giovedì 7 aprile 2016

La figura dell'inetto nella letteratura fra Ottocento e Novecento (V parte)


La coscienza di Zeno: struttura narrativa

1)   Vediamo ora il terzo romanzo, La coscienza di Zeno. Si tratta di una struttura narrativa nuova, sostanzialmente per due ragioni. Anzitutto, a differenza dei primi due romanzi, è narrato in prima persona. Infatti il romanzo, ce lo dice il narratore stesso, non è altro che la stesura delle proprie memorie, dei ricordi del proprio passato, una rievocazione della propria vita, che il protagonista avrebbe redatto su consiglio dello psicanalista. Zeno infatti dichiara di essere malato, la sua malattia è l’inettitudine: il lettore, che conosce i suoi due “fratelli carnali”, Alfonso ed Emilio (è Svevo stesso che li chiama così nel Profilo autobiografico), se ne rende conto, ma lui crede che si tratti di una debolezza di carattere dovuta al vizio del fumo; ad ogni buon conto, si affida alla psicanalisi, una terapia decisamente nuova per quei tempi (Svevo è uno dei primi, se non il primo, a utilizzare in letteratura le rivoluzionarie idee di Freud circa il funzionamento della mente umana, circa il fatto che le nostre azioni, i nostri comportamenti sono spesso determinati da una parte nascosta della nostra coscienza, dal  cosiddetto “inconscio”).

2)   La seconda novità riguarda la struttura cronologica della narrazione. Gli avvenimenti non sono narrati seguendo una linea temporale continua, gli avvenimenti cioè non si succedono secondo una cronologia naturale, per cui, di capitolo in capitolo, c’è un prima e c’è un dopo secondo lo scorrere naturale del tempo, come succede nei romanzi tradizionali (pensiamo ai Promessi sposi: la vicenda è narrata seguendo lo scorrere naturale del tempo, dal matrimonio impedito all’inizio al matrimonio che si compie alla fine). La coscienza di Zeno invece, proprio perché si basa sull’idea di mettere a fuoco, da parte del protagonista, dei momenti significativi della propria vita, rompe questo schema, nella narrazione si mescolano passato, presente e futuro, è in atto il cosiddetto “tempo misto”. Basta vedere l’indice per capire che non c’è una linearità temporale: si tratta di sei capitoli a se stanti (Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale, Psico-analisi), in cui i tempi, appunto, si intersecano: ad esempio nel primo capitolo, Il fumo, Zeno racconta del suo vizio, da cui invano cerca di liberarsi, da ragazzo fino al suo presente, quindi nella narrazione è presente anche la moglie, ma di costei, di come l’ha conosciuta e del perché si sono sposati, sapremo in un capitolo successivo, La storia del mio matrimonio. 

La coscienza di Zeno: la prefazione

3)   Abbiamo detto che il tipico comportamento dell’inetto sveviano è quello di mentire: mentire agli altri e mentire a se stesso, cioè auto-ingannarsi, cercare alibi alla propria inettitudine. Ma se in Senilità era il narratore che smascherava le menzogne del protagonista, ciò non sarà possibile ne La coscienza, perché il narratore è il protagonista stesso. Dunque toccherà al lettore distinguere le verità e le menzogne, che sono sapientemente mescolate, come ci avverte il dottor S.[1] nella prefazione (è lo psicanalista che ha avuto in cura Zeno e che gli ha consigliato di scrivere le sue memorie come “preludio alla psicanalisi”; ora il dottore pubblica quelle memorie “per vendetta” – lo dice lui stesso – perché Zeno sul più bello si è sottratto alla cura):

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico–analisi s’intende,  sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.

Di psico–analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico–analisi arricceranno il naso a tanta novità (allude al fatto che il malato non può analizzare da solo i propri ricordi, perché continuerebbe a “rimuovere”, a nascondere, ciò che non vuole ammettere; ci vuole la presenza dello psicanalista). Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico–analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.

Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!...

DOTTOR S.

4)   Questa prefazione ci colpisce subito perché il dottore – che parla di truffa, di vendetta, di lauti onorari – ci pare inattendibile, professionalmente non credibile. Insomma ci pare vittima della stessa sfiducia, anzi disprezzo, che Zeno manifesta nei confronti dei dottori. Ma questa prefazione non l’ha scritta Zeno, bensì l’autore. Dunque ci si pone il problema della distanza (dello scarto) fra autore e narratore, fra Svevo e Zeno. In altre parole, qual è il punto di vista dell’autore rispetto a quello del narratore? Non è possibile capirlo, talché il romanzo sembra essere autobiografico (malgrado quel che dice Svevo stesso in una lettera a Montale; ma Svevo ha vissuto un problema del fumo come quello di Zeno, Svevo ha espresso la stessa sfiducia di Zeno nei confronti della psicanalisi, ecc.). A questo proposito, mi pare che si possa addurre un argomento decisivo: la prefazione del dottor S. (che, in quanto pre-testo, è precedente ed esterna rispetto alla narrazione di Zeno, dunque attribuibile esclusivamente all’autore) tradisce, inaspettatamente, lo stesso punto di vista di Zeno, di decisa antipatia, nei confronti dei medici. Il dottor S. è uno dei tanti medici messi alla berlina nel romanzo, ma che si ridicolizzi da solo (la pubblicazione fatta “per vendetta”, i “lauti onorari” che si prefigge di ottenere) è incredibile: l’autore si è tradito (è lui che ha inventato la finzione della prefazione), quell’antipatia è la sua, e dunque lui, almeno in questo, si identifica con Zeno. E in questa ambiguità (dove finisce l’autobiografia di Svevo e comincia l’invenzione letteraria?) risiede molto del fascino del romanzo, perché il lettore si sente sollecitato a decifrare non tanto le menzogne del narratore Zeno, quanto quelle dell’autore Svevo (come se ci fossero cose che l’autore vuole nascondere anche a se stesso: vedi con che insistenza, e buone argomentazioni, si difende dalla colpa, presunta, di aver voluto la morte del padre).

La coscienza di Zeno: il vizio del fumo

5)   Dunque Zeno, su consiglio del medico, si mette a trascrivere le sue memorie e le suddivide per capitoli. Il primo riguarda il vizio del fumo, vizio che risale a quando Zeno era bambino e rubava i soldi e i mezzi sigari al padre, e vizio da cui cerca invano di liberarsi. Famose le pagine in cui ci racconta che associava tutte le date importanti ad una “ultima sigaretta”, che non era mai l’ultima; ma anche le pagine in cui, da adulto e già sposato, si fa ricoverare in clinica. Di grande comicità è la vicenda della seduzione di Giovanna, l’infermiera che dovrebbe fargli da guardiana: non solo la ubriaca con del cognac, ma la convince che, se fuma una decina di sigarette, diventa incontenibile con le donne; quindi Giovanna si ritira nella sua stanza, lasciandogli la porta aperta e un pacchetto con dieci sigarette; naturalmente Zeno ne approfitterà per fuggire (non resiste alla cura della reclusione, ma anche vuole accertarsi che la moglie non lo stia tradendo con il dottore).

6)   Tornando al vizio del fumo, a ben guardare si tratta anche di altro, e cioè dell’alibi con cui Zeno può giustificare la sua incapacità di affrontare la vita (la sua inettitudine): pensa di essere inetto perché avvelenato dalla nicotina, e dunque, contro tutti i propositi, continua a fumare (altrimenti dovrebbe constatare di essere inetto a prescindere dalla nicotina). Del resto, che la verità sia questa, lo sospetta lui stesso:

Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato: «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta! !».

Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio (è un recipiente di vetro, una specie di ampolla, usato in laboratorio di chimica). Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.

Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge. Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?

Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. (intravede la verità: il vizio del fumo come alibi dell’inettitudine)

La coscienza di Zeno: la morte del padre

7)   Il capitolo intitolato La morte del padre è centrale, piscanaliticamente, non solo perché si narra del terribile trauma che Zeno patisce in occasione, appunto, della morte del padre e del conseguente sentimento di colpa che il figlio si porta dietro per tutta la vita; ma anche per la narrazione del rapporto conflittuale, della incomprensione fra il padre e il figlio, incomprensione che si manifesta in varie occasioni, particolarmente in quella della cena la sera precedente l’entrata in coma. La morte chiude definitivamente la possibilità di sanare quella incomprensione, quella mancanza di comunicazione. Il padre vorrebbe il figlio forte e sicuro, costui si rivela invece debole e insicuro (inetto, lo dimostrano i continui cambiamenti di facoltà universitaria); pensa che il figlio sia “pazzo”, perché non sa prendere sul serio le cose concrete della vita, e costui, con poca serietà, gli porta un certificato medico di sanità mentale; il padre ha pensieri sulla morte e sul dopo, chiede un parere al figlio, e questi gli paragona la morte al piacere sessuale (ovviamente causando l’irritazione del padre); il padre, infine, pensa al conforto della religione, e cerca l’appoggio del figlio, ma questi gli dice che per lui la religione è solo un oggetto di studio. La sera che precede la catastrofe, il padre vorrebbe dire al figlio una parola decisiva, ma quella parola non gli viene e non gli verrà mai più (un’ultima parola non detta! Come ad Amalia ed Angiolina da parte di Emilio): resta dunque un non detto fra di loro, un fallimento di comunicazione. E’ questa la vera colpa che Zeno sente, e la volontà di espiarla si rivela alla fine, laddove ammette di essere tornato alla religione (intesa come pratica interiore e non pubblica), di far pregare per il padre e di pregare anche lui qualche volta (adesso, ma è troppo tardi, potrebbe intendersi con il padre).

8)   Il senso di colpa di Zeno ha il suo culmine nell’episodio della morte del padre. Zeno si sente colpevole, nel suo subconscio, di aver desiderato la morte del padre, anche se, al livello conscio della memoria e della scrittura difende ostinatamente la propria assoluta innocenza e buona fede. Ma l’interpretazione psicanalitica non lascia dubbi, anche se Zeno si rifiuta di accettarla e nell’ultimo capitolo ironizza sul dottore che gliela propone: si tratta di un complesso di Edipo non risolto, quello per cui, secondo Freud, ogni bambino è innamorato della madre e desidera la morte del padre. Zeno rifiuta tale teoria, ma nel suo subconscio il senso di colpa persiste, anche ora che è vecchio, vista l’insistenza puntigliosa con cui nella narrazione protesta la propria innocenza, si affanna a giustificare ogni suo comportamento e visto l’odio che conserva nei confronti dei dottori, un odio che sembra essere stato originato dal dottor Coprosich[2] – il medico che è intervenuto quando il padre è entrato in coma, e che lo ha rimproverato sia di avere trascurato il padre, sia, soprattutto, di non volerne il prolungamento della vita.



Andammo al letto dell’ammalato. Con l’aiuto dell’infermiere egli girò e rigirò quel povero corpo inerte per un tempo che a me parve lunghissimo. Lo ascoltò e lo esplorò. Tentò di farsi aiutare dal paziente stesso, ma invano.

– Basta! – disse ad un certo punto. Mi si avvicinò con gli occhiali in mano guardando il pavimento e, con un sospiro, mi disse:

– Abbiate coraggio! È un caso gravissimo. Andammo alla mia stanza ove egli si lavò anche la faccia.

Era perciò senza occhiali e quando l’alzò per asciugarla, la sua testa bagnata sembrava la testina strana di un amuleto fatta da mani inesperte. Ricordò di averci visti alcuni mesi prima ed espresse meraviglia perché non fossimo più ritornati da lui. Anzi aveva creduto che lo avessimo abbandonato per altro medico; egli allora aveva ben chiaramente dichiarato che mio padre abbisognava di cure. Quando rimproverava, così senz’occhiali, era terribile. Aveva alzata la voce e voleva spiegazioni. I suoi occhi le cercavano dappertutto.

Certo egli aveva ragione ed io meritavo dei rimproveri (primo rimorso). Debbo dire qui, che sono sicuro che non è per quelle parole che io odio il dottor Coprosich. Mi scusai raccontandogli dell’avversione di mio padre per medici e medicine; parlavo piangendo e il dottore, con bontà generosa, cercò di quietarmi dicendomi che se anche fossimo ricorsi a lui prima, la sua scienza avrebbe potuto tutt’al più ritardare la catastrofe cui assistevamo ora, ma non impedirla.

Però, come continuò a indagare sui precedenti della malattia, ebbe nuovi argomenti di rimprovero per me. Egli voleva sapere se mio padre in quegli ultimi mesi si fosse lagnato delle sue condizioni di salute, del suo appetito e del suo sonno. Non seppi dirgli nulla di preciso; neppure se mio padre avesse mangiato molto o poco a quel tavolo a cui sedevamo giornalmente insieme. L’evidenza della mia colpa m’atterrò (secondo rimorso), ma il dottore non insistette affatto nelle domande. Apprese da me che Maria lo vedeva sempre moribondo e ch’io perciò la deridevo.

Egli stava pulendosi le orecchie, guardando in alto.

– Fra un paio d’ore probabilmente ricupererà la coscienza almeno in parte, – disse.

– C’è qualche speranza dunque? – esclamai io.

– Nessunissima! – rispose seccamente. – Però le mignatte non sbagliano mai in questo caso. Ricupererà di sicuro un po’ della sua coscienza, forse per impazzire.

Alzò le spalle e rimise a posto l’asciugamano. Quell’alzata di spalle significava proprio un disdegno per l’opera propria e m’incoraggiò a parlare. Ero pieno di terrore all’idea che mio padre avesse potuto rimettersi dal suo torpore per vedersi morire, ma senza quell’alzata di spalle non avrei avuto il coraggio di dirlo.

– Dottore! – supplicai. – Non le pare sia una cattiva azione di farlo ritornare in sé?

Scoppiai in pianto. La voglia di piangere l’avevo sempre nei miei nervi scossi, ma mi vi abbandonavo senza resistenza per far vedere le mie lagrime e farmi perdonare dal dottore il giudizio che avevo osato di dare sull’opera sua.

Con grande bontà egli mi disse:

– Via, si calmi. La coscienza dell’infermo non sarà mai tanto chiara da fargli comprendere il suo stato. Egli non è un medico. Basterà non dirgli ch’è moribondo, ed egli non lo saprà. Ci può invece toccare di peggio: potrebbe cioè impazzire. Ho però portata con me la camicia di forza e l’infermiere resterà qui.

Più spaventato che mai, lo supplicai di non applicargli le mignatte. Egli allora con tutta calma mi raccontò che l’infermiere gliele aveva sicuramente già applicate perché egli ne aveva dato l’ordine prima di lasciare la stanza di mio padre. Allora m’arrabbiai. Poteva esserci un’azione più malvagia di quella di richiamare in sé un ammalato, senz’avere la minima speranza di salvarlo e solo per esporlo alla disperazione, o al rischio di dover sopportare – con quell’affanno! – la camicia di forza? Con tutta violenza, ma sempre accompagnando le mie parole di quel pianto che domandava indulgenza, dichiarai che mi pareva una crudeltà inaudita di non lasciar morire in pace chi era definitivamente condannato.

Io odio quell’uomo perché egli allora s’arrabbiò con me. È ciò ch’io non seppi mai perdonargli. Egli s’agitò tanto che dimenticò d’inforcare gli occhiali e tuttavia scoperse esattamente il punto ove si trovava la mia testa per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi disse che gli pareva io volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che vi era ancora (terzo rimorso). Me lo disse proprio così, crudamente.

Ci si avviava a un conflitto. Piangendo e urlando obbiettai che pochi istanti prima egli stesso aveva esclusa qualunque speranza di salvezza per l’ammalato. La casa mia e chi vi abitava non dovevano servire ad esperimenti per i quali c’erano altri posti a questo mondo!

Con grande severità e una calma che la rendeva quasi minacciosa, egli rispose:

– Io le spiegai quale era lo stato della scienza in quell’istante. Ma chi può dire quello che può avvenire fra mezz’ora o fino a domani? Tenendo in vita suo padre io ho lasciata aperta la via a tutte le possibilità.

Si mise allora gli occhiali e, col suo aspetto d’impiegato pedantesco, aggiunse ancora delle spiegazioni che non finivano più, sull’importanza che poteva avere l’intervento del medico nel destino economico di una famiglia. Mezz’ora in più di respiro poteva decidere del destino di un patrimonio.

Piangevo oramai anche perché compassionavo me stesso per dover star a sentire tali cose in simile momento. Ero esausto e cessai dal discutere. Tanto le mignatte erano già state applicate!

Il medico è una potenza quando si trova al letto di un ammalato ed io al dottor Coprosich usai ogni riguardo. Dev’essere stato per tale riguardo ch’io non osai di proporre un consulto, cosa che mi rimproverai per lunghi anni (quarto rimorso). Ora anche quel rimorso è morto insieme a tutti i miei altri sentimenti di cui parlo qui con la freddezza con cui racconterei di avvenimenti toccati ad un estraneo (non è vero, vista la passione con cui ci ha appena raccontato l’episodio e visto il sogno che racconta subito dopo). Nel mio cuore, di quei giorni, non v’è altro residuo che l’antipatia per quel medico che tuttavia si ostina a vivere.

(…) La notte scorsa, dopo di aver passata parte della giornata di ieri a raccogliere questi miei ricordi, ebbi un sogno vivissimo che mi riportò con un salto enorme, attraverso il tempo, a quei giorni. Mi rivedevo col dottore nella stessa stanza ove avevamo discusso di mignatte e camicie di forza, in quella stanza che ora ha tutt’altro aspetto perché è la stanza da letto mia e di moglie. Io insegnavo al dottore il modo di curare e guarire mio padre, mentre lui (non vecchio e cadente com’è ora, ma vigoroso e nervoso com’era allora) con ira, gli occhiali in mano e gli occhi disorientati, urlava che non valeva la pena di fare tante cose. Diceva proprio così: «Le mignatte lo richiamerebbero alla vita e al dolore e non bisogna applicargliele!». Io invece battevo il pugno su un libro di medicina ed urlavo: «Le mignatte! Voglio le mignatte! Ed anche la camicia di forza!» (il rimorso persiste ancora, nel tempo presente del narratore).

(…) Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d’uopo che ogni mio sentimento fosse affievolito dagli anni.

L’infermiere mi disse:

– Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza!

Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?

Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò:

– Muoio!

E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli potè sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!

Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell’orecchio:

– Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!

Era una bugia (il dottore aveva consigliato, non obbligato). Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più:

– Ti lascerò movere come vorrai.

L’infermiere disse:

– È morto.

Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza!

Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia.

Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre!

Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l’infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: – Il padre alzò alto alto la mano e con l’ultimo suo atto picchiò il figliuolo. – Egli lo sapeva e perciò Coprosich l’avrebbe risaputo.

Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere. L’infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma. La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire (aggettivi e verbi che delineano una figura terrificante, che minaccia e punisce il figlio colpevole). Non volli, non seppi più rivederlo.

Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto (per sentirsi innocente ha bisogno di rimuovere l’immagine punitiva del padre, quindi se lo raffigura nel ricordo “debole e buono”). Divenni buono, buono (dunque, riconosce di non essere stato buono precedentemente, ma ostile e aggressivo) e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte (si adatta al ruolo infantile della debolezza nei confronti del padre).

La coscienza di Zeno: il matrimonio

9)   L’idea del matrimonio è associata all’idea di un rinnovamento, di una svolta, quindi di una guarigione. Di fatto, non è altro che un modo per diventare figlio di colui che Zeno ha scelto come nuovo padre, cioè Giovanni Malfenti, commerciante di poca cultura ma di grande determinazione, della specie dei lottatori, della specie insomma che Svevo ammira e a cui vorrebbe appartenere. Ma in maniera contraddittoria, perché il vecchio Malfenti è anche il solito rivale dell’inetto, invidiato e odiato, il rivale che deride l’inetto con argomenti simili a quelli usati da Macario in Una vita (“Conosce i classici a mente. Sa chi ha detto questo e chi ha detto quello. Non sa però leggere un giornale!”). Nell’ultimo capitolo ci verrà detto che lo stesso psicanalista ha visto nel vecchio Malfenti un secondo padre per Zeno, talché quest’ultimo ha cercato di “sfregiarne” la casa (cercando di sedurne le figlie e tradendo la figlia sposata).

10)   La fanciulla scelta per il matrimonio, Ada, non è solo quella ritenuta più bella fra le figlie di Malfenti, ma anche quella che sembra somigliare di più al padre. Questo è il punto di partenza, ma il desiderio di avere Ada diventa sempre più forte man mano che Zeno si accorge che la ragazza non ne vuol sapere di lui (se ne accorge, anche se mette in atto una serie di autoinganni per nasconderselo, dilaziona continuamente il proposito di dichiararsi, perché ha paura della verità). Del resto in quel salotto tutti si accorgono della sua inettitudine (le gaffes sono continue, anche se solo la piccola Anna ha il coraggio innocente di dargli ripetutamente del pazzo), e la mamma Malfenti ne approfitta per indurlo a chiedere la mano della maggiore, e più brutta, delle figlie, Augusta, proprio quella che Zeno aveva escluso di poter scegliere sin dal primo incontro. E così succederà quando Zeno (prima addolorato perché invitato dalla madre a frequentare di meno il salotto Malfenti, in quanto sta “compromettendo” Augusta, poi umiliato da Guido Speier che in quel salotto miete successi di simpatia, soprattutto in quanto abilissimo a suonare il violino, ed è chiaramente prediletto da Ada: Guido è l’amico-rivale, l’“atto a vivere”, che può ricordare Stefano Balli di Senilità e Macario di Una vita) chiederà la mano di Ada; rifiutato, ci proverà con la diciassettenne Alberta; quindi, terrorizzato dall’idea di non poter più frequentare quel salotto, si butta su Augusta; costei, che pure sa del suo amore per Ada (Zeno le si era dichiarato al buio, pensando che fosse Ada, la sera in cui Guido aveva organizzato una seduta spiritica), accetta e la vicenda si conclude secondo quelli che erano, sin dall’inizio, i progetti della signora Malfenti.

11)   Ma Augusta, la donna non voluta, si rivela poi un’ottima moglie, la moglie “sana” che può finalmente mettere ordine nella vita di Zeno, laddove sarà fallimentare il matrimonio fra Guido e Ada. Ma sulla salute di Augusta, che Zeno contrappone alla propria malattia, ritorneremo, perché ci chiarisce la natura dell’inettitudine.

La coscienza di Zeno: l’adulterio

12)   L’adulterio è perseguito da Zeno secondo una logica simile a quella dell’ultima sigaretta. Carla gli piace, ma non la stima, la maltratta, ha sempre il sospetto che lo faccia per denaro (anche se, con uno dei tipici giudizi dati a posteriori dal narratore, riconosce che la ragazza era fondamentalmente onesta e sincera con lui). Vive il rapporto con grandi sensi di colpa, sempre, dall’inizio alla fine, ha in mente il proposito di chiudere e in tasca la busta con i soldi per liquidarla. Ma ogni volta si vuole godere il piacere dell’ultimo amplesso (cosiccome si gode il piacere dell’ultima sigaretta; analogamente, in un certo giorno, ha scritto sul vocabolario alla lettera C “ultimo tradimento”), dopo di che sente la repulsione e il pentimento, ciò che gli consente di ritornare a casa sereno, rigenerato dal proposito di essere un marito fedele. Ma il giorno dopo siamo daccapo, al punto che, quando è proprio Carla a chiudere il rapporto (commossa alla vista della bella e triste moglie di Zeno, che peraltro le ha indicato Ada e non Augusta, decide di accettare la proposta di matrimonio del maestro di canto), Zeno si ostina a volere un ultimo incontro, che, ovviamente, non sarebbe mai l’ultimo.

La coscienza di Zeno: l’associazione commerciale

13)   E’ il capitolo della rivincita. L’associazione commerciale con Guido si rivela fallimentare, Guido fa delle operazioni sbagliate e addirittura, nel tentativo di commuovere la moglie Ada per farsi prestare la somma perduta giocando in borsa, inscena un finto suicidio. Senonché il finto suicidio, per il ritardo nell’arrivo del medico, diventa vero. Zeno si affanna a spiegare, in tutte le occasioni in cui il suo comportamento poteva sembrare colpevole, che lui ha sempre voluto bene a Guido e che lo ha sempre consigliato per il meglio. Anzitutto fa notare che lui non aveva responsabilità nell’azienda, aiutava Guido come contabile per puro affetto, senza compenso, dunque tutti gli errori furono colpa esclusiva di Guido. Poi, in occasione del disastroso acquisto di sessanta tonnellate di solfato di rame, dice di essere stato assente dall’ufficio e quindi di non avere visto la lettera con cui gli inglesi concedevano la possibilità di revocare l’ordine. Quando Guido comincia a giocare in borsa, lui era l’unico a sconsigliarlo. E quando si arriva alla catastrofe della perdita in borsa, è lui che mette a disposizione di Guido un quarto della somma.

14)   Ma tutte queste giustificazioni non richieste, fanno supporre una sua cattiva coscienza, un suo contributo alla rovina e alla morte di Guido (del resto aveva ben capito – ma non aveva detto niente – che Guido avrebbe inscenato un finto suicidio, perché gli aveva chiesto informazioni sui tempi entro cui il veronal avrebbe avuto effetto mortale). Ed è quello che pensa anche Ada, che lo smaschera quando Zeno la va a trovare dopo la mancata partecipazione al funerale di Guido (ha seguito un funerale sbagliato: si tratta di quello che Freud chiama un “atto mancato”, un lapsus di comportamento, che sembra un errore involontario, in realtà rivela una reale intenzione dettata dall’inconscio): “Tu non gli hai mai voluto bene”, gli dice con durezza, quando lui si aspetterebbe complimenti e ringraziamenti, perché, giocando in borsa, ha ridotto di tre quarti la perdita di Guido. Del resto, Zeno continua anche a negare di provare ancora amore per Ada, che, malatasi del morbo di Basedow, ha perso la sua bellezza; ma continua a cercare i suoi elogi, vuole apparire ai suoi occhi migliore di Guido, anzi, tutto quello che fa ha questo fine (fine, peraltro, apparentemente raggiunto: “sei il migliore uomo della famiglia”, gli dice Ada quando gli chiede di vigilare su Guido, dopo il primo tentativo di suicidio).  

La Coscienza di Zeno: l’apparente rivincita dell’inetto 

15)   Tornando al rapporto con Guido, certo è che l’inetto ha qui la sua rivincita, visto che sia nella vita privata, dei rapporti famigliari, che in quella lavorativa, degli affari, è il rivale a soccombere. Ma come per la scelta di Augusta (che, non voluta da Zeno, si rivela poi un’ottima moglie), così per il successo commerciale si può dire che non è lui che determina la realtà, ma è la realtà che gira a suo favore. Gioca in borsa (contrariamente a quello che suggeriva a Guido) e vince, ma non per particolare accortezza, ma perché segue i consigli del Nilini (proprio quello che aveva indicato come il cattivo consigliere di Guido) e ha fortuna. Ma infine, che Guido non fosse del tutto un incapace e che Zeno ci abbia nascosto qualcosa, lo si capisce nel capitolo successivo, quando ci viene detto che il dottore ha scoperto che esisteva un “grandioso deposito di legnami” di proprietà di Guido. Dunque c’era un magazzino (sulla cui assenza Zeno aveva ironizzato) e c’erano degli acquisti ben fatti (risibile il modo in cui Zeno giustifica il suo silenzio: chi deve scrivere in italiano, avendo più familiarità con il dialetto, è portato a trascurare episodi che richiedono conoscenza di terminologie specifiche: nella fattispecie, dei diversi tipi di legname).





[1] Non sappiamo se corrisponda a un personaggio reale. Per qualcuno sarebbe Freud (Sigmund) o un suo collaboratore (Steikel) conosciuto da Svevo, per altri lo stesso Svevo (Schmitz)
[2] Sbeffeggiato già nel nome: dovrebbe lavarsi ben altro che il viso e le mani, diceva Joyce

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