martedì 5 aprile 2016

La figura dell'inetto nella letteratura fra Ottocento e Novecento (II parte)


Svevo: la vita e l’opera

1)      Ma prima di affrontare l’analisi di tali personaggi, sarà bene, per chi ne avesse una conoscenza superficiale, inquadrare l’autore nei tratti fondamentali della sua biografia e del contesto sociale in cui visse.

2)      Di Svevo si può dire innanzitutto che si tratta di uno scrittore “eccentrico”, nel senso letterale che non vive in uno dei tradizionali centri della cultura italiana, voglio dire Firenze, Roma o, senz’altro – a partire dall’età dell’illuminismo fino a tutto l’Ottocento – Milano. Svevo era di Trieste, lì era nato nel 1861, in un tempo in cui Trieste era ancora territorio dell’impero asburgico (lo sarà fino al 1918), e lì visse e scrisse, lontano quindi dai suddetti centri del dibattito culturale e della produzione letteraria italiana.

3)      Trieste era un vero e proprio crocevia, dove si incontravano tre mondi: quello slavo, quello tedesco, quello italiano. E questo spiega la specificità della formazione di Svevo, che legge autori come Schopenhauer, Nietzsche e Freud (allora non ancora tradotto) e padroneggia la lingua tedesca meglio di quella italiana (a casa parlavano triestino, l’italiano l’aveva imparato a scuola; ma proprio in questa incertezza linguistica risiede parte del fascino della sua scrittura)). Lo stesso nome, Italo Svevo, è uno pseudonimo che rivela la duplicità culturale dello scrittore, per metà italiano e per metà svevo, cioè tedesco. Il suo vero nome era Ettore Schmitz, di famiglia ebraica. Sin da ragazzo i suoi interessi erano letterari e filosofici, ma il padre – un commerciante in vetrami – volle che facesse studi commerciali, prima in un collegio della Baviera poi a Trieste.

4)      Nel 1880, in seguito ai dissesti finanziari del padre, Svevo dovette cercare lavoro e divenne impiegato di banca, un lavoro che mantenne per ben 19 anni e di cui, per sua stessa ammissione, c’è traccia nella vicenda di Alfonso Nitti, il protagonista del suo primo romanzo, Una vita. Svevo, come Alfonso, dedica il suo tempo libero alla frequentazione della biblioteca civica, dove legge i classici italiani, i romanzieri francesi e russi.

5)      Nel 1892 pubblica a proprie spese Una vita. Il romanzo non ha alcuna risonanza, se non locale, come non ne ha il secondo romanzo, Senilità, pubblicato nel 1898. Intanto però la sua vita è cambiata, ha sposato una cugina, Livia Veneziani, che appartiene a una famiglia di facoltosi industriali: i suoi possiedono una fabbrica ben avviata di vernici antiruggine per navi. Svevo lascia l’impiego in banca ed entra nella ditta dei suoceri. Diventa un manager, un dirigente d’industria, come tale viaggia in Francia e in Inghilterra, dove per un periodo dirige una filiale dell’azienda. Dichiara di aver ripudiato la letteratura (così scrive in una pagina di diario del 1902: “Io, a quest’ora e definitivamente, ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura”), di non potere più scrivere perché, come dirà nel Profilo autobiografico, “bastava un solo rigo per renderlo meno adatto al lavoro pratico cui giornalmente doveva attendere. Subentrava subito la distrazione e la cattiva disposizione”.

6)      Intanto conosce Joyce che, esule dall’Irlanda, a Trieste insegnava inglese. I due fanno amicizia e si scambiano le rispettive opere. Joyce apprezza i due romanzi di Svevo e lo esorta a riprendere l’attività letteraria.

7)      Probabilmente durante la guerra (le autorità austriache hanno requisito la fabbrica di vernici e Svevo si trova libero da impegni) compone il terzo romanzo, La coscienza di Zeno, che viene pubblicato nel 1923. Ancora silenzio in Italia. L’unico che ne riconosce la grandezza è Montale, che gli dedica un saggio nel 1925. La fama arriva prima in Europa, grazie Joyce che fa leggere il romanzo a due italianisti francesi (Larbaud e Cremieux), che non solo ne promuovono la traduzione in francese ma lo sostengono con critiche elogiative.

8)      Per quanto tardiva, era la fama. Si cominciò a parlare di un “caso Svevo”, gli stranieri venivano a Trieste per vedere i luoghi dove erano ambientati i suoi romanzi. Svevo progetta un quarto romanzo, sempre con protagonista Zeno. Di questo ci rimangono solo frammenti, perché Svevo muore il 13 settembre 1928 a seguito di un incidente stradale a Motta di Livenza, in provincia di Treviso.

Svevo: la novità della tecnica narrativa e della tematica

9)      Svevo è uno scrittore straordinario, sia perché adotta una tecnica narrativa innovativa (il che è evidente particolarmente nel terzo romanzo), sia per questa tematica incentrata sulla condizione umana dell’inetto a vivere, da lui trattata in maniera costante, tanto che si è detto che nell’opera di Svevo protagonista è sempre lo stesso personaggio: è un inetto Alfonso Nitti (Una vita), è un inetto Emilio Brentani (Senilità) ed è un inetto Zeno Cosini (anche se, a differenza dei primi due, vorrà convincere il lettore di essere un vincente).

L’inetto pre-esiste ai romanzi: Una lotta e L’assassinio di via Belpoggio

10)  Non solo: anche nei suoi racconti si ritrovano esemplari figure di inetti. Prima ancora del primo romanzo ci sono due racconti – Una lotta (1888) e L’assassinio di via Belpoggio (1890) – che vale la pena di ricordare.

11)  In Una lotta Arturo Marchetti, poeta di provincia, contende una donna ad Ariodante Chigi, bello e sportivo. Naturalmente l’inetto, riflessivo e titubante, è sopraffatto dall’antagonista, con poche idee, ma determinato.  Arturo si illude di aver fatto colpo sulla donna (Rosina) con la sua intelligenza e cultura, ma scopre poi che il preferito è il muscoloso Ariodante. Si macera in pensieri di vendetta che dovrebbe consistere in parole di sprezzante superiorità nei confronti dei due (da notare il motivo, poi ricorrente, dell’anticipazione mentale del discorso che intende fare alla donna, e che invece non farà); ma, quando trova Rosina in affettuosa compagnia dell’amico-rivale, non riesce a fare altro che affrontare fisicamente Ariodante col risultato di finire a terra stordito da due pugni in testa.  Il letterato con le stimmate dell’inetto ritornerà con Mario Samigli (Una burla riuscita), Alfonso Nitti (Una vita), Emilio Brentani (Senilità).

12)  Ne L’assassinio di via Belpoggio Giorgio è il solito "inetto" (non è riuscito negli studi, ha dilapidato il patrimonio della madre), ridotto a fare il facchino; uccide un certo Antonio che, ingenuamente, gli ha mostrato una grossa somma di denaro. Il racconto comincia ad assassinio compiuto (l’inetto ha agito d’istinto, in preda ai fumi dell’alcool; se si fosse trattato di progettare il delitto, lo ammette lui stesso, non l’avrebbe mai commesso, pervaso e quindi bloccato da mille dubbi e mille paure) e si sviluppa seguendo le azioni e i pensieri del protagonista fino a che questi confessa il crimine. Va alla stazione, da dove pensa di prendere il treno per la Svizzera ma desiste, perché sembrerebbe una fuga; il giorno dopo cerca affannosamente notizie sul giornale; si precipita a comprare un cappello diverso e a progettare di tagliarsi i capelli quando un collega di lavoro (Giovanni, che vive con lui) gli dice che l'assassino aveva i capelli lunghi e un "cappello a cencio"; si prepara a difendersi adducendo motivi di alto valore morale, ovvero di aver voluto aiutare la madre in miseria (allora va a trovarla, ma scopre che è morta da una settimana). Dopo allucinazioni da colpevole, si trova effettivamente un poliziotto in casa (l'ha portato il collega Giovanni, insospettito) al quale confessa subito:[1] non certo perché sopraffatto dal rimorso e pentito, ma per liberarsi dalla tortura che si sta infliggendo con quel continuo rimuginare e arrovellarsi sulle possibilità di essere scoperto.

L’inetto di Svevo ha aspetti comici che rimandano allo schlèmiel ebraico

13)  Ma rispetto ai precedenti cui abbiamo accennato c’è una originalità dell’inetto sveviano: Silla di Malombra, i fratelli Ferramonti, lo stesso Oblomov, sono personaggi tragici che quasi sempre scontano la loro inettitudine con il suicidio. Negli inetti di Svevo c’è sì la tragicità del fallimento (Alfonso si uccide, Emilio si ritrova solo e vive di ricordi, peraltro idealizzati; diverso è il caso di Zeno, come vedremo), ma c’è un aspetto comico che li contraddistingue, talchè si è parlato, già da parte dei primi critici, di una somiglianza con Charlot e, più recentemente, con il Woody Allen prima maniera.

14)  L’uomo che questi autori rappresentano non sarebbe altro che lo schlèmiel ebraico, cioè l’uomo ridicolo e maldestro, colui che “inciampa nelle piccole cose” (lo dice Svevo parlando di Zeno), colui che Moni Ovadia, citando proverbi ebraici, definisce così: “lo schlèmiel è uno che cade di schiena e si rompe il naso”; o anche: “lo schlèmiel è uno che quando tira una corda a uno che sta annegando gli butta tutti e due i capi”. Accomunerebbe tutti e tre anche il fatto che nella loro opera rappresentano sempre lo stesso personaggio. Di più, la polemica di Chaplin contro le macchine che sovrastano l’uomo (in Tempi moderni come nel finale de Il grande dittatore) è la stessa che si ritrova nel finale de La coscienza di Zeno.

15)  In considerazione di ciò c’è chi ritiene che la figura dell’inetto non sia altro che la proiezione (inconfessata) della diversità ebraica. Lo ha fatto Giacomo Debenedetti, che ha trovato appiglio nelle tesi (decisamente antifemministe e antisemite) sostenute da Otto Weininger in Sesso e carattere. Weininger definisce infatti l'ebreo come il diseredato privo di ogni felice istinto del vivere, femminilmente passivo (e la donna, per lui, è priva di immaginazione, intelligenza creatrice e moralità). E Debenedetti trova una conferma alla sua idea in quel passo di Senilità dove si dice, a proposito del Balli: “Uomo nel vero senso della parola, il Balli non riceveva e quando si trovava accanto il Brentani, poteva avere il sentimento di essere accompagnato da una delle tante femmine a lui soggette”.

16)  Per tornare alla comicità dell’inetto sveviano, come esempio basterebbe leggere il capitolo della Coscienza intitolato La storia del mio matrimonio: la goffaggine, l’insicurezza di Zeno, il suo inciampare nelle piccole cose, lo rendono ridicolo, suscitano l’ilarità generale. E’ una vicenda  che ha il suo culmine comico nel momento in cui Zeno, rifiutato da Ada (di cui è innamorato), fa la stessa proposta di matrimonio alla giovane Alberta, quindi, rifiutato ancora una volta, e visto che non può provarci con Anna che è una bambina, si rassegna a chiedere la mano di Augusta (la più brutta delle sorelle Malfenti, ma a lui sin dall’inizio destinata dai genitori); ma l’intero capitolo è punteggiato da tanti piccoli “incidenti”. Si potrebbe ricordare di quando, al buio di una seduta spiritica, Zeno fa una dichiarazione di amore ad Augusta credendo che si tratti di Ada. Ma valga come esempio l’episodio della zia Rosina:

Capitò la zia Rosina, una sorella di Giovanni, più vecchia di lui, ma di lui molto meno intelligente. Aveva però qualche tratto della sua fisonomia morale bastevole a caratterizzarla quale sua sorella. Prima di tutto la stessa coscienza dei proprii diritti e dei doveri altrui alquanto comica, perché priva di qualsiasi arma per imporsi, eppoi anche il vizio di alzare presto la voce. Essa credeva di aver tanti diritti nella casa del fratello che - come appresi poi - per lungo tempo considerò la signora Malfenti quale un'intrusa. Era nubile e viveva con un'unica serva di cui parlava sempre come della sua più grande nemica. Quando morì raccomandò a mia moglie di sorvegliare la casa finché la serva che l'aveva assistita non se ne fosse andata[2]. Tutti in casa di Giovanni la sopportavano temendo la sua aggressività.

       Zia Rosina prediligeva Ada fra le nipoti. Mi venne il desiderio di conquistarmene l'amicizia anch'io e cercai una frase amabile a indirizzarle. Mi ricordai oscuramente che l'ultima volta in cui l'avevo vista (cioè intravvista, perché allora non avevo sentito il bisogno di guardarla) le nipoti, non appena essa se ne era andata, avevano osservato che non aveva una buona cera. Anzi una di esse aveva detto:

       - Si sarà guastato il sangue per qualche rabbia con la serva!

      Trovai quello che cercavo. Guardando affettuosamente il faccione grinzoso della vecchia signora, le dissi:

       - La trovo molto rimessa, signora.

      Non avessi mai detta quella frase. Mi guardò stupita e protestò:

      - Io sono sempre uguale. Da quando mi sarei rimessa?

      Voleva sapere quando l'avessi vista l'ultima volta. Non ricordavo esattamente quella data e dovetti ricordarle che avevamo passato un intero pomeriggio insieme, seduti in  quello stesso salotto con le tre signorine, ma non dalla parte dove eravamo allora, dall'altra. Io m'ero proposto di dimostrarle dell'interessamento, ma le spiegazioni ch'essa esigeva lo facevano durare troppo a lungo. La mia falsità mi pesava producendomi un vero dolore.

       La signora Malfenti intervenne sorridendo:

       - Ma lei non voleva mica dire che zia Rosina è ingrassata?

       Diavolo! Là stava la ragione del risentimento di zia Rosina ch'era molto grossa come il fratello e sperava tuttavia di dimagrire.

       - Ingrassata! Mai più! Io volevo parlare solo della cera migliore della signora.

       Tentavo di conservare un aspetto affettuoso e dovevo invece trattenermi per non dire un'insolenza.

       Zia Rosina non parve soddisfatta neppur allora. Essa non era mai stata male nell'ultimo tempo e non capiva perché avesse dovuto apparire malata. E la signora Malfenti le diede ragione:

       - Anzi, è una sua caratteristica di non mutare di cera - disse rivolta a me. - Non le pare?

       A me pareva. Era anzi evidente. Me ne andai subito. Porsi con grande cordialità la mano a zia Rosina sperando di rabbonirla, ma essa mi concedette la sua guardando altrove.



(In un altro momento, sempre nel salotto di casa Malfenti, e sempre con zia Rosina, Zeno suscita l’ilarità generale)



Ad un certo momento ero rimasto da una parte del salotto, solo con zia Rosina. Essa parlava ancora del tavolino. Abbastanza grassa, stava immobile sulla sua sedia e mi parlava senza guardarmi. Io trovai il modo di far capire agli altri che mi seccavo e tutti mi guardavano, senza farsi vedere dalla zia, ridendo discretamente.

       Per aumentare l'ilarità mi pensai di dirle senz'alcuna preparazione:

       - Ma Lei, signora, è molto rimessa, la trovo ringiovanita.

       Ci sarebbe stato da ridere se essa si fosse arrabbiata. Ma la signora invece di arrabbiarsi mi si dimostrò gratissima e mi raccontò che infatti s'era molto rimessa dopo di una recente malattia. Fui tanto stupito da quella risposta che la mia faccia dovette assumere un aspetto molto comico così che l'ilarità che aveva sperata non mancò. Poco dopo l'enigma mi fu spiegato. Seppi, cioè, che non era zia Rosina, ma zia Maria, una sorella della signora Malfenti. 

17)  Ma Svevo stesso era così. Sentite questo episodio che racconta in una lettera alla moglie

Passando davanti ad una baracca vidi che c’erano in vendita delle sigarette con la soprascritta: La fusée (…) Ne accesi una poco dopo e mi fermai a guardare un’automobile che passava. In quella la mia sigaretta si mette a fumare da sola e mi scoppia in bocca con un crepitio abbastanza forte. Lasciai cadere la sigaretta dallo spavento ma non ero sicuro se fosse scoppiata essa o l’automobile. Il chauffeur però rideva più di me, ciò che provava che l’automobile non era danneggiata. Io non so ancora esattamente che cosa voglia dire fusée ma ad ogni modo è cosa da cui bisogna stare alla larga e non lo dimenticherò più. Adesso ho cinque sigarette che non so dove mettere perché ho paura che prendano fuoco in valigia.



Caratteri dell’inetto sveviano: Una vita  

18)  Con ciò possiamo dire che l’inettitudine dei personaggi sveviani si caratterizza per due aspetti: 1) l’irresolutezza nell’agire, ovvero l’incapacità di decidere; 2) la mancanza di disinvoltura, ovvero la goffaggine, l’impaccio nei rapporti interpersonali.

19)  Il primo personaggio che si presenta con i suddetti crismi è Alfonso Nitti, il protagonista di Una vita. Si tratta di un giovane che dopo la morte del padre (medico condotto), lascia la madre per venire a lavorare a Trieste, dove trova impiego presso la banca Maller. Ma quel lavoro non gli piace, ha ambizioni letterarie e nel tempo libero frequenta la biblioteca comunale (in questo, rispecchia la biografia di Svevo). Stringe una relazione “letteraria” con Annetta, la figlia di Maller, che progetta di scrivere un romanzo e lo vorrebbe come collaboratore. Più che dalla donna, Alfonso è attratto dalla sua figura sociale (e infatti disprezza la sua modesta intelligenza, la sua presunzione di scrittrice). Alfonso la seduce ma, quando potrebbe fare un salto di classe sposando la ricca ereditiera, fugge spaventato da Annetta e da Trieste, adducendo la scusa di una malattia della madre. La madre è davvero morente, ma questo Alfonso lo apprende solo quando arriva: la sua è una vera e propria fuga, sebbene sia stato consigliato da Francesca (amica di Annetta, con delle mire sul di lei padre, il banchiere Maller) di rimanere, se non vuole rischiare di perdere l'amore della frivola Annetta. E infatti, in sua assenza, Annetta s'impegna col cugino (Macario), e non ne vuole più sapere di Alfonso. Questi soffre in banca l'ostilità del principale (non viene più invitato in casa Maller, in banca gli vengono affidate mansioni di scarsa importanza) e, dopo un vano tentativo di rivedere Annetta, si uccide (in maniera originale: accendendo un braciere e respirando l’ossido di carbonio).

20)   Alfonso è un piccolo borghese che subisce una inferiorità sociale e psicologica rispetto al mondo alto borghese che frequenta (il salotto di casa Maller): questa condizione è alla radice di quella insicurezza che lo rende incapace alla vita. Si risarcisce dalle frustrazioni con i sogni di gloria letteraria, con la presunzione di una superiorità spirituale datagli dalla sua cultura umanistica (come fanno gli altri inetti “letterati” che compaiono nell’opera di Svevo: Arturo Marchetti, Emilio Brentani, Mario Samigli); ma nel mondo reale, dove vigono i valori del profitto, dell’efficienza produttiva, dell’energia nella realizzazione pratica, Alfonso è irrimediabilmente uno sconfitto: per questo fugge (si sente incapace di reggere il rapporto con Annetta e il mondo che lei rappresenta) e per questo si uccide (non sopporta l’umiliazione che gli viene inflitta da quel mondo).

Una vita: le “anticipazioni mentali” e il suicidio di Alfonso

21)  Ma anche nella scelta del suicidio, che è l’ultimo suggello della sua impotenza, Alfonso si auto-inganna, illudendosi di compiere un gesto di superiorità. Lui che è stato umiliato da Annetta (l’ha cercata, ha immaginato tutte le parole che le avrebbe detto, ma lei non si è presentata all’appuntamento), che è stato sfidato a duello dal fratello di lei, giustifica il suicidio come negazione della volontà di vivere, affermazione della noluntas, seguendo, pur senza citarlo, l’impostazione filosofica di Schopenhauer (autore letto ed assai amato da Svevo). Le pagine finali sono esemplari, sia nella parte in cui Alfonso teorizza la scelta del suicidio (la presenta come una scelta razionale, un atto eroico di rinuncia alla vita; in realtà vuole essere rimpianto da Annetta, da morto si illude di recuperare il suo affetto), sia nella parte precedente in cui cerca di calmarsi immaginando il discorso che le avrebbe fatto nel colloquio che è sicuro di ottenere – e che invece non otterrà (è una condizione psicologica che ritroveremo in Emilio Brentani, il protagonista di Senilità, che anticipa mentalmente ciò che deve dire ad Angiolina, l’amante che lo tradisce, e che invece non riuscirà a dire)

     La sua prima idea era stata di attendere l'occasione per parlare con Annetta, fermarla magari sulla via, ma poi gli parve di non poter vivere in quell'agitazione e volle levarsela subito. Il giorno appresso avrebbe scritto ad Annetta pregandola di accordargli un colloquio.

        Finì col farlo subito; gli parve che quell'attività gli avrebbe ridato la calma. Saltò dal letto e accese la lampada. Da lungo tempo a quel tavolo non aveva scritto; la penna irrugginita resisteva e dovette diluire l'inchiostro che non fluiva.

        Incominciò con un "Illustrissima signorina" che gli parve dignitoso e umile, e in brevi termini chiese il colloquio dicendo che aveva a comunicarle cosa di somma importanza per lui e, credeva, anche per lei. Se accordava questo colloquio, egli non ne dubitava, la pregava di portarsi fra le otto e le nove ore della sera del giorno appresso sul primo molo, il più vicino alla via dei Forni. Ebbe poi un accento d'ingenuo rammarico: "Non so più come trattarvi, o Annetta, perché voi forse mi odiate," e poi d'ironia altrettanto ingenua: "Firmo con nome e cognome perché al nome solo forse non mi riconoscereste."

        Non dormì ma era cessato quell'avvilimento che più volte gli aveva cacciato le lagrime agli occhi. Ora l'agitazione era di tutt'altra specie e facilmente scoperse che gli era derivata da quelle due frasi più dolci, quasi da innamorato imbizzito, dirette ad Annetta. Come aggradevolmente lo molceva il pensiero che il giorno appresso l'avrebbe riveduta! (…)

        Andò immaginando le parole che le avrebbe dette. Non si sarebbe scusato di averla sedotta perché sarebbe stato poco abile. La sua passione lo aveva trascinato e non sapeva pentirsi di un atto che gli aveva procurato la maggior felicità di cui in sua vita avesse goduto. Lo sapeva per averlo letto: Le donne perdonavano sempre gli omaggi alla loro bellezza e in qualunque modo venissero fatti, magari anche fossero delitti. Poi non avrebbe speso molte parole per rassicurarla sul suo conto, renderla certa che si sarebbe piuttosto lasciato ammazzare che dire una sola parola del segreto che a lei lo univa. (…) Doveva apparire quale un innamorato che non tiene troppo rancore per essere stato abbandonato e al quale anzi del suo amore è rimasta una dolce amicizia fraterna. Si sarebbe informato con affetto se essa allora era felice e avrebbe tentato di dimostrare una grande gioia nel caso molto probabile ch'ella avesse assicurato di amare Macario. Poteva invece avvenire che ella gli confessasse di non essere felice e si confidasse a lui con abbandono. In tal caso non v'era più difficoltà e non aveva bisogno di riflettere lungamente al contegno da seguire.

        (……………..)

Il suicidio gli avrebbe forse ridato l'affetto di Annetta. Come in quell'istante non l'aveva amata giammai. Non si trattava più d'interesse né di sensi. Quanto più egli l'aveva vista allontanarsi da lui tanto più l'aveva amata; ora che definitivamente perdeva ogni speranza di riconquistare quel sorriso, quell'affettuosa parola, la vita gli sembrava incolore, nulla. Una volta scomparso, Annetta non avrebbe più avuto il ribrezzo della paura per lui, per il suo ricordo, ed era tutto quello ch'egli poteva sperare. Non voleva vivere dovendo continuare ad apparirle quale un nemico spregevole sospettato di voler danneggiarla e farle pagare a caro prezzo gli stessi favori da lei accordatigli.

       Non aveva pensato mai al suicidio che col giudizio alterato dalle idee altrui. Ora lo accettava non rassegnato ma giocondo. La liberazione! Si rammentava che fino a poco prima aveva pensato altrimenti e volle calmarsi, vedere se quel sentimento giocondo che lo trascinava alla morte non fosse un prodotto della febbre da cui poteva essere posseduto. No! Egli ragionava calmo! Schierava dinanzi alla mente tutti gli argomenti contro al suicidio, da quelli morali dei predicatori a quelli dei filosofi più moderni; lo facevano sorridere! Non erano argomenti ma desideri, il desiderio di vivere.

       Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose. L'abbandonava senza rimpianto. Era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia che egli aveva sognata. Bisognava distruggere quell'organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo. Non avrebbe scritto ad Annetta. Le avrebbe risparmiato persino il disturbo e il pericolo che poteva essere per lei una tal lettera.





[1] Può ricordare la struttura di Delitto e castigo, ma la differenza è abissale: qui non è implicata la questione morale (che travolge Raskolnikov), c’è solo l’ansia del colpevole di venire scoperto (tema, peraltro, interessante anche questo, ma non adeguatamente sviluppato: la crisi precipita con troppa facilità, i comportamenti di Giorgio non sono sempre psicologicamente convincenti). Certamente, è già l'inetto, determinato dagli (e non determinante gli) avvenimenti, immobilizzato da un eccesso di coscienza (di pensiero), destinato, ovviamente, a soccombere.   
[2] Si noti l’uso del “tempo misto”:  viene anticipato un evento futuro (come poco prima, quando dice “come appresi poi”)

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