martedì 5 aprile 2016

La figura dell’inetto nella letteratura fra Ottocento e Novecento (I parte)




Premessa



1)      Chi è l’inetto? Che cos’è l’inettitudine? L’inettitudine è – lo dice la parola – una mancanza di attitudine. A che? Alla vita. Dunque si tratta di un disadattamento, o meglio, di una inadeguatezza rispetto alla vita, di una incapacità di vivere. Del resto l’etimologia di “inetto” è in-aptus, cioè “non adatto”: l’inetto è un non-adatto alla vita, dunque un perdente, uno sconfitto.

2)      E’ una figura, quella dell’inetto, che ricorre nella letteratura europea a cavallo fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. E’ una figura che compare con modalità diverse nei diversi autori, ma sempre con la caratteristica di rappresentare un uomo che non riesce a – o non vuole – realizzare se stesso, un uomo che fallisce nei suoi progetti o anche che rinuncia ad ogni progetto. Dunque si tratta di una sorta di anti-eroe, o eroe negativo.



Il contesto storico-sociale: la crisi d’identità della piccola borghesia e il mito della forza



3)      Se poi ci chiediamo come si spiega la presenza di questo personaggio letterario in questa età, siamo portati a pensare che la figura dell’inetto bene rappresenti la crisi di identità di una classe sociale, la piccola borghesia, che non riconosce più il proprio ruolo, schiacciata com’è, nell’età della seconda rivoluzione industriale, fra le elites del potere – economico e finanziario – da una parte, e l’irrompere sulla scena – sociale e politica – delle grandi masse operaie e contadine dall’altra. Non è un caso che gli inetti di cui parliamo siano quasi sempre dei piccoli impiegati, frustrati e avviliti socialmente e psicologicamente.

4)      Se poi più specificamente ci riferiamo all’Italia, la tematica dell’inettitudine sembra essere una sorta di opposizione alla ideologia dominante nell’età umbertina (e in particolare nel decennio segnato dall’egemonia di Crispi), una ideologia che predica il rafforzamento dello Stato borghese all’insegna dell’efficienza e della capacità, che prospetta il superamento delle miserie del presente attraverso la celebrazione dei miti dell’attitudine e della forza.

5)      E’ una ideologia che si ritrova tanto in De Sanctis (in suo saggio esorta a “rifare il sangue, ricostruire la fibra, rialzare le forze vitali… ritemprare i caratteri e col sentimento della forza rigenerare il coraggio morale, la sincerità, l’iniziativa, la disciplina, l’uomo virile, e perciò l’uomo libero”) quanto in D’Annunzio (scrive in una lettera a un giovane musicista di Napoli nel 1884: “Lavorate, lavorate, lavorate, voi giovani, voi pieni di fede e di forza! Ci sono ancora molte vette da conquistare. (…) Getta via lungi da te tutti i timori, tutte le timidezze, tutte le esitazioni: sii audace, sempre audace; non ti stancare mai di cercare, di tentare, di provare. (…) Non ti spaventare della lotta: è la lotta per la vita, lo struggle for life del Darwin, la lotta inevitabile e inesorabile. Guai a chi si abbatte. Guai alli umili!”); e si ritrova nei correnti manuali di psicologia: sentite cosa scrive un certo Emilio Morselli, in un trattato intitolato Psicologia moderna:



Una fra le necessità che si presentano più urgenti ai tempi nostri è il possesso di una volontà forte, perseverante, attiva, poiché appare evidentissimo che la causa di molti malanni e di molti insuccessi è la debolezza della nostra volontà, la ripugnanza per lo sforzo, specialmente per lo sforzo durevole e continuato; donde il nuovo termine di una vecchia malattia, che etimologicamente corrisponde a “mancanza di volontà”, e consiste in una specie di atonia, di orrore per la fatica intellettuale e fisica, funesta per i giovani; vediamo che moltissimi fra questi, senza energia, fiacchi, inerti, dormono parecchie ore più del necessario, si levano intorpiditi, molli, indolenti, senza vigore, e così durano tutta la giornata con qualche lampo d’energia subito spenta



Il mio percorso: Svevo fra Leopardi e Montale



6)      Io mi sono appassionato a questa tematica leggendo i romanzi di Svevo; del resto, se si guarda alla letteratura italiana del periodo, è proprio Svevo l’autore che per antonomasia ci rimanda alla figura dell’inetto (si pensi che Svevo aveva intitolato proprio Un inetto il suo primo romanzo; ma quel titolo non piaceva all’editore, che lo convinse a cambiarlo in Una vita). E dunque le mie lezioni si incentreranno soprattutto sull’analisi dei protagonisti dell’opera – non solo dei romanzi, ma anche delle novelle – dello scrittore triestino.

7)      Mi è parso poi di rintracciare un filo che parte da Leopardi, passa per Svevo e arriva fino a Montale. Parte da Leopardi perché in certe sue riflessioni si può riconoscere una sorta di diagnosi ante litteram dell’inettitudine (dell’inettitudine nella forma caratteristica che essa assume in Svevo); arriva a Montale, perché tale autore – non a caso tra i primi a leggere e valorizzare i romanzi di Svevo – sembra esprimere nella sua poesia una condizione umana molto simile a quella dell’inetto sveviano.



I precedenti italiani: i fratelli Ferramonti



8)      Ma prima di Svevo, che nomina esplicitamente questo tipo umano (Un inetto, come dicevo, doveva essere il titolo del suo primo romanzo), ci sono dei precedenti nella letteratura italiana e in quella europea della seconda metà dell’Ottocento, dunque sarà bene indicare qualche esempio, se non altro per riconoscere poi la specificità dell’inetto sveviano rispetto a tali precedenti.

9)      Mi piace ricordare, prima di tutto, un autore poco conosciuto, Carlo Gaetano Chelli, un romano, autore nel 1883 del romanzo L’eredità Ferramonti (1883). Ne ha fatto un film, nel 1978, Bolognini, con Anthony Quinn nella parte del vecchio Gregorio Ferramonti, Gigi Proietti e Fabio Testi nella parte dei due figli, Pippo e Mario, Dominique Sanda nella parte della astuta seduttrice Irene. Sono inetti Pippo e Mario Ferramonti, i protagonisti maschili del romanzo. Sono due caratteri diversi, ma entrambi incapaci di affrontare la vita, destinati al fallimento. Sono i figli del ricco fornaio Gregorio, che però non li ama, e non li vuole come eredi, perché incapaci di proseguire la sua attività: Mario è un donnaiolo che ama la bella vita e “nuota” nei debiti, che il padre deve poi saldare; Pippo è inadatto al commercio, ha fatto un cattivo affare investendo in un negozio di ferramenta che non sa gestire. Chi invece sa affrontare la vita con spregiudicatezza è una donna, Irene, astuta calcolatrice, che ha progettato di impadronirsi dell’eredità Ferramonti: si fa sposare da Pippo, quindi seduce prima il cognato Mario, poi il vecchio Gregorio, che la nominerà erede universale. Il progetto di Irene fallisce perché il tribunale non riconosce la validità del documento firmato da Gregorio. Ma lei si rifarà una nuova vita, mentre il cognato Mario – il donnaiolo che si è innamorato di lei – si uccide disperato, e il marito Pippo, abbandonato, impazzisce e muore.



I precedenti italiani: Corrado Silla e Andrea Sperelli



10)  Dunque si tratta di inetti sia nel campo sociale che in quello sentimentale. La stessa cosa si può dire di Corrado Silla, il protagonista di Malombra, il romanzo di Fogazzaro uscito nel 1881: si tratta di uno scrittore privo di successo, che riconosce se stesso come “inetto alle opere grandi che vagheggiava, alle piccole che lo premevano, a farsi amare, a vivere”. Dunque inetto non solo a realizzare i propri progetti, grandi o piccoli che fossero, ma anche “a farsi amare”, tant’è che barcamenandosi fra due donne (una, Marina, che sollecita i suoi sensi, l’altra, Edith, che sente affine spiritualmente), se le lascia sfuggire entrambe. Anche per lui, come per i fratelli Ferramonti, la conclusione sarà tragica: finirà ucciso da Marina con un colpo di pistola.

11)  Il fallimento sentimentale di Corrado Silla ricorda quello di Andrea Sperelli, l’esteta protagonista de Il piacere, il romanzo di D’Annunzio, pubblicato nel 1889. Anche Andrea, come Corrado, è attratto da due donne (la sensuale Elena Muti e la spirituale Maria Ferres) ma non riesce a trattenere nessuna delle due, entrambe lo abbandonano. Per Andrea non c’è la morte nel finale, ma c’è il riconoscimento, nella solitudine in cui si ritrova, del proprio fallimento.



I precedenti stranieri: L’ “uomo superfluo” di Turgheniev



12)  Se passiamo a qualche esempio della letteratura straniera, mi piace ricordare che Svevo, nel suo Profilo autobiografico, scrive di avere letto e amato i grandi romanzieri russi. Nomina Turgheniev, ma certamente allude anche a Lermontov (Un eroe del nostro tempo), Dostoevskij (L’idiota), Goncarov.

13)  Turgheniev ha creato il personaggio dell’ “uomo superfluo”, che ritorna nei suoi romanzi e che dà il titolo ad un racconto del 1850, il Diario di un uomo superfluo, in cui il protagonista, Cjulkaturin, così spiega la propria condizione: “La natura, si vede, non aveva contato sulla mia comparsa e di conseguenza mi ha trattato come un ospite inatteso e non invitato… Durante tutta la mia vita ho sempre trovato il mio posto occupato, forse perché cercavo il mio posto non là dove avrei dovuto cercarlo.”; e Rudin, nell’omonimo romanzo del 1856, si esprime in questi termini: “Mi manca… nemmeno io so dire che cosa mi manca… mi manca probabilmente proprio quella qualità che ci fa capaci di muovere i cuori degli uomini e di impadronirsi del cuore di una donna.”.



I precedenti stranieri: Oblomov



14)  Goncarov è autore di un romanzo che ebbe un notevole successo, Oblomov, dal nome del protagonista, pubblicato nel 1859. Su questo romanzo vorrei soffermarmi. Oblomov è un inetto, un personaggio abulico, incapace di vivere attivamente, di adoperarsi per trasformare la realtà circostante, per realizzare qualche progetto; continua a crearsi alibi (i pericoli del futuro e i relativi dolori) pur di sfuggire agli impegni del presente; si lascia vivere, pigramente, passando la giornata fra un pasto e una dormita (sembra l’esempio perfetto di quel dormiglione di cui parla lo psicologo Morselli); e per questa sua abulia, si ritrae spaventato anche dal grande amore (Olga, la donna che scuote la sua vita, che potrebbe e vorrebbe “salvarlo”) e accetta invece un amore che non gli costa fatica (per la padrona dell’appartamento in cui abita, che lo accetta così com’è e lo serve con dedizione).

15)  Ma Oblomov non è un piccolo borghese, non appartiene a quella classe sociale, la piccola borghesia, che, abbiamo detto, riversa in inettitudine la crisi di identità che patisce nell’età della seconda rivoluzione industriale. Oblomov è un proprietario terriero che vive di rendita in città (a San Pietroburgo), simbolo, quindi, con la sua inerzia, di una società arretrata, feudale, conservatrice. Il romanzo è del 1859, quindi vuole essere anche una denuncia della arretratezza della società russa rispetto al resto d’Europa, laddove ci sono popoli (tedeschi e inglesi soprattutto) e classi sociali (la borghesia) che innovano, modificano la realtà, operano per progredire. Di questa classe sociale (e di questi popoli) è espressione l’amico del cuore di Oblomov, Andrej Stolz (di madre russa e padre tedesco), pieno di iniziative, dotato di spirito pratico, del tutto antitetico rispetto all’inerte Oblomov, che lui cerca, invano, di sollevare dalla sua apatia.

16) Dunque si potrebbe concludere che l’inettitudine di Oblomov è dovuta al suo essere un “redditiero” viziato, che può permettersi di non lavorare, abituato sin dall’infanzia ad essere circondato da servi. Ma è una conclusione semplicistica. Nei continui dialoghi con Stolz emerge una sua filosofia, che diventa una denuncia dei comportamenti umani dominanti, e l’attivismo a cui Stolz lo esorta pare ad Oblomov niente altro che una lotta degli uni contro gli altri per sopraffarsi a vicenda, una lotta cui Oblomov non vuole adeguarsi:



Che cosa, in particolare, non ti piace di questa vita?" (gli chiede Stolz).

"Tutto: le continue corse, l'eterno gioco delle meschine passioni, soprattutto l'avidità, il bisogno di tagliarsi le gambe l'un l'altro, le chiacchiere, i pettegolezzi, il punzecchiarsi a vicenda, quello squadrarsi da capo a piedi; se ascolti le conversazioni, ti gira la testa, ti senti stordito. A prima vista, ti sembrano tutti intelligenti, ti par di leggere tanta dignità sui loro visi, ma appena li ascolti: "A questo hanno dato quello, questo ha ottenuto l'appalto." "Per quale ragione, di grazia?", grida qualcuno. "Quello ieri sera al club ha perso tutto al gioco: quell'altro ha guadagnato trecentomila rubli!". Che noia, che noia, che noia!... Ma dov'è l'uomo? Dove si è nascosto? come fa a perdersi in queste futilità?".

"Il mondo e la società devono pure occuparsi di qualcosa", disse Stolz, "ognuno ha i suoi interessi. È la vita...".

"Il mondo, la società! Forse tu, Andrej, mi porti in questo mondo, in questa società proprio per farmi passare la voglia di frequentarli. La vita: bella vita! Cosa c'è da cercare lì? Interessi dello spirito o del cuore? Guarda dunque dov'è il centro intorno al quale si muove tutto questo: non c'è un centro, non c'è niente di profondo, niente che arrivi al cuore. Sono tutti quanti dei cadaveri, tutti addormentati peggio di me questi individui che vivono nel mondo e nella società! Che cosa li guida nella vita? Certo, non se ne stanno sdraiati, tutto il giorno si affannano ad andare avanti e indietro come mosche, e a che pro? (…)

"Nessuno ha lo sguardo limpido, sereno", proseguì Oblomov, "tutti si trasmettono l'un l'altro preoccupazioni, angosce, pene, tutti sono alla morbosa ricerca di qualche cosa. Se almeno cercassero la verità, il bene per sé e per gli altri... no, il successo di un amico li fa impallidire. Uno ha un'altra idea fissa: domani deve passare in un ufficio pubblico, dove si trascina una pratica da cinque anni; la parte avversa continua a spuntarla, e lui per cinque anni si porta quel chiodo nella testa, con un solo desiderio: dare lo sgambetto all'altro e sulla sua caduta costruire l'edificio della propria fortuna. Fare anticamera sospirando per cinque anni: questo sarebbe il suo ideale, lo scopo della sua vita! Un altro si tormenta perché è condannato ad andare ogni giorno in ufficio e a starci fino alle cinque; ma un altro ancora sospira con tristezza perché lui non ha questa fortuna...".

17)  Se lo guardiamo da questo punto di vista, Oblomov appare come un idealista deluso che si ritira consapevolmente da un mondo che lui non accetta. Sottolineo questo aspetto perché dimostra come l’inettitudine possa essere vista come una forma di critica ai valori dominanti nella società: un aspetto che certamente ritroveremo in Svevo.

I precedenti stranieri: L’idiota di Dostoevskij

18) Quanto a Dostoevskij, il protagonista de L’idiota (1869), il principe Myskin, è inetto in un modo particolare: non è un abulico come Oblomov, è un disadattato, un estraneo rispetto alla società in cui si trova (ma, direi, lo sarebbe rispetto a qualsiasi società), semplicemente perché è come un fanciullo innocente, totalmente ispirato ad una ingenua sincerità e bontà d’animo, sempre un po’ impacciato e ridicolo nel mondo degli adulti. E infatti coi fanciulli trova immediata corrispondenza, come emerge da un episodio del suo soggiorno in Svizzera, che lui stesso racconta:

“Laggiù, laggiù non c’erano che bambini e io stavo tutto il tempo coi bambini, solo con loro. Erano i bambini del villaggio, tutta una banda che frequentava la scuola. Io non è che insegnassi loro, no, per questo c’era il maestro di scuola Jules Thibault; io forse insegnavo anche, ma soprattutto stavo con loro, e i miei quattro anni trascorsero tutti così. Non avevo bisogno di nient’altro. Dicevo loro tutto, senza nascondere nulla… Mi ha sempre colpito il pensiero di quanto poco i grandi conoscano i bambini, i padri e le madri conoscono poco addirittura i propri figli. Ai bambini non bisogna nascondere nulla, col pretesto che sono piccoli e che per loro è troppo presto sapere. Che idea triste e disgraziata! I bambini poi si accorgono benissimo che i loro padri li ritengono troppo piccoli e credono che non capiscano nulla, mentre invece loro capiscono tutto alla perfezione. I grandi non sanno che un bambino può dare un consiglio straordinariamente importante anche in un caso di maggior merito. Oh mio Dio! Quando vi guarda uno di quei graziosi uccellini, pieno di fiducia e di felicità, dovreste aver vergogna di ingannarlo! Io li chiamo uccellini perché al mondo non c’è niente di meglio di un uccellino. (…) Thibault mi invidiava e basta; all’inizio continuava a scuotere la testa e a meravigliarsi che i bambini con me capissero tutto  mentre con lui non capivano quasi nulla, poi prese a burlarsi di me quando gli dissi che noi due non insegnavamo loro quasi nulla, anzi erano loro che insegnavano a noi.  Ma come poteva invidiarmi e calunniarmi, quando egli stesso viveva con i bambini? Attraverso i bambini l’ani ma guarisce. (…) Quanto a Schneider, parlò e discusse molto con me del dannoso “sistema” da me tenuto con i bambini. Alla fine mi espresse un suo pensiero molto strano, mi disse di essersi pienamente convinto che ero anch’io un perfetto bambino, un vero e proprio bambino, che solo per la statura e il viso somigliavo a un adulto, ma che quanto a sviluppo, anima, carattere, e forse anche intelligenza, non ero un adulto, e che così sarei rimasto, anche se fossi vissuto fino a sessant’anni. Io ne risi molto: certo, non aveva ragione: infatti che bambino son io? Una cosa soltanto è vera: è una fatto che non mi piace stare con gli adulti, con la gente, coi grandi – e l’ho notato da un pezzo – non mi piace, perché non ci so stare. Qualunque cosa mi dicano, per quanto siano buoni verso di me, con loro, non so perché, mi sento sempre a disagio…”

19)  Del resto lo stesso Dostoevskij dichiara di aver voluto “raffigurare un uomo assolutamente buono”. Dunque Myskin è un Cristo del XIX secolo (sono ricorrenti nel romanzo riferimenti a Cristo, in particolare al quadro di Hans Holbein il giovane che raffigura il Cristo deposto), assolutamente privo di malizia, mosso soltanto da pietà e assoluta fiducia nel prossimo. E il mondo degli “adulti”, fatto di convenzioni, formalismi, malizia e menzogne, ride della diversità del principe fanciullo, ma ogni volta resta abbagliato di fronte alle verità da lui svelate con semplicità ed immediatezza. Se allora vogliamo azzardare un confronto con l’inetto sveviano, potremmo dire che l’ “idiota” è come un alieno, un marziano che arriva da un altro mondo (e del resto, il principe Myskin nel romanzo arriva in mezzo alla bella società russa da un altro mondo, precisamente da una clinica svizzera dove è stato in cura per lungo tempo e dove nel finale ritornerà, con la mente ottenebrata dall’epilessia), non appartiene al nuovo mondo in cui è “atterrato”, e quel mondo lo guarda stupito e chiama idiozia la sua diversità. L’inetto di Svevo invece appartiene a quel mondo, a quella società; si sente diverso, ma vorrebbe essere uguale agli altri, invidia i vincenti; è inetto proprio perché fallisce nel tentativo di essere come gli altri, e fallisce non perché lui sia l’assolutamente buono in un mondo di malizia, ma perché c’è in lui un eccesso di riflessione (un’ipertrofia della coscienza) che blocca, inibisce la naturalezza del vivere.

I precedenti stranieri: Amiel

20) Ma se c’è un autore che più di altri, a fine Ottocento, ha comunicato questa idea della inettitudine come condizione esistenziale, questi è lo scrittore ginevrino Henri Frederic Amiel, autore di un poderoso, quasi maniacale, diario (Frammenti di un giornale intimo, di oltre 17000 pagine, pubblicato postumo nel 1884) in cui si descrive come un inetto, reso incapace di vivere da un eccesso di autoanalisi. Di Amiel si è detto che sembra uscito da un romanzo di Svevo. Ed Amiel è un autore letto e particolarmente amato da Montale. Ecco qualcuna delle sue riflessioni:

Ho l’epidermide del cuore troppo sottile… Ciò che potrebbe essere mi guasta ciò che è, ciò che dovrebbe essere mi rode di tristezza. Perciò la realtà, il presente, la necessità, l’irreparabile mi ripugnano, o anche mi spaventano. Ho troppa immaginazione, coscienza e penetrazione, e non abbastanza carattere. Solo la vita teorica ha sufficiente elasticità, immensità, riparabilità; la vita pratica mi fa arretrare. (6/4/51)

L’energica soggettività che s’afferma con la fede in se stessa mi è estranea… Io sono essenzialmente oggettivo e la specialità che mi distingue è quella di potermi porre da tutti i punti di vista, di vedere con tutti gli occhi… Di qui l’attitudine alla teoria e l’irresolutezza nella pratica; di qui il talento critico e la difficoltà nella produzione spontanea; di qui anche la lunga incertezza delle convinzioni e delle opinioni. (18/11/51)

L’uomo volgare non dubita di nulla e non sospetta nulla. Il filosofo è più circospetto. Inoltre è inadatto all’azione perché, pur vedendo la meta meglio degli altri, misura troppo bene la propria debolezza e non si illude sulle sue probabilità. (30/8/72)

Ho scoperto per tempo che era più facile rinunciare a un progetto che realizzarlo… e non potendo ottenere tutto ciò che sarebbe stato nel voto della mia natura, vi ho rinunciato in blocco… Ho anticipato in spirito tutti i disinganni. (18/8/73)[1]

Ho il terrore dell’azione e mi sento a mio agio solo nella vita impersonale, disinteressata, oggettiva del pensiero. Perché ciò? Per timidezza… Da dove deriva questa timidezza? Dallo sviluppo eccessivo della riflessione, che ha ridotto quasi a niente la spontaneità, lo slancio, l’istinto e con ciò stesso l’audacia e la fiducia. Quando bisogna agire io vedo dappertutto solo cause di errore e di pentimento, minacce nascoste e dispiaceri mancati.

21)  Sottolineo questa associazione fra inettitudine, incapacità di agire e eccesso di riflessione, di analisi e auto-analisi, perché questo è un tratto distintivo dei personaggi sveviani. A questa tipologia umana, con le differenze che riscontreremo, sono riconducibili i protagonisti dei romanzi, ed anche delle novelle, di Svevo.



[1] Dice Svevo nel Profilo autobiografico: “E’ il destino di tutti gli uomini d’ingannare se stessi sulla natura delle proprie preferenze per attenuare il dolore dei disinganni che la vita apporta a tutti”.

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