Manzoni a 86 anni
La conclusione del romanzo: la morale di Renzo e
quella di Lucia
1)
Non è questa una denuncia della
collusione fra uomini di potere a danno della giustizia e di chi il potere non
ce l’ha? Se è così, va ripensato il senso della conclusione del romanzo in cui Renzo, con la famosa serie
degli “ho imparato” (ho imparato a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in
piazza, ecc.), teorizza l’astensione
dalla politica (la non partecipazione) e Lucia lo corregge
suggerendo la necessità di affidarsi a
Dio:
“e io,” disse un
giorno al suo moralista, “cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a
cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me…”. Renzo, alla prima,
rimase impicciato. Dopo un lungo
dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì
spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più
innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o
senza colpa, la fiducia in Dio li
raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.
2)
Ma
dunque, per quanto riguarda il punto di vista iniziale di Renzo, come
possiamo pensare che l’autore della Storia della colonna infame,
l’autore del memorabile dialogo che abbiamo appena letto, insegni l’inerzia della rassegnazione, insegni a non agire per
contrastare il male operato dagli uomini? E’ certo che non può trionfare, con gli “ho
imparato” di Renzo, la morale opportunistica e complice di don Abbondio (la
morale che insegna a farsi i fatti propri, secondo cui, come dice lui stesso, “a un galantuomo che badi a sé, e stia ne’
suoi panni, non accadon mai brutti incontri”); e don Abbondio, a ben guardare, è il vero personaggio negativo del
romanzo, non il comico che poi esorcizziamo.
3)
Ma nemmeno si può credere che chi ha
dato una simile rappresentazione della realtà della storia possa “farla così
semplice”, come la fa, ancora una volta, don
Abbondio, quando parla della
Provvidenza come di una scopa, visto che grazie alla peste è stato
“spazzato” via don Rodrigo; ma anche, a
ben guardare, come la fa Lucia, quando invita alla “fiducia in Dio”.
Quel finale è in verità
aperto e problematico: quel “lungo dibattere e cercare insieme”
di Renzo e Lucia continua, dice
Raimondi, nella coscienza del lettore).
Un
finale poco lieto
4)
Non si può non notare come non ci sia
niente di consolatorio in quel finale, e ciò è confermato dal tono così poco lieto che
pervade le pagine conclusive. L’abbandono della terra
natale da parte dei protagonisti è paragonato dall’Anonimo al trauma della perdita del capezzolo materno:
Anche il
bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul seno della balia, cerca con
avidità e con fiducia la poppa che l’ha dolcemente alimentato fino allora; ma
se la balia, per divezzarlo, la bagna d’assenzio, il bambino ritira la bocca,
poi torna a provare, ma finalmente se ne stacca; piangendo sì, ma se ne stacca.
Dal
paese del bergamasco dove sono giunti si devono spostare perché a Renzo non
piacciono i pettegolezzi che si fanno su Lucia; e all’inizio nemmeno nel nuovo
paese le cose vanno bene, visti i problemi che Renzo deve affrontare nel
filatoio che ha acquistato insieme al cugino Bortolo). Dietro l’apparente lieto fine, si ripropone il mistero del male.
Il
male e la Provvidenza
5)
La convinzione profonda del cristiano
Manzoni è che la condizione dell’uomo nel mondo sia segnata per sempre dalla
caduta, e quindi dalla presenza ineliminabile del male e del
dolore: certo, come dice Lucia, la “fiducia in Dio” lo “raddolcisce” e
lo “rende utile per una vita migliore”, ma
non nel senso che si debba confidare in una Provvidenza che giunge puntualmente
a castigare i colpevoli e a premiare gli innocenti (almeno, non in
questa vita), bensì nel senso che, attraverso la “sventura” (che allora è “provvida”),
si acquisisce una consapevolezza superiore della propria condizione in questa
vita, e del proprio dovere verso gli altri.
La
Provvidenza per il narratore
6)
La Provvidenza, indicata più volte
dalla critica come la vera protagonista del romanzo manzoniano, è
effettivamente nominata più volte, ma quasi sempre nelle parole o nei pensieri
di Renzo o Lucia. Il narratore invece, cioè lo stesso
Manzoni, non ha ritegno di ricordarci che l’affidarsi
alla Provvidenza può essere anche giustificazione vile di scelte moralmente o
politicamente riprovevoli: così quando ne parla don Abbondio come di
una scopa, ma anche quando si ricorda che don Gonzalo, il governatore di
Milano, al tempo della calata dei Lanzichenecchi, pur avvisato dai medici della
Sanità del pericolo della peste, rispose “che non sapeva cosa farci… e si sperasse
nella Provvidenza”. Si può credere che qui Manzoni avalli l’inerzia
del governatore che si affida alla Provvidenza? Certamente no.
La
responsabilità degli uomini e il dovere di agire
7)
Che
ci sia un dovere da compiere verso gli altri (che non ci si possa chiudere né
in un opportunismo complice, né in una rassegnazione fideistica)
è evidente dal fatto che – va ripetuto –
tutto il romanzo è una denuncia
dura e inflessibile della responsabilità degli uomini (soprattutto di
quelli che governano) nel commettere il male. Il male è certo ineliminabile, ma questo non ci esime dal dovere di
agire per contrastarlo, esiste un margine che ci consente di intervenire
per attenuarlo (non si spiegherebbe
altrimenti la positività di figure eroiche quali quelle di fra Cristoforo, del
Cardinale, dell’Innominato convertito).
La
semplice verità dell’Anonimo e il superamento del “giansenismo”
8)
Dunque,
io suggerisco di tornare indietro di qualche pagina e riconoscere che il vero “sugo” della storia sta
nelle parole dell’Anonimo:
l’uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si
trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sè altri letti, ben
rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone.
Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel nuovo, comincia,
pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme:
siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo, soggiunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene,
che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio. È tirata un po’
con gli argani, e proprio da secentista; ma
in fondo ha ragione.
9)
“Bisognerebbe più pensare a far bene che a
star bene, e così si finirebbe anche per star meglio”. E se è così, è
anche superato l’intransigente
pessimismo (il presunto “giansenismo”)
enunciato nelle parole di Adelchi
morente (“Loco a gentile, / ad innocente opra non v’è; non resta / che far torto
o patirlo”): non tanto perché il lieto fine dimostri la possibilità che
il bene trionfi nella storia (visto che un vero lieto fine non c’è), quanto perché
le suddette parole dell’Anonimo, avallate dal narratore, rivendicano uno spazio (un “loco”, per quanto piccolo) per un’azione
“gentile” ed “innocente”, sostengono
il dovere di operare per il bene.
Conclusione
10)
In conclusione, se si può condividere l’opinione di chi ritiene (come Gramsci e Moravia)
che il conte Manzoni, aristocratico dell’Ottocento, sconti dei limiti storici oggettivi quanto
alla capacità di comprendere fino in fondo la condizione popolare, mi pare sbrigativo ed ingiusto il
giudizio di chi dice che il romanzo “loda
preti e frati” e insegna “rassegnazione
e sottomissione”. Quanto a preti e frati, se sono lodati fra Cristoforo
e il cardinale Borromeo, non lo sono certamente don Abbondio o il padre
Provinciale, e che il romanzo insegni rassegnazione e sottomissione – e a
confidare nella Provvidenza – lo può pensare chi si accontenta di una lettura superficiale delle ultime righe
dell’ultimo capitolo e non valuta il senso complessivo del romanzo.
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