LEOPARDI (analisi del testo)

Analisi de La sera del dì di festa

 
  1. Dolce e chiara è la notte e senza vento,
  2. e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
  3. posa la luna, e di lontan rivela
  4. serena ogni montagna. O donna mia,
  5. già tace ogni sentiero, e pei balconi
  6. rara traluce la notturna lampa:
  7. tu dormi, che t'accolse agevol sonno
  8. nelle tue chete stanze; e non ti morde
  9. cura nessuna; e già non sai né pensi
  10. Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
  11. tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
  12. appare in vista, a salutar m'affaccio,
  13. e l'antica natura onnipossente,
  14. che mi fece all'affanno. A te la speme
  15. nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
  16. non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
  17. Questo dì fu solenne: or da' trastulli
  18. prendi riposo; e forse ti rimembra
  19. in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
  20. piacquero a te: non io, non già ch'io speri,
  21. al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
  22. quanto a viver mi resti, e qui per terra
  23. mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
  24. in così verde etate! Ahi, per la via
  25. odo non lunge il solitario canto
  26. dell'artigian, che riede a tarda notte,
  27. dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
  28. e fieramente mi si stringe il core,
  29. a pensar come tutto al mondo passa,
  30. e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
  31. il dì festivo, ed al festivo il giorno
  32. volgar succede, e se ne porta il tempo
  33. ogni umano accidente. Or dov'è il suono
  34. di que' popoli antichi? or dov'è il grido
  35. de' nostri avi famosi, e il grande impero
  36. di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
  37. che n'andò per la terra e l'oceano?
  38. Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
  39. il mondo, e più di lor non si ragiona.
  40. Nella mia prima età, quando s'aspetta
  41. bramosamente il dì festivo, or poscia
  42. ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
  43. premea le piume; ed alla tarda notte
  44. un canto che s'udia per li sentieri
  45. lontanando morire a poco a poco,
  46. già similmente mi stringeva il core.


Gli elementi tipici della poetica leopardiana si possono riscontrare  in maniera esemplare ne La sera del dì di festa, un idillio del 1820. L’incipit famoso rimanda a versi omerici (Iliade, VIII, 555 e sgg.), tanto cari a Leopardi che li aveva citati nel Discorso come esempio della poesia antica che sa sollecitare i sentimenti con semplicità, imitando la natura (e non in maniera artificiosa e forzata, come fanno i romantici, che riproducono immagini e situazioni straordinarie):

Sì come quando graziosi in cielo / rifulgon gli astri intorno della luna, / e l’aere è senza vento, e si discopre / ogni cima de’ monti ed ogni selva / ed ogni torre; allor che su nell’alto / tutto quanto l’immenso etra si schiude, / e vedesi ogni stella, e ne gioisce / il pastor dentro all’alma.

Ed è un incipit carico di suggestioni indefinite (più che per le parole evocative dell’indefinito, che pure ci sono[1], per la stessa atmosfera notturna e per la visione in lontananza delle montagne; e poi, naturalmente, per quel canto notturno dell’artigiano udito in lontananza, vera e propria cerniera fra le due parti che compongono l’idillio). Quel "posa" (verbo che ritorna al verso 38) piaceva ad Ungaretti, il quale ci sentiva un’eco del Trionfo petrarchesco (e Petrarca è il poeta sentimentale per eccellenza), laddove, descrivendo la morte di Laura, si dice che "parea posar come persona stanca"[2] (a questo proposito, bisognerà notare che la scelta del verbo è dell’edizione Starita del 1835, perché prima si era sempre letto "La luna si riposa, e le montagne / si discopron da lungi"; ma il "posa" era già entrato nell’edizione Piatti del 1831 a correzione dei versi 38-39, che prima suonavano così: "Tutto è silenzio e pace, e tutto cheto / è ‘l mondo, e più di lor non si favella").

Ma è anche una poesia che non prescinde dalla conoscenza del vero, anzi se ne nutre drammaticamente, in quanto fondata sul contrasto fra la serenità del paesaggio (dolce e chiaro) e la sofferenza disperata del poeta (sofferenza che si manifesta in forme titaniche, fortemente "patetiche", di ascendenza, mi pare, alfieriana e ortissiana). Segue il canto solitario dell’artigiano, ed è un’altra sensazione vaga e indefinita (proprio quell’esempio citato nello Zibaldone); il canto, a sua volta, sollecita non solo pensieri sullo scorrere del tempo (sulla sua infinitezza, per contrasto, cosiccome il canto contrasta col silenzio: lo stesso effetto provocato ne L’Infinito dallo stormire del vento tra le piante), ma anche la rimembranza dell’infanzia (negli ultimi versi); di più, quel canto che è sentito come il "doppio" di uno stesso canto udito nell’infanzia, è senz’altro un bell’esempio di quella doppia visione di cui è capace l’uomo "sensibile e imaginoso" (quale è il poeta).

Altre osservazioni si possono fare, a partire dalla considerazione che l’idillio è spesso sembrato ai lettori, nella sua struttura, un po’ disorganico, frammentario, non perfettamente composto nei suoi elementi costituivi, in sostanza, spezzato al verso 24 in due parti, apparentemente non omogenee, disunite. Ma intanto quel verso, pur con la pausa imposta dalla punteggiatura (che sancisce il passaggio da un motivo all’altro: dalla disperazione individuale del poeta alla sensazione acustica del canto dell’artigiano), ha una forte continuità metrica, segnata dalla sinalefe fra "etate" ed "ahi"[3]; quindi introduce il motivo (l’evento acustico) che è la vera chiave di volta del componimento, una chiave di volta che illumina anche retrospettivamente il senso dell’idillio.

Allora il notturno lunare con cui si apre il componimento, con il suo silenzio dopo i rumori della festa, non solo si contrappone drammaticamente alla disperazione del poeta (a significare la crudele indifferenza della natura di fronte al dolore individuale), ma anche prefigura il silenzio in cui, nella seconda parte, precipitano i grandi eventi della storia: un silenzio, quest’ultimo, in cui tutto (il dolore individuale cosiccome la gloria dei popoli antichi), annullandosi nell’infinito scorrere del tempo, perde di senso. Il ritorno nei due contesti del verbo "posa" (v. 3 e v. 38) in contrapposizione al "grido" (di disperazione del poeta, al v. 23; dei popoli antichi, al v. 34) avvalora questa lettura.

Data la centralità del canto dell’artigiano (che quindi sembra avere una funzione analoga a quella del vento che stormisce tra le piante, nell’Infinito), tutto il resto (come bene ha messo in luce Luigi Blasucci)[4] si assesta simmetricamente: silenzio e serenità della natura, gesticolazione fisica e verbale del poeta ("grido"), canto dell’artigiano, "grido" dei popoli antichi, silenzio in cui tutto precipita.

In appendice, l’eco di quel canto nella memoria dell’infanzia (che crea grande suggestione poetica, come è proprio della rimembranza): "già similmente mi stringeva il core" quella sensazione di naufragio (altrettanto "dolce"?) nell’infinità del tempo.




[1] Notte, lontan, notturna, antica, antichi, tarda notte, lontanando, a poco a poco.
[2] Straordinaria questa eco sentita da Ungaretti con alcuni dei versi fra i più belli dell’intera letteratura italiana. Si tratta di una terzina che, nel finale del Trionfo della morte, descrive la morte di Laura: “Pallida no, ma più che neve bianca / che senza venti in un bel colle fiocchi, /parea posar come persona stanca”. Come possa il “posare” della luce lunare sul paesaggio notturno ricordare il “posare” riferito al volto di Laura nella quiete della morte, è cosa da chiedere alla sensibilità poetica di Ungaretti. Ma certo, oltre alla quiete assoluta (del paesaggio notturno e della morte) che quel verbo evoca, bisognerà notare come esso sia associato al colore bianco, del pallore mortale (tramite il paragone con la neve in Petrarca), del chiarore lunare (non nominato, ma implicito nel paesaggio notturno descritto da Leopardi).
[3] Si tratta del fenomeno per cui la vocale finale di una parola e quella iniziale della parola seguente si pronunciano unite in un’unica sillaba (senza caduta o assorbimento dell’una nell’altra – caso in cui si parla di elisione).
[4] Leopardi e i segni dell'infinito, Bologna 1985.

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