Svevo: la vita e l’opera
1) Ma
prima di affrontare l’analisi di tali personaggi, sarà bene, per chi ne avesse
una conoscenza superficiale, inquadrare l’autore nei tratti fondamentali della
sua biografia e del contesto sociale in cui visse.
2) Di
Svevo si può dire innanzitutto che si tratta di uno scrittore “eccentrico”, nel
senso letterale che non vive in uno dei tradizionali centri della cultura
italiana, voglio dire Firenze, Roma o, senz’altro – a partire dall’età
dell’illuminismo fino a tutto l’Ottocento – Milano. Svevo era di Trieste, lì
era nato nel 1861, in un tempo in cui Trieste era ancora territorio dell’impero
asburgico (lo sarà fino al 1918), e lì visse e scrisse, lontano quindi dai
suddetti centri del dibattito culturale e della produzione letteraria italiana.
3) Trieste
era un vero e proprio crocevia, dove si incontravano tre mondi: quello slavo,
quello tedesco, quello italiano. E questo spiega la specificità della
formazione di Svevo, che legge autori come Schopenhauer, Nietzsche e Freud
(allora non ancora tradotto) e padroneggia la lingua tedesca meglio di quella
italiana (a casa parlavano triestino, l’italiano l’aveva imparato a scuola; ma
proprio in questa incertezza linguistica risiede parte del fascino della sua
scrittura)). Lo stesso nome, Italo Svevo, è uno pseudonimo che rivela la duplicità
culturale dello scrittore, per metà italiano e per metà svevo, cioè tedesco. Il
suo vero nome era Ettore Schmitz, di famiglia ebraica. Sin da ragazzo i suoi
interessi erano letterari e filosofici, ma il padre – un commerciante in
vetrami – volle che facesse studi commerciali, prima in un collegio della
Baviera poi a Trieste.
4) Nel
1880, in seguito ai dissesti finanziari del padre, Svevo dovette cercare lavoro
e divenne impiegato di banca, un lavoro che mantenne per ben 19 anni e di cui,
per sua stessa ammissione, c’è traccia nella vicenda di Alfonso Nitti, il
protagonista del suo primo romanzo, Una
vita. Svevo, come Alfonso, dedica il suo tempo libero alla frequentazione
della biblioteca civica, dove legge i classici italiani, i romanzieri francesi
e russi.
5) Nel
1892 pubblica a proprie spese Una vita.
Il romanzo non ha alcuna risonanza, se non locale, come non ne ha il secondo
romanzo, Senilità, pubblicato nel
1898. Intanto però la sua vita è cambiata, ha sposato una cugina, Livia
Veneziani, che appartiene a una famiglia di facoltosi industriali: i suoi
possiedono una fabbrica ben avviata di vernici antiruggine per navi. Svevo
lascia l’impiego in banca ed entra nella ditta dei suoceri. Diventa un manager,
un dirigente d’industria, come tale viaggia in Francia e in Inghilterra, dove
per un periodo dirige una filiale dell’azienda. Dichiara di aver ripudiato la
letteratura (così scrive in una pagina di diario del 1902: “Io, a quest’ora e definitivamente, ho
eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama
letteratura”), di non potere più scrivere perché, come dirà nel Profilo autobiografico, “bastava un solo rigo per renderlo meno
adatto al lavoro pratico cui giornalmente doveva attendere. Subentrava subito
la distrazione e la cattiva disposizione”.
6) Intanto
conosce Joyce che, esule dall’Irlanda, a Trieste insegnava inglese. I due fanno
amicizia e si scambiano le rispettive opere. Joyce apprezza i due romanzi di
Svevo e lo esorta a riprendere l’attività letteraria.
7) Probabilmente
durante la guerra (le autorità austriache hanno requisito la fabbrica di
vernici e Svevo si trova libero da impegni) compone il terzo romanzo, La coscienza di Zeno, che viene
pubblicato nel 1923. Ancora silenzio in Italia. L’unico che ne riconosce la
grandezza è Montale, che gli dedica un saggio nel 1925. La fama arriva prima in
Europa, grazie Joyce che fa leggere il romanzo a due italianisti francesi
(Larbaud e Cremieux), che non solo ne promuovono la traduzione in francese ma
lo sostengono con critiche elogiative.
8) Per
quanto tardiva, era la fama. Si cominciò a parlare di un “caso Svevo”, gli
stranieri venivano a Trieste per vedere i luoghi dove erano ambientati i suoi
romanzi. Svevo progetta un quarto romanzo, sempre con protagonista Zeno. Di
questo ci rimangono solo frammenti, perché Svevo muore il 13 settembre 1928 a
seguito di un incidente stradale a Motta di Livenza, in provincia di Treviso.
Svevo: la novità della tecnica
narrativa e della tematica
9) Svevo
è uno scrittore straordinario, sia perché adotta una tecnica narrativa
innovativa (il che è evidente particolarmente nel terzo romanzo), sia per
questa tematica incentrata sulla condizione umana dell’inetto a vivere, da lui
trattata in maniera costante, tanto che si è detto che nell’opera di Svevo
protagonista è sempre lo stesso personaggio: è un inetto Alfonso Nitti (Una vita), è un inetto Emilio Brentani (Senilità) ed è un inetto Zeno Cosini (anche
se, a differenza dei primi due, vorrà convincere il lettore di essere un
vincente).
L’inetto pre-esiste ai romanzi: Una lotta e L’assassinio di via Belpoggio
10) Non solo:
anche nei suoi racconti si ritrovano esemplari figure di inetti. Prima ancora
del primo romanzo ci sono due racconti – Una
lotta (1888) e L’assassinio di via
Belpoggio (1890) – che vale la pena di ricordare.
11) In Una lotta Arturo Marchetti, poeta di
provincia, contende una donna ad Ariodante Chigi, bello e sportivo.
Naturalmente l’inetto, riflessivo e titubante, è sopraffatto dall’antagonista,
con poche idee, ma determinato. Arturo
si illude di aver fatto colpo sulla donna (Rosina) con la sua intelligenza e
cultura, ma scopre poi che il preferito è il muscoloso Ariodante. Si macera in
pensieri di vendetta che dovrebbe consistere in parole di sprezzante
superiorità nei confronti dei due (da notare il motivo, poi ricorrente,
dell’anticipazione mentale del discorso che intende fare alla donna, e che
invece non farà); ma, quando trova Rosina in affettuosa compagnia
dell’amico-rivale, non riesce a fare altro che affrontare fisicamente Ariodante
col risultato di finire a terra stordito da due pugni in testa. Il letterato con le stimmate dell’inetto
ritornerà con Mario Samigli (Una burla
riuscita), Alfonso Nitti (Una vita),
Emilio Brentani (Senilità).
12) Ne L’assassinio di via Belpoggio Giorgio è
il solito "inetto" (non è riuscito negli studi, ha dilapidato il
patrimonio della madre), ridotto a fare il facchino; uccide un certo Antonio
che, ingenuamente, gli ha mostrato una grossa somma di denaro. Il racconto
comincia ad assassinio compiuto (l’inetto ha agito d’istinto, in preda ai fumi
dell’alcool; se si fosse trattato di progettare il delitto, lo ammette lui
stesso, non l’avrebbe mai commesso, pervaso e quindi bloccato da mille dubbi e
mille paure) e si sviluppa seguendo le azioni e i pensieri del protagonista
fino a che questi confessa il crimine. Va alla stazione, da dove pensa di
prendere il treno per la Svizzera ma desiste, perché sembrerebbe una fuga; il
giorno dopo cerca affannosamente notizie sul giornale; si precipita a comprare
un cappello diverso e a progettare di tagliarsi i capelli quando un collega di
lavoro (Giovanni, che vive con lui) gli dice che l'assassino aveva i capelli
lunghi e un "cappello a cencio"; si prepara a difendersi adducendo
motivi di alto valore morale, ovvero di aver voluto aiutare la madre in miseria
(allora va a trovarla, ma scopre che è morta da una settimana). Dopo allucinazioni
da colpevole, si trova effettivamente un poliziotto in casa (l'ha portato il
collega Giovanni, insospettito) al quale confessa subito:[1] non
certo perché sopraffatto dal rimorso e pentito, ma per liberarsi dalla tortura
che si sta infliggendo con quel continuo rimuginare e arrovellarsi sulle
possibilità di essere scoperto.
L’inetto di Svevo ha aspetti
comici che rimandano allo schlèmiel
ebraico
13) Ma
rispetto ai precedenti cui abbiamo accennato c’è una originalità dell’inetto
sveviano: Silla di Malombra, i fratelli Ferramonti, lo stesso Oblomov, sono
personaggi tragici che quasi sempre scontano la loro inettitudine con il
suicidio. Negli inetti di Svevo c’è sì la tragicità del fallimento (Alfonso si
uccide, Emilio si ritrova solo e vive di ricordi, peraltro idealizzati; diverso
è il caso di Zeno, come vedremo), ma c’è un aspetto comico che li
contraddistingue, talchè si è parlato, già da parte dei primi critici, di una
somiglianza con Charlot e, più recentemente, con il Woody Allen prima maniera.
14) L’uomo
che questi autori rappresentano non sarebbe altro che lo schlèmiel ebraico, cioè l’uomo ridicolo e maldestro, colui che “inciampa nelle piccole cose” (lo dice
Svevo parlando di Zeno), colui che Moni Ovadia, citando proverbi ebraici,
definisce così: “lo schlèmiel è uno
che cade di schiena e si rompe il naso”; o anche: “lo schlèmiel è uno che quando tira una corda a uno che sta annegando
gli butta tutti e due i capi”. Accomunerebbe tutti e tre anche il fatto che
nella loro opera rappresentano sempre lo stesso personaggio. Di più, la
polemica di Chaplin contro le macchine che sovrastano l’uomo (in Tempi moderni come nel finale de Il grande dittatore) è la stessa che si
ritrova nel finale de La coscienza di
Zeno.
15) In
considerazione di ciò c’è chi ritiene che la figura dell’inetto non sia
altro che la proiezione (inconfessata) della diversità ebraica. Lo ha fatto Giacomo Debenedetti, che ha
trovato appiglio nelle tesi (decisamente antifemministe e antisemite) sostenute
da Otto Weininger in Sesso e carattere.
Weininger definisce infatti l'ebreo come il diseredato privo di ogni felice
istinto del vivere, femminilmente passivo (e la donna, per lui, è priva di
immaginazione, intelligenza creatrice e moralità). E Debenedetti trova una
conferma alla sua idea in quel passo di Senilità
dove si dice, a proposito del Balli: “Uomo nel vero senso della parola, il
Balli non riceveva e quando si trovava accanto il Brentani, poteva avere il sentimento
di essere accompagnato da una delle tante femmine a lui soggette”.
16) Per tornare
alla comicità dell’inetto sveviano, come esempio basterebbe leggere il capitolo
della Coscienza intitolato La storia del mio matrimonio: la
goffaggine, l’insicurezza di Zeno, il suo inciampare nelle piccole cose, lo
rendono ridicolo, suscitano l’ilarità generale. E’ una vicenda che ha il suo culmine comico nel momento in
cui Zeno, rifiutato da Ada (di cui è innamorato), fa la stessa proposta di
matrimonio alla giovane Alberta, quindi, rifiutato ancora una volta, e visto
che non può provarci con Anna che è una bambina, si rassegna a chiedere la mano
di Augusta (la più brutta delle sorelle Malfenti, ma a lui sin dall’inizio
destinata dai genitori); ma l’intero capitolo è punteggiato da tanti piccoli
“incidenti”. Si potrebbe ricordare di quando, al buio di una seduta spiritica,
Zeno fa una dichiarazione di amore ad Augusta credendo che si tratti di Ada. Ma
valga come esempio l’episodio della zia Rosina:
Capitò
la zia Rosina, una sorella di Giovanni, più vecchia di lui, ma di lui molto
meno intelligente. Aveva però qualche tratto della sua fisonomia morale
bastevole a caratterizzarla quale sua sorella. Prima di tutto la stessa
coscienza dei proprii diritti e dei doveri altrui alquanto comica, perché priva
di qualsiasi arma per imporsi, eppoi anche il vizio di alzare presto la voce.
Essa credeva di aver tanti diritti nella casa del fratello che - come appresi
poi - per lungo tempo considerò la signora Malfenti quale un'intrusa. Era
nubile e viveva con un'unica serva di cui parlava sempre come della sua più
grande nemica. Quando morì raccomandò a mia moglie di sorvegliare la casa
finché la serva che l'aveva assistita non se ne fosse andata[2].
Tutti in casa di Giovanni la sopportavano temendo la sua aggressività.
Zia Rosina prediligeva Ada fra le
nipoti. Mi venne il desiderio di conquistarmene l'amicizia anch'io e cercai una
frase amabile a indirizzarle. Mi ricordai oscuramente che l'ultima volta in cui
l'avevo vista (cioè intravvista, perché allora non avevo sentito il bisogno di
guardarla) le nipoti, non appena essa se ne era andata, avevano osservato che
non aveva una buona cera. Anzi una di esse aveva detto:
- Si sarà guastato il sangue per qualche
rabbia con la serva!
Trovai quello che cercavo. Guardando
affettuosamente il faccione grinzoso della vecchia signora, le dissi:
- La trovo molto rimessa, signora.
Non avessi mai detta quella frase. Mi
guardò stupita e protestò:
- Io sono sempre uguale. Da quando mi
sarei rimessa?
Voleva sapere quando l'avessi vista
l'ultima volta. Non ricordavo esattamente quella data e dovetti ricordarle che
avevamo passato un intero pomeriggio insieme, seduti in quello stesso salotto con le tre signorine,
ma non dalla parte dove eravamo allora, dall'altra. Io m'ero proposto di
dimostrarle dell'interessamento, ma le spiegazioni ch'essa esigeva lo facevano
durare troppo a lungo. La mia falsità mi pesava producendomi un vero dolore.
La signora Malfenti intervenne
sorridendo:
- Ma lei non voleva mica dire che zia
Rosina è ingrassata?
Diavolo! Là stava la ragione del
risentimento di zia Rosina ch'era molto grossa come il fratello e sperava
tuttavia di dimagrire.
- Ingrassata! Mai più! Io volevo parlare
solo della cera migliore della signora.
Tentavo di conservare un aspetto
affettuoso e dovevo invece trattenermi per non dire un'insolenza.
Zia Rosina non parve soddisfatta neppur
allora. Essa non era mai stata male nell'ultimo tempo e non capiva perché
avesse dovuto apparire malata. E la signora Malfenti le diede ragione:
- Anzi, è una sua caratteristica di non
mutare di cera - disse rivolta a me. - Non le pare?
A me pareva. Era anzi evidente. Me ne
andai subito. Porsi con grande cordialità la mano a zia Rosina sperando di
rabbonirla, ma essa mi concedette la sua guardando altrove.
(In un altro momento, sempre nel salotto di
casa Malfenti, e sempre con zia Rosina, Zeno suscita l’ilarità generale)
Ad
un certo momento ero rimasto da una parte del salotto, solo con zia Rosina.
Essa parlava ancora del tavolino. Abbastanza grassa, stava immobile sulla sua
sedia e mi parlava senza guardarmi. Io trovai il modo di far capire agli altri
che mi seccavo e tutti mi guardavano, senza farsi vedere dalla zia, ridendo
discretamente.
Per aumentare l'ilarità mi pensai di
dirle senz'alcuna preparazione:
- Ma Lei, signora, è molto rimessa, la
trovo ringiovanita.
Ci sarebbe stato da ridere se essa si
fosse arrabbiata. Ma la signora invece di arrabbiarsi mi si dimostrò gratissima
e mi raccontò che infatti s'era molto rimessa dopo di una recente malattia. Fui
tanto stupito da quella risposta che la mia faccia dovette assumere un aspetto
molto comico così che l'ilarità che aveva sperata non mancò. Poco dopo l'enigma
mi fu spiegato. Seppi, cioè, che non era zia Rosina, ma zia Maria, una sorella
della signora Malfenti.
17) Ma Svevo
stesso era così. Sentite questo episodio che racconta in una lettera alla moglie
Passando
davanti ad una baracca vidi che c’erano in vendita delle sigarette con la
soprascritta: La fusée (…) Ne accesi
una poco dopo e mi fermai a guardare un’automobile che passava. In quella la
mia sigaretta si mette a fumare da sola e mi scoppia in bocca con un crepitio
abbastanza forte. Lasciai cadere la sigaretta dallo spavento ma non ero sicuro
se fosse scoppiata essa o l’automobile. Il chauffeur
però rideva più di me, ciò che provava che l’automobile non era danneggiata. Io
non so ancora esattamente che cosa voglia dire fusée ma ad ogni modo è cosa da cui bisogna stare alla larga e non
lo dimenticherò più. Adesso ho cinque sigarette che non so dove mettere perché
ho paura che prendano fuoco in valigia.
Caratteri
dell’inetto sveviano: Una vita
18) Con ciò
possiamo dire che l’inettitudine dei personaggi sveviani si caratterizza per
due aspetti: 1) l’irresolutezza nell’agire, ovvero l’incapacità di decidere; 2)
la mancanza di disinvoltura, ovvero la goffaggine, l’impaccio nei rapporti
interpersonali.
19) Il primo
personaggio che si presenta con i suddetti crismi è Alfonso Nitti, il
protagonista di Una vita. Si tratta
di un giovane che dopo la morte del padre (medico condotto), lascia la madre
per venire a lavorare a Trieste, dove trova impiego presso la banca Maller. Ma
quel lavoro non gli piace, ha ambizioni letterarie e nel tempo libero frequenta
la biblioteca comunale (in questo, rispecchia la biografia di Svevo). Stringe
una relazione “letteraria” con Annetta, la figlia di Maller, che progetta di scrivere
un romanzo e lo vorrebbe come collaboratore. Più che dalla donna, Alfonso è
attratto dalla sua figura sociale (e infatti disprezza la sua modesta
intelligenza, la sua presunzione di scrittrice). Alfonso la seduce ma, quando
potrebbe fare un salto di classe sposando la ricca ereditiera, fugge spaventato
da Annetta e da Trieste, adducendo la scusa di una malattia della madre. La madre è davvero morente, ma questo
Alfonso lo apprende solo quando arriva: la sua è una vera e propria fuga,
sebbene sia stato consigliato da Francesca (amica di Annetta, con delle
mire sul di lei padre, il banchiere Maller) di rimanere, se non vuole rischiare
di perdere l'amore della frivola Annetta. E infatti, in sua assenza, Annetta
s'impegna col cugino (Macario), e non ne vuole più sapere di Alfonso.
Questi soffre in banca l'ostilità del principale (non viene più invitato in
casa Maller, in banca gli vengono affidate mansioni di scarsa importanza) e,
dopo un vano tentativo di rivedere Annetta, si uccide (in maniera originale:
accendendo un braciere e respirando l’ossido di carbonio).
20) Alfonso è un piccolo borghese che subisce una
inferiorità sociale e psicologica rispetto al mondo alto borghese che frequenta
(il salotto di casa Maller): questa condizione è alla radice di quella
insicurezza che lo rende incapace alla vita. Si risarcisce dalle frustrazioni
con i sogni di gloria letteraria, con la presunzione di una superiorità
spirituale datagli dalla sua cultura umanistica (come fanno gli altri inetti “letterati”
che compaiono nell’opera di Svevo: Arturo Marchetti, Emilio Brentani, Mario
Samigli); ma nel mondo reale, dove vigono i valori del profitto, dell’efficienza
produttiva, dell’energia nella realizzazione pratica, Alfonso è
irrimediabilmente uno sconfitto: per questo fugge (si sente incapace di reggere
il rapporto con Annetta e il mondo che lei rappresenta) e per questo si uccide
(non sopporta l’umiliazione che gli viene inflitta da quel mondo).
Una vita: le “anticipazioni mentali” e il suicidio di Alfonso
21) Ma anche
nella scelta del suicidio, che è l’ultimo suggello della sua impotenza, Alfonso
si auto-inganna, illudendosi di compiere un gesto di superiorità. Lui che è
stato umiliato da Annetta (l’ha cercata, ha immaginato tutte le parole che le
avrebbe detto, ma lei non si è presentata all’appuntamento), che è stato
sfidato a duello dal fratello di lei, giustifica il suicidio come negazione
della volontà di vivere, affermazione della noluntas, seguendo, pur senza
citarlo, l’impostazione filosofica di Schopenhauer (autore letto ed assai amato
da Svevo). Le pagine finali sono esemplari, sia nella parte in cui Alfonso
teorizza la scelta del suicidio (la presenta come una scelta razionale, un atto
eroico di rinuncia alla vita; in realtà vuole essere rimpianto da Annetta, da
morto si illude di recuperare il suo affetto), sia nella parte precedente in
cui cerca di calmarsi immaginando il discorso che le avrebbe fatto nel
colloquio che è sicuro di ottenere – e che invece non otterrà (è una condizione
psicologica che ritroveremo in Emilio Brentani, il protagonista di Senilità, che anticipa mentalmente ciò
che deve dire ad Angiolina, l’amante che lo tradisce, e che invece non riuscirà
a dire)
La sua prima idea era stata di attendere
l'occasione per parlare con Annetta, fermarla magari sulla via, ma poi gli
parve di non poter vivere in quell'agitazione e volle levarsela subito. Il
giorno appresso avrebbe scritto ad Annetta pregandola di accordargli un
colloquio.
Finì col farlo subito; gli parve che
quell'attività gli avrebbe ridato la calma. Saltò dal letto e accese la
lampada. Da lungo tempo a quel tavolo non aveva scritto; la penna irrugginita
resisteva e dovette diluire l'inchiostro che non fluiva.
Incominciò con un "Illustrissima
signorina" che gli parve dignitoso e umile, e in brevi termini chiese il
colloquio dicendo che aveva a comunicarle cosa di somma importanza per lui e,
credeva, anche per lei. Se accordava questo colloquio, egli non ne dubitava, la
pregava di portarsi fra le otto e le nove ore della sera del giorno appresso
sul primo molo, il più vicino alla via dei Forni. Ebbe poi un accento d'ingenuo
rammarico: "Non so più come trattarvi, o Annetta, perché voi forse mi
odiate," e poi d'ironia altrettanto ingenua: "Firmo con nome e cognome
perché al nome solo forse non mi riconoscereste."
Non dormì ma era cessato
quell'avvilimento che più volte gli aveva cacciato le lagrime agli occhi. Ora
l'agitazione era di tutt'altra specie e facilmente scoperse che gli era
derivata da quelle due frasi più dolci, quasi da innamorato imbizzito, dirette
ad Annetta. Come aggradevolmente lo molceva il pensiero che il giorno appresso
l'avrebbe riveduta! (…)
Andò immaginando le parole che le
avrebbe dette. Non si sarebbe scusato di averla sedotta perché sarebbe stato
poco abile. La sua passione lo aveva trascinato e non sapeva pentirsi di un
atto che gli aveva procurato la maggior felicità di cui in sua vita avesse
goduto. Lo sapeva per averlo letto: Le donne perdonavano sempre gli omaggi alla
loro bellezza e in qualunque modo venissero fatti, magari anche fossero
delitti. Poi non avrebbe speso molte parole per rassicurarla sul suo conto,
renderla certa che si sarebbe piuttosto lasciato ammazzare che dire una sola
parola del segreto che a lei lo univa. (…) Doveva apparire quale un innamorato
che non tiene troppo rancore per essere stato abbandonato e al quale anzi del
suo amore è rimasta una dolce amicizia fraterna. Si sarebbe informato con
affetto se essa allora era felice e avrebbe tentato di dimostrare una grande
gioia nel caso molto probabile ch'ella avesse assicurato di amare Macario.
Poteva invece avvenire che ella gli confessasse di non essere felice e si
confidasse a lui con abbandono. In tal caso non v'era più difficoltà e non
aveva bisogno di riflettere lungamente al contegno da seguire.
(……………..)
Il
suicidio gli avrebbe forse ridato l'affetto di Annetta. Come in quell'istante
non l'aveva amata giammai. Non si trattava più d'interesse né di sensi. Quanto
più egli l'aveva vista allontanarsi da lui tanto più l'aveva amata; ora che
definitivamente perdeva ogni speranza di riconquistare quel sorriso,
quell'affettuosa parola, la vita gli sembrava incolore, nulla. Una volta
scomparso, Annetta non avrebbe più avuto il ribrezzo della paura per lui, per il
suo ricordo, ed era tutto quello ch'egli poteva sperare. Non voleva vivere
dovendo continuare ad apparirle quale un nemico spregevole sospettato di voler
danneggiarla e farle pagare a caro prezzo gli stessi favori da lei
accordatigli.
Non aveva pensato mai al suicidio che
col giudizio alterato dalle idee altrui. Ora lo accettava non rassegnato ma
giocondo. La liberazione! Si rammentava che fino a poco prima aveva pensato
altrimenti e volle calmarsi, vedere se quel sentimento giocondo che lo trascinava
alla morte non fosse un prodotto della febbre da cui poteva essere posseduto.
No! Egli ragionava calmo! Schierava dinanzi alla mente tutti gli argomenti
contro al suicidio, da quelli morali dei predicatori a quelli dei filosofi più
moderni; lo facevano sorridere! Non erano argomenti ma desideri, il desiderio
di vivere.
Egli invece si sentiva incapace alla
vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere,
gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle
migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose.
L'abbandonava senza rimpianto. Era la via per divenire superiore ai sospetti e
agli odii. Quella era la rinunzia che egli aveva sognata. Bisognava distruggere
quell'organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a
trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo. Non avrebbe scritto ad
Annetta. Le avrebbe risparmiato persino il disturbo e il pericolo che poteva
essere per lei una tal lettera.
[1] Può ricordare la struttura di Delitto e castigo, ma la differenza è abissale: qui non è implicata
la questione morale (che travolge Raskolnikov), c’è solo l’ansia del
colpevole di venire scoperto (tema, peraltro, interessante anche questo, ma non
adeguatamente sviluppato: la crisi precipita con troppa facilità, i comportamenti
di Giorgio non sono sempre psicologicamente convincenti). Certamente, è già
l'inetto, determinato dagli (e non determinante gli) avvenimenti, immobilizzato
da un eccesso di coscienza (di pensiero), destinato, ovviamente, a
soccombere.
[2] Si noti l’uso del “tempo
misto”: viene anticipato un evento
futuro (come poco prima, quando dice “come appresi poi”)
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