martedì 28 novembre 2023

I promessi sposi, un romanzo controverso (V parte)

 


Manzoni a 86 anni


La conclusione del romanzo: la morale di Renzo e quella di Lucia

 

1)    Non è questa una denuncia della collusione fra uomini di potere a danno della giustizia e di chi il potere non ce l’ha?  Se è così, va ripensato il senso della conclusione del romanzo in cui Renzo, con la famosa serie degli “ho imparato” (ho imparato a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza, ecc.), teorizza l’astensione dalla politica (la non partecipazione) e Lucia lo corregge suggerendo la necessità di affidarsi a Dio:

“e io,” disse un giorno al suo moralista, “cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me…”. Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.

 

2)     Ma dunque, per quanto riguarda il punto di vista iniziale di Renzo, come possiamo pensare che l’autore della Storia della colonna infame, l’autore del memorabile dialogo che abbiamo appena letto, insegni l’inerzia della rassegnazione, insegni a non agire per contrastare il male operato dagli uomini? E’ certo che non può trionfare, con gli “ho imparato” di Renzo,  la morale opportunistica e complice di don Abbondio (la morale che insegna a farsi i fatti propri, secondo cui, come dice lui stesso, “a un galantuomo che badi a sé, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri”); e don Abbondio, a ben guardare, è il vero personaggio negativo del romanzo, non il comico che poi esorcizziamo.

3)    Ma nemmeno si può credere che chi ha dato una simile rappresentazione della realtà della storia possa “farla così semplice”, come la fa, ancora una volta, don Abbondio, quando parla della Provvidenza come di una scopa, visto che grazie alla peste è stato “spazzato” via don Rodrigo; ma anche, a ben guardare, come la fa Lucia, quando invita alla “fiducia in Dio”.  Quel finale è in verità aperto e problematico: quel “lungo dibattere e cercare insieme” di Renzo e Lucia continua, dice Raimondi, nella coscienza del lettore).

Un finale poco lieto

4)    Non si può non notare come non ci sia niente di consolatorio in quel finale, e ciò è confermato dal tono così poco lieto che pervade le pagine conclusive. L’abbandono della terra natale da parte dei protagonisti è paragonato dall’Anonimo al trauma della perdita del capezzolo materno:

Anche il bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul seno della balia, cerca con avidità e con fiducia la poppa che l’ha dolcemente alimentato fino allora; ma se la balia, per divezzarlo, la bagna d’assenzio, il bambino ritira la bocca, poi torna a provare, ma finalmente se ne stacca; piangendo sì, ma se ne stacca.

 

Dal paese del bergamasco dove sono giunti si devono spostare perché a Renzo non piacciono i pettegolezzi che si fanno su Lucia; e all’inizio nemmeno nel nuovo paese le cose vanno bene, visti i problemi che Renzo deve affrontare nel filatoio che ha acquistato insieme al cugino Bortolo). Dietro l’apparente lieto fine, si ripropone il mistero del male.

Il male e la Provvidenza

5)    La convinzione profonda del cristiano Manzoni è che la condizione dell’uomo nel mondo sia segnata per sempre dalla caduta, e quindi dalla presenza ineliminabile del male e del dolore: certo, come dice Lucia, la “fiducia in Dio” lo “raddolcisce” e lo “rende utile per una vita migliore”, ma non nel senso che si debba confidare in una Provvidenza che giunge puntualmente a castigare i colpevoli e a premiare gli innocenti (almeno, non in questa vita), bensì nel senso che, attraverso la “sventura” (che allora è “provvida”), si acquisisce una consapevolezza superiore della propria condizione in questa vita, e del proprio dovere verso gli altri.

 

La Provvidenza per il narratore

6)    La Provvidenza, indicata più volte dalla critica come la vera protagonista del romanzo manzoniano, è effettivamente nominata più volte, ma quasi sempre nelle parole o nei pensieri di Renzo o Lucia. Il narratore invece, cioè lo stesso Manzoni, non ha ritegno di ricordarci che l’affidarsi alla Provvidenza può essere anche giustificazione vile di scelte moralmente o politicamente riprovevoli: così quando ne parla don Abbondio come di una scopa, ma anche quando si ricorda che don Gonzalo, il governatore di Milano, al tempo della calata dei Lanzichenecchi, pur avvisato dai medici della Sanità del pericolo della peste, rispose “che non sapeva cosa farci… e si sperasse nella Provvidenza”. Si può credere che qui Manzoni avalli l’inerzia del governatore che si affida alla Provvidenza? Certamente no.

La responsabilità degli uomini e il dovere di agire

7)    Che ci sia un dovere da compiere verso gli altri (che non ci si possa chiudere né in un opportunismo complice, né in una rassegnazione fideistica) è evidente dal fatto che – va ripetuto –  tutto il romanzo è una denuncia dura e inflessibile della responsabilità degli uomini (soprattutto di quelli che governano) nel commettere il male. Il male è certo ineliminabile, ma questo non ci esime dal dovere di agire per contrastarlo, esiste un margine che ci consente di intervenire per attenuarlo (non si spiegherebbe altrimenti la positività di figure eroiche quali quelle di fra Cristoforo, del Cardinale, dell’Innominato convertito).

La semplice verità dell’Anonimo e il superamento del “giansenismo”

8)     Dunque, io suggerisco di tornare indietro di qualche pagina e riconoscere che il vero “sugo” della storia sta nelle parole dell’Anonimo:

l’uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sè altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo, soggiunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio. È tirata un po’ con gli argani, e proprio da secentista; ma in fondo ha ragione

 

9)    Bisognerebbe più pensare a far bene che a star bene, e così si finirebbe anche per star meglio”. E se è così, è anche superato l’intransigente pessimismo (il presunto “giansenismo”) enunciato nelle parole di Adelchi morente (“Loco a gentile, / ad innocente opra non v’è; non resta / che far torto o patirlo”): non tanto perché il lieto fine dimostri la possibilità che il bene trionfi nella storia (visto che un vero lieto fine non c’è), quanto perché le suddette parole dell’Anonimo, avallate dal narratore, rivendicano uno spazio (un “loco”, per quanto piccolo) per un’azione “gentile” ed “innocente, sostengono il dovere di operare per il bene.

Conclusione

10)                      In conclusione, se si può condividere l’opinione di chi ritiene (come Gramsci e Moravia) che il conte Manzoni, aristocratico dell’Ottocento, sconti dei limiti storici oggettivi quanto alla capacità di comprendere fino in fondo la condizione popolare, mi pare sbrigativo ed ingiusto il giudizio di chi dice che il romanzo “loda preti e frati” e insegna “rassegnazione e sottomissione. Quanto a preti e frati, se sono lodati fra Cristoforo e il cardinale Borromeo, non lo sono certamente don Abbondio o il padre Provinciale, e che il romanzo insegni rassegnazione e sottomissione – e a confidare nella Provvidenza – lo può pensare chi si accontenta di una lettura superficiale delle ultime righe dell’ultimo capitolo e non valuta il senso complessivo del romanzo.

 

 

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