La coscienza di Zeno:
struttura narrativa
1) Vediamo ora il terzo romanzo, La coscienza di Zeno. Si tratta di una struttura narrativa nuova,
sostanzialmente per due ragioni. Anzitutto, a differenza dei primi due
romanzi, è narrato in prima persona.
Infatti il romanzo, ce lo dice il narratore stesso, non è altro che la stesura
delle proprie memorie, dei ricordi del proprio passato, una rievocazione della
propria vita, che il protagonista avrebbe redatto su consiglio dello
psicanalista. Zeno infatti dichiara di essere malato, la sua malattia è
l’inettitudine: il lettore, che conosce i suoi due “fratelli carnali”, Alfonso ed Emilio (è Svevo stesso che li chiama
così nel Profilo autobiografico), se
ne rende conto, ma lui crede che si tratti di una debolezza di carattere dovuta
al vizio del fumo; ad ogni buon conto, si affida alla psicanalisi, una terapia
decisamente nuova per quei tempi (Svevo è uno dei primi, se non il primo, a
utilizzare in letteratura le rivoluzionarie idee di Freud circa il
funzionamento della mente umana, circa il fatto che le nostre azioni, i nostri
comportamenti sono spesso determinati da una parte nascosta della nostra
coscienza, dal cosiddetto “inconscio”).
2) La seconda novità riguarda la struttura cronologica della narrazione. Gli avvenimenti non sono narrati
seguendo una linea temporale continua, gli avvenimenti cioè non si succedono
secondo una cronologia naturale, per cui, di capitolo in capitolo, c’è un prima
e c’è un dopo secondo lo scorrere naturale del tempo, come succede nei romanzi
tradizionali (pensiamo ai Promessi sposi:
la vicenda è narrata seguendo lo scorrere naturale del tempo, dal matrimonio
impedito all’inizio al matrimonio che si compie alla fine). La coscienza di Zeno invece, proprio
perché si basa sull’idea di mettere a fuoco, da parte del protagonista, dei
momenti significativi della propria vita, rompe questo schema, nella narrazione si mescolano passato,
presente e futuro, è in atto il cosiddetto “tempo misto”. Basta vedere
l’indice per capire che non c’è una linearità temporale: si tratta di sei
capitoli a se stanti (Il fumo, La morte
di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di
un’associazione commerciale, Psico-analisi), in cui i tempi, appunto, si
intersecano: ad esempio nel primo capitolo, Il
fumo, Zeno racconta del suo vizio, da cui invano cerca di liberarsi, da
ragazzo fino al suo presente, quindi nella narrazione è presente anche la
moglie, ma di costei, di come l’ha conosciuta e del perché si sono sposati,
sapremo in un capitolo successivo, La
storia del mio matrimonio.
La coscienza di Zeno:
la prefazione
3) Abbiamo detto che il tipico
comportamento dell’inetto sveviano è quello di mentire: mentire agli altri e
mentire a se stesso, cioè auto-ingannarsi, cercare alibi alla propria
inettitudine. Ma se in Senilità era
il narratore che smascherava le menzogne del protagonista, ciò non sarà
possibile ne La coscienza, perché il
narratore è il protagonista stesso. Dunque toccherà
al lettore distinguere le verità e le menzogne, che sono sapientemente
mescolate, come ci avverte il dottor S.[1]
nella prefazione (è lo psicanalista che ha avuto in cura Zeno e che gli ha
consigliato di scrivere le sue memorie come “preludio alla psicanalisi”; ora il
dottore pubblica quelle memorie “per
vendetta” – lo dice lui stesso – perché Zeno sul più bello si è sottratto
alla cura):
Io sono il dottore di cui in questa
novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico–analisi
s’intende, sa dove piazzare l’antipatia
che il paziente mi dedica.
Di psico–analisi non parlerò perché
qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio
paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico–analisi
arricceranno il naso a tanta novità (allude
al fatto che il malato non può analizzare da solo i propri ricordi, perché
continuerebbe a “rimuovere”, a nascondere, ciò che non vuole ammettere; ci
vuole la presenza dello psicanalista). Ma egli era vecchio ed io sperai che
in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse
un buon preludio alla psico–analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona
perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il
malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste
memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di
dividere con lui i lauti onorarii
che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava
tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli
dal commento delle tante verità e bugie
ch’egli ha qui accumulate!...
DOTTOR S.
4) Questa
prefazione ci colpisce subito perché il dottore – che parla di truffa, di
vendetta, di lauti onorari – ci pare inattendibile, professionalmente non
credibile. Insomma ci pare vittima della stessa sfiducia, anzi disprezzo, che
Zeno manifesta nei confronti dei dottori. Ma questa prefazione non l’ha scritta
Zeno, bensì l’autore. Dunque ci si pone il problema della distanza (dello
scarto) fra autore e narratore, fra Svevo e Zeno. In altre parole, qual è il
punto di vista dell’autore rispetto a quello del narratore? Non è possibile
capirlo, talché il romanzo sembra essere autobiografico (malgrado quel che dice Svevo stesso in una lettera a Montale; ma Svevo
ha vissuto un problema del fumo come quello di Zeno, Svevo ha espresso la
stessa sfiducia di Zeno nei confronti della psicanalisi, ecc.). A questo
proposito, mi pare che si possa addurre un argomento decisivo: la prefazione
del dottor S. (che, in quanto pre-testo, è precedente ed esterna rispetto alla
narrazione di Zeno, dunque attribuibile esclusivamente all’autore) tradisce,
inaspettatamente, lo stesso punto di vista di Zeno, di decisa antipatia, nei
confronti dei medici. Il dottor S. è uno dei tanti medici messi alla berlina
nel romanzo, ma che si ridicolizzi da solo (la pubblicazione fatta “per vendetta”, i “lauti onorari” che si
prefigge di ottenere) è incredibile: l’autore
si è tradito (è lui che ha inventato la finzione della prefazione),
quell’antipatia è la sua, e dunque lui, almeno in questo, si identifica con
Zeno. E in questa ambiguità (dove finisce l’autobiografia di Svevo e comincia
l’invenzione letteraria?) risiede molto del fascino del romanzo, perché il
lettore si sente sollecitato a decifrare non tanto le menzogne del narratore
Zeno, quanto quelle dell’autore Svevo (come se ci fossero cose che l’autore
vuole nascondere anche a se stesso: vedi con che insistenza, e buone
argomentazioni, si difende dalla colpa, presunta, di aver voluto la morte del
padre).
La coscienza di Zeno:
il vizio del fumo
5) Dunque Zeno, su
consiglio del medico, si mette a trascrivere le sue memorie e le suddivide per
capitoli. Il primo riguarda il vizio del fumo, vizio che risale a quando Zeno
era bambino e rubava i soldi e i mezzi sigari al padre, e vizio da cui cerca
invano di liberarsi. Famose le pagine in cui ci racconta che associava tutte le
date importanti ad una “ultima sigaretta”, che non era mai l’ultima; ma anche
le pagine in cui, da adulto e già sposato, si fa ricoverare in clinica. Di
grande comicità è la vicenda della seduzione di Giovanna, l’infermiera che
dovrebbe fargli da guardiana: non solo la ubriaca con del cognac, ma la
convince che, se fuma una decina di sigarette, diventa incontenibile con le
donne; quindi Giovanna si ritira nella sua stanza, lasciandogli la porta aperta
e un pacchetto con dieci sigarette; naturalmente Zeno ne approfitterà per
fuggire (non resiste alla cura della reclusione, ma anche vuole accertarsi che
la moglie non lo stia tradendo con il dottore).
6) Tornando al vizio del fumo, a ben guardare si tratta
anche di altro, e cioè dell’alibi con cui Zeno può giustificare la sua
incapacità di affrontare la vita (la sua inettitudine): pensa di
essere inetto perché avvelenato dalla nicotina, e dunque, contro tutti i
propositi, continua a fumare (altrimenti dovrebbe constatare di essere inetto a
prescindere dalla nicotina). Del resto, che la verità sia questa, lo sospetta
lui stesso:
Sul
frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella
scrittura e qualche ornato: «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge
a quelli di chimica. Ultima sigaretta! !».
Era
un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che
l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto
lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in
un matraccio (è un recipiente di vetro,
una specie di ampolla, usato in laboratorio di chimica). Quell’ultima
sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di
sereno pensiero sobrio e sodo.
Per
sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai
alla legge. Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima
sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche
questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e
del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio.
M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di
abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un
turco?
Adesso che son qui, ad analizzarmi,
sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter
riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di
fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo?
Forse fu tale dubbio che mi legò al mio
vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una
grandezza latente. (intravede la
verità: il vizio del fumo come alibi dell’inettitudine)
La coscienza di Zeno:
la morte del padre
7) Il capitolo intitolato La morte del padre è centrale,
piscanaliticamente, non solo perché si narra del terribile trauma che Zeno
patisce in occasione, appunto, della morte del padre e del conseguente sentimento
di colpa che il figlio si porta dietro per tutta la vita; ma anche per la
narrazione del rapporto conflittuale, della incomprensione fra il padre e il
figlio, incomprensione che si manifesta in varie occasioni, particolarmente in
quella della cena la sera precedente l’entrata in coma. La morte chiude definitivamente la possibilità di sanare quella
incomprensione, quella mancanza di comunicazione. Il padre vorrebbe il
figlio forte e sicuro, costui si rivela invece debole e insicuro (inetto, lo
dimostrano i continui cambiamenti di facoltà universitaria); pensa che il
figlio sia “pazzo”, perché non sa prendere sul serio le cose concrete della
vita, e costui, con poca serietà, gli porta un certificato medico di sanità
mentale; il padre ha pensieri sulla morte e sul dopo, chiede un parere al figlio,
e questi gli paragona la morte al piacere sessuale (ovviamente causando
l’irritazione del padre); il padre, infine, pensa al conforto della religione,
e cerca l’appoggio del figlio, ma questi gli dice che per lui la religione è
solo un oggetto di studio. La sera che precede la catastrofe, il padre vorrebbe
dire al figlio una parola decisiva, ma quella parola non gli viene e non gli
verrà mai più (un’ultima parola non detta! Come ad Amalia ed Angiolina da parte
di Emilio): resta dunque un non detto fra di loro, un fallimento di
comunicazione. E’ questa la vera colpa che Zeno sente, e la volontà di espiarla
si rivela alla fine, laddove ammette di essere tornato alla religione (intesa
come pratica interiore e non pubblica), di far pregare per il padre e di pregare
anche lui qualche volta (adesso, ma è troppo tardi, potrebbe intendersi con il
padre).
8) Il senso di colpa di Zeno ha il suo
culmine nell’episodio della morte del padre. Zeno si sente colpevole, nel suo subconscio, di aver desiderato la
morte del padre, anche se, al livello conscio della memoria e della scrittura
difende ostinatamente la propria assoluta innocenza e buona fede. Ma
l’interpretazione psicanalitica non lascia dubbi, anche se Zeno si rifiuta di
accettarla e nell’ultimo capitolo ironizza sul dottore che gliela propone: si
tratta di un complesso di Edipo non risolto, quello per cui, secondo Freud,
ogni bambino è innamorato della madre e desidera la morte del padre. Zeno
rifiuta tale teoria, ma nel suo subconscio il
senso di colpa persiste, anche ora che è vecchio, vista l’insistenza
puntigliosa con cui nella narrazione protesta la propria innocenza, si affanna
a giustificare ogni suo comportamento e visto l’odio che conserva nei confronti
dei dottori, un odio che sembra essere stato originato dal dottor Coprosich[2]
– il medico che è intervenuto quando il padre è entrato in coma, e che lo ha
rimproverato sia di avere trascurato il padre, sia, soprattutto, di non volerne
il prolungamento della vita.
Andammo al letto dell’ammalato. Con l’aiuto dell’infermiere
egli girò e rigirò quel povero corpo inerte per un tempo che a me parve
lunghissimo. Lo ascoltò e lo esplorò. Tentò di farsi aiutare dal paziente
stesso, ma invano.
– Basta! – disse ad un certo punto. Mi si avvicinò con
gli occhiali in mano guardando il pavimento e, con un sospiro, mi disse:
– Abbiate coraggio! È un caso gravissimo. Andammo alla
mia stanza ove egli si lavò anche la faccia.
Era perciò senza occhiali e quando l’alzò per
asciugarla, la sua testa bagnata sembrava la testina strana di un amuleto fatta
da mani inesperte. Ricordò di averci visti alcuni mesi prima ed espresse
meraviglia perché non fossimo più ritornati da lui. Anzi aveva creduto che lo
avessimo abbandonato per altro medico; egli allora aveva ben chiaramente
dichiarato che mio padre abbisognava di cure. Quando rimproverava, così senz’occhiali, era terribile. Aveva
alzata la voce e voleva spiegazioni. I suoi occhi le cercavano dappertutto.
Certo egli
aveva ragione ed io meritavo dei
rimproveri (primo rimorso). Debbo
dire qui, che sono sicuro che non è per quelle parole che io odio il dottor
Coprosich. Mi scusai raccontandogli dell’avversione di mio padre per medici e
medicine; parlavo piangendo e il dottore, con bontà generosa, cercò di
quietarmi dicendomi che se anche fossimo ricorsi a lui prima, la sua scienza
avrebbe potuto tutt’al più ritardare la catastrofe cui assistevamo ora, ma non
impedirla.
Però, come continuò a indagare sui precedenti della
malattia, ebbe nuovi argomenti di
rimprovero per me. Egli voleva sapere se mio padre in quegli ultimi mesi si
fosse lagnato delle sue condizioni di salute, del suo appetito e del suo sonno.
Non seppi dirgli nulla di preciso; neppure se mio padre avesse mangiato molto o
poco a quel tavolo a cui sedevamo giornalmente insieme. L’evidenza della mia colpa m’atterrò (secondo rimorso), ma il dottore non insistette affatto nelle
domande. Apprese da me che Maria lo vedeva sempre moribondo e ch’io perciò la
deridevo.
Egli stava pulendosi le orecchie, guardando in alto.
– Fra un paio d’ore probabilmente ricupererà la
coscienza almeno in parte, – disse.
– C’è qualche speranza dunque? – esclamai io.
– Nessunissima! – rispose seccamente. – Però le
mignatte non sbagliano mai in questo caso. Ricupererà di sicuro un po’ della
sua coscienza, forse per impazzire.
Alzò le spalle e rimise a posto l’asciugamano.
Quell’alzata di spalle significava proprio un disdegno per l’opera propria e
m’incoraggiò a parlare. Ero pieno di terrore all’idea che mio padre avesse
potuto rimettersi dal suo torpore per vedersi morire, ma senza quell’alzata di
spalle non avrei avuto il coraggio di dirlo.
– Dottore! – supplicai. – Non le pare sia una cattiva
azione di farlo ritornare in sé?
Scoppiai in pianto. La voglia di piangere l’avevo
sempre nei miei nervi scossi, ma mi vi abbandonavo senza resistenza per far
vedere le mie lagrime e farmi perdonare dal dottore il giudizio che avevo osato
di dare sull’opera sua.
Con grande bontà egli mi disse:
– Via, si calmi. La coscienza dell’infermo non sarà
mai tanto chiara da fargli comprendere il suo stato. Egli non è un medico.
Basterà non dirgli ch’è moribondo, ed egli non lo saprà. Ci può invece toccare
di peggio: potrebbe cioè impazzire. Ho però portata con me la camicia di forza
e l’infermiere resterà qui.
Più spaventato che mai, lo supplicai di non
applicargli le mignatte. Egli allora con tutta calma mi raccontò che
l’infermiere gliele aveva sicuramente già applicate perché egli ne aveva dato
l’ordine prima di lasciare la stanza di mio padre. Allora m’arrabbiai. Poteva esserci un’azione più malvagia di quella
di richiamare in sé un ammalato, senz’avere la minima speranza di salvarlo e
solo per esporlo alla disperazione, o al rischio di dover sopportare – con
quell’affanno! – la camicia di forza? Con tutta violenza, ma sempre accompagnando
le mie parole di quel pianto che domandava indulgenza, dichiarai che mi pareva
una crudeltà inaudita di non lasciar morire in pace chi era definitivamente
condannato.
Io odio
quell’uomo perché egli allora s’arrabbiò con me. È ciò ch’io
non seppi mai perdonargli. Egli s’agitò tanto che dimenticò d’inforcare gli
occhiali e tuttavia scoperse esattamente il punto ove si trovava la mia testa
per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi
disse che gli pareva io volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che
vi era ancora (terzo rimorso). Me
lo disse proprio così, crudamente.
Ci si avviava a un conflitto. Piangendo e urlando
obbiettai che pochi istanti prima egli stesso aveva esclusa qualunque speranza
di salvezza per l’ammalato. La casa mia e chi vi abitava non dovevano servire
ad esperimenti per i quali c’erano altri posti a questo mondo!
Con grande
severità e una calma che la rendeva quasi minacciosa, egli
rispose:
– Io le spiegai quale era lo stato della scienza in
quell’istante. Ma chi può dire quello che può avvenire fra mezz’ora o fino a
domani? Tenendo in vita suo padre io ho lasciata aperta la via a tutte le
possibilità.
Si mise allora gli occhiali e, col suo aspetto
d’impiegato pedantesco, aggiunse ancora delle spiegazioni che non finivano più,
sull’importanza che poteva avere l’intervento del medico nel destino economico
di una famiglia. Mezz’ora in più di respiro poteva decidere del destino di un
patrimonio.
Piangevo oramai anche perché compassionavo me stesso
per dover star a sentire tali cose in simile momento. Ero esausto e cessai dal
discutere. Tanto le mignatte erano già state applicate!
Il medico è una potenza quando si trova al letto di un
ammalato ed io al dottor Coprosich usai ogni riguardo. Dev’essere stato per
tale riguardo ch’io non osai di proporre
un consulto, cosa che mi rimproverai per lunghi anni (quarto rimorso). Ora anche quel rimorso è morto insieme a tutti i
miei altri sentimenti di cui parlo qui con la freddezza con cui racconterei di
avvenimenti toccati ad un estraneo (non è
vero, vista la passione con cui ci ha appena raccontato l’episodio e visto il
sogno che racconta subito dopo). Nel mio cuore, di quei giorni, non v’è
altro residuo che l’antipatia per quel medico che tuttavia si ostina a vivere.
(…) La notte scorsa, dopo di aver passata parte della
giornata di ieri a raccogliere questi miei ricordi, ebbi un sogno vivissimo che
mi riportò con un salto enorme, attraverso il tempo, a quei giorni. Mi rivedevo
col dottore nella stessa stanza ove avevamo discusso di mignatte e camicie di
forza, in quella stanza che ora ha tutt’altro aspetto perché è la stanza da
letto mia e di moglie. Io insegnavo al dottore il modo di curare e guarire mio
padre, mentre lui (non vecchio e cadente com’è ora, ma vigoroso e nervoso
com’era allora) con ira, gli occhiali in mano e gli occhi disorientati, urlava
che non valeva la pena di fare tante cose. Diceva proprio così: «Le mignatte lo
richiamerebbero alla vita e al dolore e non bisogna applicargliele!». Io invece
battevo il pugno su un libro di medicina ed urlavo: «Le mignatte! Voglio le
mignatte! Ed anche la camicia di forza!» (il
rimorso persiste ancora, nel tempo presente del narratore).
(…) Fu allora che avvenne la scena terribile che non
dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio
coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d’uopo che ogni mio
sentimento fosse affievolito dagli anni.
L’infermiere mi disse:
– Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto.
Il dottore vi dà tanta importanza!
Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà.
Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato
s’era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per
mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?
Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda
del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa
poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli
comandavo di non moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi
esclamò:
– Muoio!
E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo
grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli potè sedere sulla
sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu
aumentata al trovarsi – sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e
gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno,
come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo
supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse
saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la
lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento.
Morto!
Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo,
aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto.
Piangendo, proprio come un bambino
punito, gli gridai nell’orecchio:
– Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che
voleva obbligarti di star sdraiato!
Era una bugia (il
dottore aveva consigliato, non obbligato). Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più:
– Ti lascerò movere come vorrai.
L’infermiere disse:
– È morto.
Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più
provargli la mia innocenza!
Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era
escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di
punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia.
Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che
il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli,
quale medico, avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e
agire di un moribondo. Potevo anche
essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la
respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar
a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio
padre!
Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che
Carlo, l’infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: – Il padre alzò
alto alto la mano e con l’ultimo suo atto picchiò il figliuolo. – Egli lo
sapeva e perciò Coprosich l’avrebbe risaputo.
Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che
avevano vestito il cadavere. L’infermiere doveva anche avergli ravviata la
bella, bianca chioma. La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani
grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza
che parevano pronte ad afferrare e
punire (aggettivi e verbi che
delineano una figura terrificante, che minaccia e punisce il figlio colpevole).
Non volli, non seppi più rivederlo.
Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre
conosciuto dopo la mia infanzia e mi
convinsi che quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era
stato da lui voluto (per sentirsi
innocente ha bisogno di rimuovere l’immagine punitiva del padre, quindi se lo
raffigura nel ricordo “debole e buono”). Divenni buono, buono (dunque, riconosce di non essere stato buono
precedentemente, ma ostile e aggressivo) e il ricordo di mio padre
s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso:
eravamo oramai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più
forte (si adatta al ruolo infantile della
debolezza nei confronti del padre).
La coscienza di
Zeno: il matrimonio
9) L’idea del
matrimonio è associata all’idea di un rinnovamento, di una svolta, quindi di
una guarigione. Di fatto, non è altro
che un modo per diventare figlio di colui che Zeno ha scelto come nuovo padre,
cioè Giovanni Malfenti, commerciante di poca cultura ma di grande
determinazione, della specie dei lottatori, della specie insomma che Svevo
ammira e a cui vorrebbe appartenere. Ma in maniera contraddittoria, perché il
vecchio Malfenti è anche il solito rivale dell’inetto, invidiato e odiato, il
rivale che deride l’inetto con argomenti simili a quelli usati da Macario in Una
vita (“Conosce i classici a mente. Sa chi ha detto questo e chi ha detto
quello. Non sa però leggere un giornale!”). Nell’ultimo capitolo ci
verrà detto che lo stesso psicanalista ha visto nel vecchio Malfenti un secondo
padre per Zeno, talché quest’ultimo ha cercato di “sfregiarne” la casa
(cercando di sedurne le figlie e tradendo la figlia sposata).
10) La fanciulla scelta per il
matrimonio, Ada, non è solo quella ritenuta più bella fra le figlie di
Malfenti, ma anche quella che sembra somigliare di più al padre. Questo è il
punto di partenza, ma il desiderio di avere Ada diventa sempre più forte man
mano che Zeno si accorge che la ragazza
non ne vuol sapere di lui (se ne accorge, anche se mette in atto una serie di
autoinganni per nasconderselo, dilaziona continuamente il proposito di
dichiararsi, perché ha paura della verità). Del resto in quel salotto tutti
si accorgono della sua inettitudine (le gaffes sono continue, anche se solo la
piccola Anna ha il coraggio innocente di dargli ripetutamente del pazzo), e la
mamma Malfenti ne approfitta per indurlo a chiedere la mano della maggiore, e
più brutta, delle figlie, Augusta, proprio quella che Zeno aveva escluso di
poter scegliere sin dal primo incontro. E così succederà quando Zeno (prima
addolorato perché invitato dalla madre a frequentare di meno il salotto
Malfenti, in quanto sta “compromettendo” Augusta, poi umiliato da Guido Speier che in quel salotto miete successi di
simpatia, soprattutto in quanto abilissimo a suonare il violino, ed è
chiaramente prediletto da Ada: Guido è l’amico-rivale, l’“atto a vivere”,
che può ricordare Stefano Balli di Senilità
e Macario di Una vita) chiederà la
mano di Ada; rifiutato, ci proverà con la diciassettenne Alberta; quindi,
terrorizzato dall’idea di non poter più frequentare quel salotto, si butta su
Augusta; costei, che pure sa del suo amore per Ada (Zeno le si era dichiarato
al buio, pensando che fosse Ada, la sera in cui Guido aveva organizzato una
seduta spiritica), accetta e la vicenda si conclude secondo quelli che erano,
sin dall’inizio, i progetti della signora Malfenti.
11) Ma
Augusta, la donna non voluta, si rivela poi un’ottima
moglie, la moglie “sana” che può finalmente mettere ordine nella vita di Zeno,
laddove sarà fallimentare il matrimonio fra Guido e Ada. Ma sulla salute di Augusta, che
Zeno contrappone alla propria malattia, ritorneremo, perché ci chiarisce la
natura dell’inettitudine.
La coscienza di Zeno:
l’adulterio
12) L’adulterio è perseguito da Zeno secondo una logica simile a quella
dell’ultima sigaretta. Carla gli
piace, ma non la stima, la maltratta, ha sempre il sospetto che lo faccia per
denaro (anche se, con uno dei tipici giudizi dati a posteriori dal narratore,
riconosce che la ragazza era fondamentalmente onesta e sincera con lui). Vive
il rapporto con grandi sensi di colpa, sempre, dall’inizio alla fine, ha in
mente il proposito di chiudere e in tasca la busta con i soldi per liquidarla.
Ma ogni volta si vuole godere il piacere dell’ultimo amplesso (cosiccome si gode il piacere dell’ultima
sigaretta; analogamente, in un certo giorno, ha scritto sul vocabolario alla
lettera C “ultimo tradimento”), dopo di che sente la repulsione e il
pentimento, ciò che gli consente di ritornare a casa sereno, rigenerato dal
proposito di essere un marito fedele. Ma il giorno dopo siamo daccapo, al punto
che, quando è proprio Carla a chiudere il rapporto (commossa alla vista della
bella e triste moglie di Zeno, che peraltro le ha indicato Ada e non Augusta,
decide di accettare la proposta di matrimonio del maestro di canto), Zeno si
ostina a volere un ultimo incontro, che, ovviamente, non sarebbe mai l’ultimo.
La coscienza di Zeno:
l’associazione commerciale
13) E’ il capitolo della rivincita.
L’associazione commerciale con Guido si rivela fallimentare, Guido fa delle
operazioni sbagliate e addirittura, nel tentativo di commuovere la moglie Ada
per farsi prestare la somma perduta giocando in borsa, inscena un finto
suicidio. Senonché il finto suicidio, per il ritardo nell’arrivo del medico,
diventa vero. Zeno si affanna a spiegare, in tutte le occasioni in cui il suo
comportamento poteva sembrare colpevole, che lui ha sempre voluto bene a Guido
e che lo ha sempre consigliato per il meglio. Anzitutto fa notare che lui non
aveva responsabilità nell’azienda, aiutava
Guido come contabile per puro affetto, senza compenso, dunque tutti gli errori furono colpa esclusiva di Guido. Poi, in
occasione del disastroso acquisto di sessanta tonnellate di solfato di rame,
dice di essere stato assente dall’ufficio e quindi di non avere visto la
lettera con cui gli inglesi concedevano la possibilità di revocare l’ordine.
Quando Guido comincia a giocare in borsa, lui era l’unico a sconsigliarlo. E
quando si arriva alla catastrofe della perdita in borsa, è lui che mette a
disposizione di Guido un quarto della somma.
14) Ma tutte queste giustificazioni non richieste, fanno supporre una sua
cattiva coscienza, un suo contributo alla rovina e alla morte di Guido (del
resto aveva ben capito – ma non aveva detto niente – che Guido avrebbe
inscenato un finto suicidio, perché gli aveva chiesto informazioni sui tempi
entro cui il veronal avrebbe avuto effetto mortale). Ed è quello che pensa
anche Ada, che lo smaschera quando Zeno la va a trovare dopo la mancata
partecipazione al funerale di Guido (ha seguito un funerale sbagliato: si
tratta di quello che Freud chiama un “atto mancato”, un lapsus di
comportamento, che sembra un errore involontario, in realtà rivela una reale
intenzione dettata dall’inconscio): “Tu
non gli hai mai voluto bene”, gli dice con durezza, quando lui si
aspetterebbe complimenti e ringraziamenti, perché, giocando in borsa, ha
ridotto di tre quarti la perdita di Guido. Del resto, Zeno continua anche a
negare di provare ancora amore per Ada, che, malatasi del morbo di Basedow, ha
perso la sua bellezza; ma continua a cercare i suoi elogi, vuole apparire ai
suoi occhi migliore di Guido, anzi, tutto quello che fa ha questo fine (fine, peraltro,
apparentemente raggiunto: “sei il
migliore uomo della famiglia”, gli dice Ada quando gli chiede di vigilare
su Guido, dopo il primo tentativo di suicidio).
La Coscienza di Zeno:
l’apparente rivincita dell’inetto
15) Tornando al rapporto con Guido, certo è che l’inetto ha qui la sua
rivincita, visto che sia nella vita privata, dei rapporti famigliari, che
in quella lavorativa, degli affari, è il rivale a soccombere. Ma come per la
scelta di Augusta (che, non voluta da Zeno, si rivela poi un’ottima moglie),
così per il successo commerciale si può dire che non è lui che determina la realtà, ma è la realtà che gira a suo favore.
Gioca in borsa (contrariamente a quello che suggeriva a Guido) e vince, ma non per particolare accortezza, ma
perché segue i consigli del Nilini (proprio quello che aveva indicato come
il cattivo consigliere di Guido) e ha fortuna. Ma infine, che Guido non fosse
del tutto un incapace e che Zeno ci abbia nascosto qualcosa, lo si capisce nel
capitolo successivo, quando ci viene detto che il dottore ha scoperto che
esisteva un “grandioso deposito di
legnami” di proprietà di Guido. Dunque c’era
un magazzino (sulla cui assenza Zeno aveva ironizzato) e c’erano degli
acquisti ben fatti (risibile il modo in cui Zeno giustifica il suo silenzio:
chi deve scrivere in italiano, avendo più familiarità con il dialetto, è
portato a trascurare episodi che richiedono conoscenza di terminologie
specifiche: nella fattispecie, dei diversi tipi di legname).
[1]
Non sappiamo se corrisponda a un personaggio reale. Per qualcuno sarebbe Freud
(Sigmund) o un suo collaboratore (Steikel) conosciuto da Svevo, per altri lo
stesso Svevo (Schmitz)
[2]
Sbeffeggiato già nel nome: dovrebbe lavarsi ben altro che il viso e le mani,
diceva Joyce
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