che non è lui che determina la realtà, ma è la realtà che gira a suo favore. Gioca in borsa (contrariamente a quello che suggeriva a Guido) e vince, ma non per particolare accortezza, ma perché segue i consigli del Nilini (proprio quello che aveva indicato come il cattivo consigliere di Guido) e ha fortuna. Ma infine, che Guido non fosse del tutto un incapace e che Zeno ci abbia nascosto qualcosa, lo si capisce nel capitolo successivo, quando ci viene detto che il dottore ha scoperto che esisteva un “grandioso deposito di legnami” di proprietà di Guido. Dunque c’era un magazzino (sulla cui assenza Zeno aveva ironizzato) e c’erano degli acquisti ben fatti (risibile il modo in cui Zeno giustifica il suo silenzio: chi deve scrivere in italiano, avendo più familiarità con il dialetto, è portato a trascurare episodi che richiedono conoscenza di terminologie specifiche: nella fattispecie, dei diversi tipi di legname).

(VI parte)

La coscienza di Zeno: l’ultimo capitolo


1)   Nell’ultimo capitolo, Psico-analisi, Zeno abbandona il memoriale e passa a redigere un diario che va dal maggio del 1915 al marzo del 1916 (sono i giorni che precedono e seguono l’entrata in guerra dell’Italia), un diario che, insieme al memoriale, intende consegnare al dottore perché sappia che cosa pensa di lui e della terapia psicanalitica. Ironizza sulle teorie di Freud che pretendono di spiegare i comportamenti umani col complesso di Edipo o come “atti mancati”. Ma proprio mentre li deride, Zeno ci svela i significati nascosti di ricordi, sogni, eventi. Soprattutto, qui si dà atto di una pratica psicanalitica più ortodossa, perché, su sollecitazione del dottore, vengono rievocati ricordi della lontana infanzia (la rivalità col fratello minore, che può restare a casa quando Zeno deve andare a scuola; ma anche sogni che dimostrano il desiderio di possedere la madre). Si tratta quindi, anzitutto, del complesso di Edipo, e quindi Coprosich aveva avuto ragione, lo schiaffo era meritato, anche il vecchio Malfenti era stato odiato, in quanto sostituto del padre (e quindi Zeno aveva “sfregiato” la sua casa, tradendo la moglie e aspirando a sedurre anche Ada e Alberta) e naturalmente sempre odiato era stato Guido.

2)   . Quindi, in maniera piuttosto contraddittoria, Zeno dice di avere chiuso con la psicanalisi, ora perché non lo ha guarito, ora perché invece è guarito, infine perché è la vita stessa che è una malattia. Dice di essere guarito perché sta avendo successo nel commercio. E infatti ha comprato ed accaparrato in tempo di guerra (oro, anzitutto, ma poi qualsiasi merce), quando i prezzi erano bassi, facendo ottimi affari, proprio come i cosiddetti “pescecani”, o profittatori di guerra. Dunque la salute è integrazione in quel mondo, con quella morale spregiudicata, del successo economico, del profitto, quel mondo cui invece era estraneo lo Zeno malato. Del resto è interessante notare che in un frammento del progettato quarto romanzo si dice che, finita la guerra, Zeno fa delle operazioni sbagliate, tanto che perde con gli interessi tutti i guadagni ottenuti durante la guerra.

3)    Ma infine (e qui la voce del narratore si confonde con quella dell’autore: si riprendono infatti tesi da lui sostenute in alcuni saggi) malata è la vita dell’uomo che, a differenza degli animali che hanno un progresso naturale (la rondine, la talpa), ha inventato gli “ordigni” fuori di sé, gli ordigni che hanno ormai il sopravvento su di lui, impedendogli la naturalità. Da tale malattia solo la catastrofe di una “esplosione enorme che nessuno udrà” potrà liberare la terra:



Dal Maggio dell’anno scorso non avevo più toccato questo libercolo. Ecco che dalla Svizzera il dr. S. mi scrive pregiandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato. È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ma al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare.

Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico–analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri (allude a coloro che muoiono in guerra).

Non è per il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. (…)

Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo. Fu il mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia.

Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell’Agosto dell’anno scorso. Allora io cominciai a comperare. Sottolineo questo verbo perché ha un significato più alto di prima della guerra. In bocca di un commerciante, allora, significava ch’egli era disposto a comperare un dato articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch’io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna. L’Olivi (è l’amministratore dei suoi beni, che il padre ha voluto, non fidandosi delle capacità commerciali del figlio) non era a Trieste, ma è certo ch’egli non avrebbe permesso un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un rischio. Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza. Dapprima m’ero messo, secondo l’antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v’era una certa difficoltà di comperare e vendere dell’oro. L’oro per così dire liquido, perché più mobile, era la merce e ne feci incetta. Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti. Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli.

Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d’incenso. Il venditore mi vantava la possibilità d’impiegare l’incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l’incenso mai più avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere. Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una miseria tale da dover accettare l’incenso quale un surrogato della resina. E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l’importo che m’era occorso per appropriarmi della partita intera. Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute. (…)

Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati.

La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! (qui è proprio l’autore che vede con acutezza certi mali della società industriale: l’inquinamento, la distruzione della natura, l’eccessivo incremento demografico)

Ma non è questo, non è questo soltanto.

Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.

Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico–analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. (se gli ordigni sono le macchine, la tecnologia industriale, qui Svevo sembra alludere alla interpretazione marxista: la malattia prospera a causa della proprietà privata dei mezzi di produzione)

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.



4)   A parte il tono profetico che parla, agli inizi del Novecento, di un “esplosivo incomparabile”, e quindi della possibilità che la follia umana possa distruggere la terra – un incubo diventato concreto alcuni decenni dopo, con la realizzazione della bomba atomica – è un passo che ricorda un’Operetta morale di Leopardi, Il cantico del gallo silvestre, nel cui finale si prefigura lo stesso un universo senza più vita e senza più dolore, in un buio e in un silenzio infiniti. Ma queste pagine finali, in particolare quelle in cui Svevo si dichiara guarito in quanto ha acquisito i valori della società in cui vive (e sono i valori del profitto e del successo commerciale), si prestano ad una riflessione più accurata sulla natura dell’inetto sveviano. A questo fine serve recuperare una pagina molto significativa del primo romanzo

Una vita: Macario e il volo del gabbiano

5)   In Una vita, come negli altri due romanzi, c’è l’antagonista dell’inetto, l’amico-rivale, colui che ha le qualità che mancano all’inetto: capacità di decidere, determinazione, senso pratico, efficienza e, naturalmente, facilità nei rapporti con le donne. In Una vita si tratta di Macario, il cugino di Annetta, che lei alla fine sposerà. Fra Alfonso e Macario si instaura un rapporto di apparente amicizia. In realtà Alfonso subisce la superiorità sociale e di “attitudine alla vita” di Macario, e quest’ultimo disprezza le qualità intellettuali di Alfonso, la sua cultura umanistica. C’è un episodio estremamente significativo, ed è quando Macario, abile velista, invita Alfonso a uscire con lui in barca. Naturalmente, tanto è sicuro di sé Macario quanto è a disagio e impaurito Alfonso, che per di più soffre il mal di mare.    

Macario lo guardò con un leggero sorriso. Si sentiva bene nella sua calma accanto ad Alfonso e per rendere più evidente il distacco tenne il cutter sotto la piena azione del vento. Alfonso vide il sorriso e volle prendere l'aspetto di persona calma. Segnalò a Macario all'orizzonte delle punte bianche di montagne di cui non si vedevano le basi.

        Passando accanto al faro poté misurare la rapidità con la quale tagliavano l'acqua; diede un balzo sembrandogli che la barca andasse a sfracellarsi sui sassi che la contornavano.

        - Sa nuotare? - gli chiese Macario con tranquillità. - Alla peggio ritorneremo a casa a nuoto. Ma - e finse grande preoccupazione - anche se si sentisse andare a fondo non si aggrappi a me perché saremmo perduti in due. Penseremo a lei io e Nando. Nevvero, Nando?

        Ridendo sgangheratamente, costui lo promise.

        Coi suoi modi di pensatore, Macario si dilungò in considerazioni sugli effetti della paura. Ogni dieci parole alzava la mano aristocratica, l'arrotondava e tutti i sottintesi che quel gesto segnava, cui nel vuoto della mano creava il posto, Alfonso lo sapeva, dovevano andare a colpire lui e la sua paura.

        - Muore maggior numero di persone per paura che per coraggio. Per esempio in acqua, se vi cadono, muoiono tutti coloro che hanno l'abitudine di afferrarsi a tutto quello che loro è vicino, - e fece una strizzatina d'occhio verso le mani di Alfonso che si chiudevano nervosamente sulla banchina.

        E passarono accanto al verde Sant'Andrea senza che Alfonso potesse padroneggiarsi. Guardava, ma non godeva.

        La città, quando al ritorno la rivide, gli parve triste. Sentiva un grande malessere, una stanchezza come se molto tempo prima avesse fatto tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare mai più. Doveva essere mal di mare e provocò l'ilarità di Macario dicendoglielo.

        - Con questo mare!

        Infatti il mare sferzato dal vento di terra non aveva onde. Vi erano larghe strisce increspate, altre incavate, liscie liscie precisamente perché battute dal vento che sembrava averci tolto via la superficie. (…)

        Alfonso era tanto pallido che Macario se ne impietosì e ordinò a Ferdinando di accorciare le vele.

        Si era in porto, ma per giungere al punto di partenza si dovette passarci dinanzi due volte.

        Si udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come la salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le grandi ali bianche tese, il corpicciuolo sproporzionato piccolo coperto da piume leggiere.

        Fatti proprio per pescare e per mangiare, - filosofeggiò Macario. - Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch'è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l'appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall'alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere.

        Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero nell'agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza.

       - Ed io ho le ali? - chiese abbozzando un sorriso.

       - Per fare dei voli poetici sì! - rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso.

6)   Le considerazioni di Macario sul volo del gabbiano e sulla sua capacità di afferrare la preda ci portano nel cuore del problema. Macario dice sostanzialmente due cose: 1) il gabbiano ci insegna che non c’è bisogno del cervello per afferrare la preda, ci vogliono l’appetito formidabile, la vista acuta e soprattutto quelle ali potenti; 2) avere o non avere quelle ali è un dato di natura, chi non le possiede non potrà mai ottenerle e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare”, sarà sempre uno sconfitto

7)   Per quanto riguarda questo secondo aspetto, Svevo desumeva da Schopenhauer l’idea che esistano in natura due tipi umani, i “lottatori” e i “contemplatori”, i primi sono quelli capaci di “afferrare la preda”, i vincenti nella lotta per la vita, i contemplatori invece sono incapaci di afferrare la preda, destinati a soccombere, insomma gli inetti.

8)   Ma se riflettiamo sul primo aspetto, gettiamo una luce del tutto diversa sulla figura dell’inetto. Il lottatore Macario disprezza il cervello, l’organo che consente di pensare e di capire, disprezza il contemplatore Alfonso che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile”, il cervello appunto, fino a liquidarlo, in risposta alla sua ingenua domanda (“Ed io ho le ali?”),  con la battuta finale (“Per fare dei voli poetici sì!”).

L’albatro di Baudelaire

9)   Sono considerazioni che ci rimandano, soprattutto per questo secondo aspetto, a due autori insospettabili: Baudelaire e Leopardi.

10)             Baudelaire si era servito ugualmente del paragone con un uccello, l’albatro, per definire la condizione del poeta, goffo e impacciato in un’età incapace di comprenderne l’intelligenza, la sensibilità e la fantasia, in una società che professa altri valori rispetto a quelli dell’arte, che dunque sente il poeta come diverso, estraneo da sé e ne fa oggetto di derisione. Ma il poeta è come l’albatro, impacciato quando è a terra perché ostacolato dalle sue grandi ali, ali da gigante, ma sicuro e maestoso quando può dispiegare le ali nel volo, quando è nel suo elemento, l’aria, e fa e vede ciò che gli uomini a terra non possono né fare né vedere. E’ uno dei Fiori del male, la poesia intitolata, appunto, L’albatro.

Per dilettarsi, sovente, le ciurme
catturano degli albatri, marini
grandi uccelli, che seguono, indolenti
compagni di viaggio, il bastimento
che scivolando va su amari abissi.
E li hanno appena sulla tolda posti
che questi re dell'azzurro abbandonano,
inetti e vergognosi, ai loro fianchi
miseramente, come remi, inerti
le candide e grandi ali. Com'è goffo
e imbelle questo alato viaggiatore!
Lui, poco fa sì bello, com'è brutto
e comico! Qualcuno con la pipa
il becco qui gli stuzzica, là un altro
l'infermo che volava, zoppicando
scimmieggia.

Come il principe dei nembi
è il Poeta che, avvezzo alla tempesta,
si ride dell'arciere, ma esiliato
sulla terra, fra scherni, camminare
non può per le sue ali da gigante.

11)             Come si vede, il riferimento al gabbiano in Svevo e all’albatro in Baudelaire ha una valenza diversa, se non opposta: per Macario il gabbiano, con la sua capacità di afferrare la preda, rappresenta il positivo apprezzato dalla società, laddove il letterato, il poeta, con la sua intelligenza e sensibilità, è il negativo oggetto di derisione. Per Baudelaire invece l’albatro è il positivo come lo è il poeta, laddove il negativo sono i marinai ignoranti che lo sbeffeggiano perché lo vedono goffo, inetto, ma in realtà sono incapaci – come lo è Macario nei confronti di Alfonso – di comprenderne l’intelligenza e la sensibilità. Di comune c’è la stessa idea di una estraneità del poeta (o del letterato) – una estraneità che lo rende ridicolo – rispetto ai valori dominanti. L’inetto Alfonso non è altro che l’albatro, che, a terra, appare ridicolo perché fatica a camminare; ma fatica a camminare perché ha ali da gigante, con le quali può librarsi nell’azzurro, con le quali, fuor di metafora, può vedere e comprendere ciò che i marinai e i Macario non sanno né vedere né comprendere.

12)             Baudelaire scriveva a metà dell’Ottocento ed esprimeva così quella che lui avvertiva come nuova condizione dell’intellettuale, non in sintonia ma in conflitto con i valori dominanti nella società (l’interesse, il profitto, l’efficienza), una condizione di cui, qualche decennio più tardi, si faranno interpreti i “poeti maledetti” e poi tanta arte d’avanguardia del Novecento.

La diagnosi di Leopardi

13)             Ma più interessanti ancora appaiono certe riflessioni di Leopardi, che scrive agli inizi dell’Ottocento e che sembra fare una vera e propria diagnosi ante litteram della condizione dell’inetto. Sono riflessioni che si trovano nello Zibaldone e che poi diventano argomento di alcune Operette morali. Vorrei leggere alcuni brani tratti da questi testi. Nel Dialogo della Natura e di un’Anima, Leopardi immagina che un’Anima grande chieda alla Natura ragione della propria infelicità. La Natura, dopo aver spiegato che quanto più l’individuo è dotato di intelligenza e sensibilità (quanto più si eleva sopra il torpore degli "animali bruti"), tanto più è destinato all’infelicità, giacché più intensamente avverte la distanza incolmabile fra il desiderio del piacere (proprio di ogni uomo) e la miseria della realtà, prosegue il ragionamento  giungendo ad indicare per l’anima grande alcune conseguenze sul piano pratico della vita quotidiana:

Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dalla immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni nell’eseguire. I meno atti e meno usati a ponderare seco medesimi sono i più pronti al risolversi, e nell’operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiaciono il più tempo all’irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che, mentre per l’eccellenza delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo quasi tutte le altre della tua specie nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in sé, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo.

14)             In un’altra delle Operette morali, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, viene attribuita al suddetto personaggio l’idea che esista una categoria di persone, a cui va la stima generale, “atte ai negozi pubblici e privati; a partecipare con diletto nel commercio gentile degli uomini, e riuscire scambievolmente grate a quelli coi quali si abbattono a convivere”; e che invece ne esista un’altra con  le seguenti caratteristiche:

gli uomini di questa seconda specie, non essendo di volontà punto alieni dal conversare cogli altri, desiderando in molte e diverse cose di rendersi conformi o simili a quelli del primo genere, dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui si veggono essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente inferiori a sé d'ingegno e d'animo; non vengono a capo, non ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all'uso pratico della vita, né di rendersi nella conversazione tollerabili a se, non che altrui.

15)             Infine, ecco alcune riflessioni rintracciabili nello Zibaldone, in cui sono ribadite le stesse idee:

È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento, sono i più difficili a risolversi tanto al credere, quanto all'operare; i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da quell'eccessiva pena dell'irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l'utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l'abito di riflettere, e la profondità dell'indole, tanto è maggiore la difficoltà e l'angustia di risolvere. (21. Gen. 1821.).

l'abito della prudenza nel deliberare esclude ordinariamente la facilità e prontezza del risolvere, ed anche la fermezza nell'operare. Di qui è che gli uomini d'ingegno grande ed esercitato sono per lo più, anzi quasi sempre prigionieri, per così dire, dell'irresolutezza, difficili a risolvere, timidi, sospesi, incerti, delicati, deboli nell'eseguire. Altrimenti essi dominerebbero il mondo, il quale, perché la risolutezza per se può sempre più che la prudenza sola, fu ed è e sarà sempre in balia degli uomini mediocri. (26. Luglio, dì di S. Anna. 1823.).

16)             Dunque Leopardi associa l’inettitudine ad intelligenza, immaginazione, sensibilità; e parla proprio dell’inettitudine nei due aspetti che abbiamo sottolineato, ovvero come incapacità di prendere decisioni e come goffaggine nella vita pratica. Si tratta ora di vedere se questa associazione è vera anche per Svevo, cioè se è vero che l’inetto è portatore di un’intelligenza critica, laddove gli “atti a vivere” sono i mediocri che non comprendono la complessità del reale.

(VII parte)

Svevo: la galleria degli “atti a vivere”

1)   Se rintracciamo nei diversi romanzi i cosiddetti “atti a vivere”, scopriamo che Svevo ne fa una descrizione spietata che mette in risalto proprio quella mediocrità intellettuale di cui parla Leopardi. Il primo che vediamo è Creglingi, in Una vita: si tratta di un vecchio amico d’infanzia di Alfonso, che costui incontra quando torna al paese, fuggendo da Trieste con la scusa di dovere andare a trovare la madre malata (in verità, si sente incapace di reggere il rapporto con Annetta). Creglingi amministra con successo i beni della famiglia e, in più, si è fidanzato con Rosina, una bella ragazza di cui Alfonso era stato innamorato. Ecco come viene descritto:

(…) Creglingi, un giovine forte, dai tratti volgari, la pelle macchiata dal sole e nel viso quasi rotondo gli occhi piccoli dell'astuzia (…)

Era un'amicizia di prima gioventù ed era durata fino alla partenza di Alfonso ad onta che con l'avanzarsi dell'età la differenza fra i due giovani fosse divenuta sempre maggiore. L'intelligenza di Creglingi era stata poco sviluppata o meglio soffocata dal lavoro manuale. Mai Alfonso si sarebbe risolto a tagliare quella relazione conservando un culto superstizioso alle memorie della sua prima giovinezza. Ebbe qualche avvilimento al vedersi lui respinto. Creglingi era il possessore di due o tre idee in tutto e dovevano servirgli per tutta la vita e Alfonso lo aveva sopportato per una certa simpatia per la forza e risolutezza che scorgeva in lui.

2)   Ecco poi Leardi, in Senilità: un bellimbusto che aveva successo con le donne, di cui si diceva che avesse avuto una relazione con Angiolina; e così lo descrive Emilio:

Chissà con chi Angiolina lo avrebbe tradito quel giorno, forse con delle persone ch'egli non conosceva neppure. Come era superiore a lui il Leardi, quell'imbecille privo di idee! Quella calma era la vera scienza della vita. - Sì, - pensò il Brentani, e gli parve di dire una parola che avrebbe dovuto far vergognare insieme a lui l'umanità più eletta - l'abbondanza d'immagini nel mio cervello forma la mia inferiorità. - Infatti se il Leardi avesse pensato che Angiolina lo tradiva, non se la sarebbe saputa rappresentare in un'immagine così piena di rilievo, di colore e di movimento come faceva lui figurandosela accanto al Leardi.

3)   Ma è ne La coscienza di Zeno che si trovano le più significative rappresentazioni degli “atti a vivere”. Così Zeno descrive il proprio padre (un padre che negli affari ci ha saputo fare, visto che lascia un discreto patrimonio che, non fidandosi delle capacità del figlio, affida ad un amministratore, certo Olivi) :

Avevamo tanto poco di comune fra di noi, ch’egli mi confessò che una delle persone che più l’inquietavano a questo mondo ero io. Il mio desiderio di salute m’aveva spinto a studiare il corpo umano. Egli, invece, aveva saputo eliminare dal suo ricordo ogni idea di quella spaventosa macchina. Per lui il cuore non pulsava e non v’era bisogno di ricordare valvole e vene e ricambio per spiegare come il suo organismo viveva (chi è “atto a vivere” vive con immediatezza, con naturalezza, non si pone domande su come funziona la vita; invece l’inetto si guarda vivere, si pone problemi sul senso e sui modi della vita, e questo rallenta, fino a bloccarla, la capacità di agire; ricordare il passo in cui Zeno non riesce a camminare dopo che un amico gli ha detto che si mettono in moto 54 muscoli). Niente movimento perché l’esperienza diceva che quanto si moveva finiva coll’arrestarsi. Anche la terra era per lui immobile e solidamente piantata su dei cardini. Naturalmente non lo disse mai, ma soffriva se gli si diceva qualche cosa che a tale concezione non si conformasse. M’interruppe con disgusto un giorno che gli parlai degli antipodi. Il pensiero di quella gente con la testa all’ingiù gli sconvolgeva lo stomaco.

4)   E così descrive il vecchio Malfenti (anche lui uomo di successo negli affari, capace di operare in borsa con vantaggio), quello che lo psicanalista ha definito “un secondo padre”:

Il desiderio di novità che c'era nel mio animo veniva soddisfatto da Giovanni Malfenti ch'era tanto differente da me e da tutte le persone di cui io fino ad allora avevo ricercato la compagnia e l'amicizia. Io ero abbastanza còlto essendo passato attraverso due facoltà universitarie eppoi per la mia lunga inerzia, ch'io credo molto istruttiva. Lui, invece, era un grande negoziante, ignorante ed attivo. Ma dalla sua ignoranza gli risultava forza e serenità ed io m'incantavo a guardarlo, invidiandolo.

Il Malfenti aveva allora circa cinquant'anni, una salute ferrea, un corpo enorme alto e grosso del peso di un quintale e più. Le poche idee che gli si movevano nella grossa testa erano svolte da lui con tanta chiarezza, sviscerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi affari di ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere. Di tali idee io ero ben povero e m'attaccai a lui per arricchire.

5)   Ma è nella descrizione di Augusta (la moglie non desiderata, ma poi rivelatasi ottima), nella descrizione della sua bella salute e delle sue solide certezze, che emerge con chiarezza come l’opposizione fra malattia e salute, ovvero fra inettitudine e attitudine alla vita corrisponda all’opposizione fra capacità e incapacità di pensiero, fra un vivere istintivo e naturale che rifugge dai problemi e un vivere problematico, un vivere che riflette su se stesso, che si guarda vivere:

Non so più se dopo o prima dell’affetto, nel mio animo si formò una speranza, la grande speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch’era la salute personificata. Durante il fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella salute, perché tutto immerso a studiare me in primo luogo eppoi Ada e Guido (…)

Altro che il suo rossore! Quando questo sparve con la semplicità con cui i colori dell’aurora spariscono alla luce diretta del sole, Augusta batté sicura la via per cui erano passate le sue sorelle su questa terra, quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge e nell’ordine o che altrimenti a tutto rinunziano. Per quanto la sapessi mal fondata perché basata su di me, io amavo, io adoravo quella sicurezza (...)

 Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la vita eterna. Non che la dicesse tale: si sorprese anzi che una volta io, cui gli errori ripugnavano prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene la brevità. Macché! Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva che oramai ch’eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme. Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s’intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai più per un altro infinito tempo (è un pensiero di una profondità abissale, il pensiero di quanto breve sia la vita rispetto all’infinità del tempo che sta prima e dopo la vita; tutti siamo un po’ come Augusta: lo sappiamo ma non ci pensiamo; solo un pensatore maniacale come l’inetto può sprofondare in questo pensiero). Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me s'era confidato.

Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano.

Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di natura. Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! Tutt'altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto (notate: quello di Augusta è un modo di essere simile a quello del padre, anche lui non poteva soffrire l’idea degli antipodi; entrambi diffidano di, anzi, rifiutano di accettare ciò che fuoriesce da schemi semplici e rassicuranti). E queste cose immobili avevano un'importanza enorme: l'anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non m'adattavo di mettermi in marsina. E le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto (la salute di Augusta consiste nell’adeguarsi totalmente alla convenzioni, alle tradizioni, alle abitudini; non si pone problemi, non sa e non vuole fuoriuscire dai binari su cui si è sempre mossa) .

Di domenica essa andava a Messa ed io ve l'accompagnai talvolta per vedere come sopportasse l'immagine del dolore e della morte. Per lei non c'era, e quella visita le infondeva serenità per tutta la settimana. Vi andava anche in certi giorni festivi ch'essa sapeva a mente. Niente di più, mentre se io fossi stato religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.

C'erano un mondo di autorità anche quaggiù che la rassicuravano. Intanto quella austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre del mio meglio per associarmi anche a quel suo rispetto. Poi v'erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli studii regolari per salvarci quando - Dio non voglia - ci avesse a toccare qualche malattia. Io ne usavo ogni giorno di quell'autorità: lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il mio atroce destino quando la malattia mortale m'avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassù e quaggiù, per lei vi sarebbe stata la salvezza. (l’analisi della salute di Augusta diventa sempre più perfida e corrosiva: lei sta bene perché non si pone problemi, si affida totalmente alla routine delle abitudini, stagionali e giornaliere; anche il frequentare la chiesa non è religiosità, ma un’abitudine rassicurante; e infine c’è una fiducia incrollabile, a-problematica, nelle istituzioni ufficiali, nelle autorità politiche e in quelle mediche).   

Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m'accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d'istruzione per guarire. Ma vivendole accanto per tanti anni, mai ebbi tale dubbio. (vedete l’ambiguità di Zeno: da una parte vorrebbe essere anche lui come Augusta, vorrebbe integrarsi in quel mondo “normale”, con i suoi valori e le sue abitudini piccolo borghesi; dall’altra si rende conto che quella salute corrisponde ad una assenza di pensiero, è una salute che dovrebbe “guarire” – dunque è una malattia – e che la propria malattia corrisponde ad una estraneità irriducibile e critica rispetto a quel mondo. Certo, Augusta, nella sua ignorante superficialità, vive bene, non soffre; Zeno invece sta male, è continuamente angosciato da mille dubbi e mille problemi, ma questo è il prezzo della sua disposizione al pensiero, alla riflessione, all’analisi e all’auto-analisi, al “guardarsi vivere”) (…)

Ma mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da niente: la paura d’invecchiare e sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia. L’invecchiamento mi faceva paura solo perché m’avvicinava alla morte. Finché ero vivo, certamente Augusta non m’avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d’intorno per darmi il successore ch’essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me. Non poteva mica morire la sua bella salute perché ero morto io. Avevo una tale fede in quella salute che mi pareva non potesse perire che sfracellata sotto un intero treno in corsa.

Mi ricordo che una sera, a Venezia, si passava in gondola per uno di quei canali dal silenzio profondo ad ogni tratto interrotto dalla luce e dal rumore di una via che su di esso improvvisamente s'apre. Augusta, come sempre, guardava le cose e accuratamente le registrava: un giardino verde e fresco che sorgeva da una base sucida lasciata all'aria dall'acqua che s'era ritirata; un campanile che si rifletteva nell'acqua torbida; una viuzza lunga e oscura con in fondo un fiume di luce e di gente. Io, invece, nell'oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso. Le dissi del tempo che andava via e che presto essa avrebbe rifatto quel viaggio di nozze con un altro. Io ne ero tanto sicuro che mi pareva di dirle una storia già avvenuta. E mi parve fuori di posto ch'essa si mettesse a piangere per negare la verità di quella storia. Forse m'aveva capito male e credeva io le avessi attribuita l'intenzione di uccidermi. Tutt'altro! Per spiegarmi meglio le descrissi un mio eventuale modo di morire: le mie gambe, nelle quali la circolazione era certamente già povera, si sarebbero incancrenite e la cancrena dilatata, dilatata, sarebbe giunta a toccare un organo qualunque, indispensabile per poter tener aperti gli occhi. Allora li avrei chiusi, e addio patriarca! Sarebbe stato necessario stamparne un altro.

Essa continuò a singhiozzare e a me quel suo pianto, nella tristezza enorme di quel canale, parve molto importante. Era forse provocato dalla disperazione per la visione esatta di quella sua salute atroce? Allora tutta l'umanità avrebbe singhiozzato in quel pianto. Poi, invece, seppi ch'essa neppur sapeva come fosse fatta la salute. La salute non analizza se stessa e neppur si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.

6)   Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi” E dunque, se le cose stanno così, la malattia, o inettitudine, corrisponde ad intelligenza critica: esattamente come dice Leopardi, che associa l’inettitudine (perché di questo si tratta, quando parla di difficoltà nel decidere e nell’agire e di goffaggine, mancanza di disinvoltura, nei rapporti interpersonali) alla grandezza delle facoltà intellettive, ovvero “della ragione e della immaginativa”. Gli “adatti a vivere”, al contrario, oltre che capaci di decidere e di agire, sono anche brillanti nella vita sociale; ma lo sono, inevitabilmente, a prezzo (o in virtù) della loro mediocrità intellettuale.

Svevo: la superiorità di “chi non si adatta” e la lettera a Jahier

7)   Del resto, se leggiamo certi saggi sveviani, quali L’uomo e la teoria darwiniana e La corruzione dell’anima[1] non possiamo che trovare riscontri a questa teoria che fa dell’inadatto a vivere l’uomo per eccellenza. Vi si sostiene anzitutto che la superiorità dell’uomo sull’animale è data dal fatto che, mentre quest’ultimo perde l’anima (e con essa il “malcontento”, ovvero l’insoddisfazione) nel momento in cui adatta il proprio organismo alle necessità ambientali, l’uomo è l’essere che conserva l’anima – e l’inquietudine vitale che le è propria – proprio perché non c’è adattamento che lo soddisfi. L’uomo dunque, pur a prezzo dell’infelicità (è “torvo e malcontento”), mantiene integre le potenzialità di sviluppo ed è sempre disponibile ad affrontare il mutamento ambientale, laddove l’animale vive, sì, soddisfatto della funzionalità del proprio organismo, ma rimane “identico a se stesso, definitivamente cristallizzato”, “non accorgendosi di aver perduto la vera vita” (la “vera” vita: non sfugga il giudizio di valore). Ne consegue paradossalmente che, rovesciando l’assunto darwiniano, il vero vincitore nella lotta per la sopravvivenza è l’uomo in quanto animale che non si adatta, e cioè l’uomo in quanto inetto (etimologicamente in-aptus, ovvero “non-atto”, “che non si adatta”); ma, di più, trasponendo questa verità sul piano della vita sociale, si ha un corollario altrettanto paradossale, perché si conclude che l’uomo di successo è il mediocre che ha perduto l’anima (e con essa la vera vita), assimilando, con istinto quasi animalesco, i valori dominanti (appunto, adattandovisi)[2], laddove l’inetto, in quanto incapace di far propri quei valori (in quanto renitente ad adattarvisi), è l’uomo che vive la vera vita, l’uomo in senso pieno, dotato di anima, dunque eternamente insoddisfatto, straniero in ogni tempo e in ogni luogo, mai in pace con se stesso e con gli altri. E che questa sia l’ottica giusta con cui guardare i protagonisti dei suoi romanzi, ce lo conferma lo stesso autore nella lettera a Valerio Jahier del 27 dicembre 1927 (Jahier gli aveva scritto dicendo che si sentiva simile a Zeno e gli chiedeva consigli sulla terapia psicanalitica):

Egregio Signore, non vorrei poi averle dato un consiglio che potrebbe attenuare la speranza ch’Ella ripone nella cura che vuole intraprendere. Dio me ne guardi. Certo è ch’io non posso mentire e debbo confermarle che in un caso trattato dal Freud in persona non si ebbe alcun risultato. Per esattezza debbo aggiungere che il Freud stesso, dopo anni di cure implicanti gravi spese, congedò il paziente dichiarandolo inguaribile. Anzi io ammiro il Freud, ma quel verdetto dopo tanta vita perduta mi lasciò un’impressione disgustosa (...)

Letterariamente Freud è certo più interessante. Magari avessi fatto io una cura con lui. Il mio romanzo sarebbe risultato più intero.

E perché voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di meglio? Io credo sicuramente che il vero successo che mi ha dato la pace è consistito in questa convinzione. Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata (soprattutto a noi italiani). Io rileggo la Sua lettera come lessi molte volte le precedenti. Ma rispondendo alle precedenti credevo davvero di parlare di letteratura. Invece da questa Sua ultima risulta proprio un’ansiosa speranza di guarigione. E questa deve esserci; è parte della nostra vita. Ed anche la speranza di ottenerla deve esserci. Sola la meta è oscura.

Ma intanto -con qualche dolore- spesso ci avviene di ridere dei sani. Il primo che seppe di noi è anteriore al Nietzsche: Schopenhauer, e considerò il contemplatore come un prodotto della natura, finito quanto il lottatore. Non c’è cura che valga. Se c’è differenza allora la cosa è differente: Ma se questa può scomparire per un successo (p. e. la scoperta d’essere l’uomo più umano che sia stato creato) allora si tratta proprio di quel cigno della novella di Andersen che si credeva un’anitra male riuscita perché era stato covato da un’anitra. Che guarigione quando arrivò tra i cigni!

8)   Il riferimento alla novella del brutto anatroccolo è perfetto: significa scoprire di non essere malato, in quanto diverso dagli altri, ma semplicemente di appartenere ad un’altra specie, degna quanto quella degli altri, anzi più degna, tanto quanto il cigno è più bello dell’anatra.


[1] Più che di saggi veri e propri, si ha l’impressione di studi rimasti allo stato di abbozzo. Si tratta di testi di poche pagine, formalmente poco curati, a volte incompiuti, non databili con precisione, ma collocabili alla fine del primo decennio del Novecento. Si possono leggere in I. Svevo, Opera omnia, vol. III, Milano 1968 (p. 637 e p.641)
[2] In questa tipologia umana saranno da riconoscere, pur con le debite differenze, gli antagonisti dell’inetto nei diversi romanzi: Macario, Stefano Balli, Guido Speier.

(VIII parte)

Montale: “curarsi” dell’ombra

1)   A tale problematica sembrano ricondurci anche alcuni motivi presenti nella poesia di Montale. E non dovremo stupircene: una vicinanza di sensibilità fra i due autori è facilmente presumibile, se si pensa che Montale, come noto, è stato il primo lettore italiano a segnalare la novità e l’importanza di Svevo. Ebbene, quel senso di totale disarmonia con la realtà che mi circondava” (sono parole dello stesso Montale)[1], o “inadattamento” (davvero significativo il termine usato), rintracciabile in tanti componimenti delle sue raccolte, non può non ricordare il senso di estraneità al mondo circostante che caratterizza, e tormenta, “colui che non si adatta” nei romanzi sveviani; e simile sembra anche il sentimento contraddittorio, di ammirazione e disprezzo, espresso nei confronti di chi si dimostra adatto alla vita. Leggiamo una poesia degli Ossi di seppia di Montale, anzi la poesia introduttiva di quella raccolta:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.


Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!


Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.


2)   Montale enuncia qui i principi della sua poetica: dichiara di non avere parole forti e chiare (splendenti come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato) che possano comunicare certezze, trasmettere valori, proporre, in positivo, ideali; al contrario, egli può soltanto pronunciare qualche storta sillaba e secca come un ramo e limitarsi a constatare, in negativo, che siamo costretti ad una condizione di inautenticità (e insoddisfazione), che la vita che viviamo è vuota e falsa, ci è estranea, non è quella che vorremmo (Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo).

3)   La strofa centrale esprime contemporaneamente, con grande ambiguità, il desiderio e la deprecazione (tale mi sembra il doppio valore dell’esclamativo iniziale) di un atteggiamento esistenziale diverso, quello dell’uomo che se ne va sicuro perché non avverte, e quindi non patisce, il vuoto e il falso della propria condizione. È un uomo felice, e quindi invidiabile, perché non si guarda vivere, ma vive con immediatezza, è in sintonia con la realtà; ma, proprio perciò, è anche un uomo mediocre, e quindi da commiserarsi, perché incapace di riflettere sul senso del proprio esistere e del proprio rapporto col mondo; proprio perché vive aderendo pienamente alla realtà, al suo sguardo manca la distanza necessaria per vedere e comprendere; l’altra faccia della sua felice immediatezza è appunto questa mancanza di distacco critico, ovvero l’incapacità di guardare dall’esterno, anche solo per un momento, se stesso e la totalità. Ma certo, nel momento in cui si guardasse dall’esterno, si sarebbe già sdoppiato e il dubbio comincerebbe a corrodere le sue sicurezze, prima fra tutte quella sulla compattezza e la unicità del suo stesso io. Proprio questo indica la bella immagine di colui che l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro: non prestare attenzione ad un evento usuale, e naturalissimo, quale la proiezione della propria ombra su un muro sgretolato dal sole, è quanto di più normale ci si possa aspettare; ridicolo, fino al patologico, appare invece l’atteggiamento contrario. Ma quell’uomo ridicolo e malato, nel quale il poeta si rispecchia, è l’uomo che non rinuncia all’intelligenza critica, e paga alla volontà di comprensione il prezzo dello sdoppiamento. Costui, di fronte alla propria ombra, si ferma stupefatto: su quello scalcinato muro non vede un’insignificante macchia scura, ma riconosce se stesso fuori di sé: vede se stesso che vive, ed è una vista indimenticabile. Da quel momento, accanto a un io che vive c’è un io che si interroga sul senso di quel vivere, e per ciò stesso rallenta, fino a paralizzarli, i movimenti della vita: lo sguardo su se stesso, denso di interrogativi ormai ineludibili, è uno sguardo che pietrifica come quello della Medusa. La vita, immediata e irriflessa, non è più possibile, ogni solida certezza si dissolve; resta un uomo perplesso e dolente, che non si riconosce nella normalità dominante, e da questa non è riconosciuto; è un uomo che non può essere agli altri ed a se stesso amico”, perché fra lui e gli altri c’è una diversità che non consente amicizia, così come non c’è più pace fra lui e se stesso. È un uomo goffo nei rapporti con le persone, impacciato nei comportamenti, ormai incapace di compiere le più semplici azioni della quotidianità: è un inetto.

4)   C’è una sezione di Ossi di seppia che si intitola Mediterraneo, in cui il mare, il Mediterraneo appunto, è al centro della immaginazione poetica di Montale. Il mare, con il suo ondeggiare, con la naturalità totale del suo essere, diventa il corrispettivo (tecnicamente, il “correlativo oggettivo”) di una dimensione autentica, di ciò che il poeta vorrebbe essere, di ciò in cui il poeta vorrebbe perdersi per porre fine alla disarmonia, per vivere con lo stesso ritmo della natura; ma è un’aspirazione che fallisce, il pensiero che riflette (che fa sì che non si viva, ma ci si guardi vivere) cerca e trova “il male che tarla il mondo”, vede ad uno ad uno gli eventi, gli accadimenti, e la loro insignificanza, rendendo impossibile l’adesione alla naturalità della vita del mare. Per chi è così non c’è salvezza se non nella cultura (altri libri occorrevano a me), il “canto” del mare può essere di conforto in qualche momento doloroso, ma il suo “delirio” appartiene ormai, per il poeta, ad un’altra dimensione, “astrale”, non terrena.

Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.
Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace - uomo che tarda
all'atto, che nessuno, poi, distrugge.
Volli cercare il male
che tarla il mondo, la piccola stortura
d'una leva che arresta
l'ordegno universale; e tutti vidi
gli eventi del minuto
come pronti a disgiungersi in un crollo.
Seguìto il solco d'un sentiero m'ebbi
l'opposto in cuore, col suo invito; e forse
m'occorreva il coltello che recide,
la mente che decide e si determina.
Altri libri occorrevano
a me, non la tua pagina rombante.
Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
Il tuo delirio sale agli astri ormai.

5)   Ma l’inettitudine di cui parliamo a proposito di Montale, o meglio, quel senso di totale disarmonia con la realtà che mi circondava”, come dice lui stesso, ha una sua specificità. Se leggiamo le sue poesie, capiamo che la disarmonia non è altro che la sensazione di vivere in un mondo falso e ingannevole; come se la realtà, gli oggetti della quotidianità fossero solo oggetti illusori, dietro cui si intravede, ma sempre sfuggente, una verità più profonda. In questo mondo che sente falso e ingannevole il poeta è un disadattato, un inetto, ma a lui sono concessi momenti privilegiati, occasioni miracolose, in cui il velo che ci impedisce la vista sembra squarciarsi, la rete che ci avviluppa e ci imprigiona sembra spezzarsi e per un attimo ci troviamo nel mezzo della verità: sentite questi versi, tratti da I limoni:
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità

Pirandello: l’ombra come segno dello sdoppiamento

6)      Abbiamo visto come in Montale il “curarsi” della propria ombra, sia segno di una più alta umanità, che può appartenere solo a chi ha acquisito la consapevolezza del proprio sdoppiamento; o a chi, per dirla con Svevo, “ha lo spazio nel proprio cervello per contenere due concezioni della vita”, e perciò si differenzia – doloroso privilegio – in natura dall’animale, in società dall’“uomo che se ne va sicuro”. Ma il motivo dell’ombra come manifestazione concreta (o “correlativo oggettivo”) dello sdoppiamento, ci rimanda ad un altro significativo autore del Novecento, a Pirandello, che del resto ha fatto della crisi d’identità, e della connessa perdita delle certezze, il tema centrale della sua produzione. Si pensi alla condizione patita da Mattia Pascal, il protagonista del più famoso dei romanzi pirandelliani. Costui non solo è sdoppiato per definizione, in quanto titolare di una doppia identità (Mattia Pascal / Adriano Meis), ma emblematicamente si ritrova, a un certo punto della storia, proprio a combattere con la sua stessa ombra (cap. xv, Io e l’ombra mia). Frustrato nella sua aspirazione a vivere pienamente la vita (si accorge di essere stato derubato, ma non può denunciare il ladro, per la stessa ragione per cui non può legalizzare il suo amore: non ha identità anagrafica) esce di casa e passeggia per Roma. Alla vista della propria ombra, comincia a parlarle rabbiosamente come se fosse un’entità reale, un altro se stesso che vorrebbe annientare, ma da cui non riesce a separarsi (“se mi metto a correre, mi seguirà”):

Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affisarono su l'ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia.

Chi era più ombra di noi due? io o lei?

Due ombre!

Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l'ombra, zitta.

L'ombra d’un morto: ecco la mia vita...

Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro.

Là, così! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo, sì: alza un’anca! alza un’anca!

Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine, non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai  piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.

“E se mi metto a correre,” pensai, “mi seguirà!”

Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione. Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.

Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una testa. Proprio così!

Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai.

7)      Del resto Pirandello, in un passo del suo saggio su L’umorismo, descrive la condizione dei propri personaggi in termini che ricordano le caratteristiche dell’inetto sveviano:

Nella sua anormalità, non può esser che amaramente comica la condizione d’un uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di chiave, ad essere a un tempo violino e contrabbasso, d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egli abbia di dir , subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringono a dir no; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita; d’un uomo che non può abbandonarsi a un sentimento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce. (…)

È una speciale fisionomia psichica, a cui è assolutamente arbitrario attribuire una causa determinante; può esser frutto d’una esperienza amara della vita e degli uomini, d’una esperienza che se, da un canto, non permette più al sentimento ingenuo di metter le ali e di levarsi come un’allodola perché lanci un trillo nel sole, senza ch’essa la trattenga per la coda nell’atto di spiccare il volo, dall’altro induce a riflettere che la tristizia degli uomini si deve spesso alla tristezza della vita, ai mali di cui essa è piena e che non tutti sanno o possono sopportare (…)


Chamisso: l’ombra è l’anima

8)      L’ombra è dunque l’emblema visibile della scissione dell’io, ma è anche il corrispettivo dell’anima. Chi se ne avvede (chi si cura della propria ombra), ha perso l’immediatezza che la vita richiede, è spezzato fra un io che vive e un io che riflette su quel vivere, è dunque irrimediabilmente inibito alla vita. Ma chi non se ne avvede (chi non si cura della propria ombra, o, che è lo stesso, chi per una “storia straordinaria” l’avesse persa), ha perso l‘anima. È appunto questo il senso che si ricava da quel racconto di Chamisso (Storia straordinaria di Peter Schlemihl), vero e proprio archetipo letterario costruito sul motivo, fantastico e inquietante, della perdita dell’ombra: troppo tardi lo sventurato Peter si rende conto che, cedendo al diavolo la propria ombra in cambio di ricchezza e successo, si è privato della propria umanità (la mancanza dell’ombra è una deformità che lo esclude dal consorzio umano); e troppo tardi riconosce l’equivalenza dell’ombra con l’anima, visto che solo in cambio dell’anima il diavolo è disposto a restituirgliela. Il cerchio si chiude. Se l’ombra è l’anima, non accorgersi della propria ombra “che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro” vuol dire non accorgersi della propria anima. E non ci si accorge della propria anima perché la si è persa, adattandosi alla realtà. Chi l’ha persa, “se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico”. Ma perdere l’anima significa perdere ciò che le è più proprio, cioè, come avvertiva Leopardi, “soprabbondanza di vita interna”, capacità di “ponderare seco medesimi”, “vivacità di immaginazione”. E solo chi conserva tutto ciò, conserva integra, pur a prezzo del “malcontento” e dell’inettitudine, la propria umanità.


[1] E. Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Milano 1996, p. 1592.

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