giovedì 7 aprile 2016

La figura dell'inetto nella letteratura fra Ottocento e Novecento (VI parte)


La coscienza di Zeno: l’ultimo capitolo



1)   Nell’ultimo capitolo, Psico-analisi, Zeno abbandona il memoriale e passa a redigere un diario che va dal maggio del 1915 al marzo del 1916 (sono i giorni che precedono e seguono l’entrata in guerra dell’Italia), un diario che, insieme al memoriale, intende consegnare al dottore perché sappia che cosa pensa di lui e della terapia psicanalitica. Ironizza sulle teorie di Freud che pretendono di spiegare i comportamenti umani col complesso di Edipo o come “atti mancati”. Ma proprio mentre li deride, Zeno ci svela i significati nascosti di ricordi, sogni, eventi. Soprattutto, qui si dà atto di una pratica psicanalitica più ortodossa, perché, su sollecitazione del dottore, vengono rievocati ricordi della lontana infanzia (la rivalità col fratello minore, che può restare a casa quando Zeno deve andare a scuola; ma anche sogni che dimostrano il desiderio di possedere la madre). Si tratta quindi, anzitutto, del complesso di Edipo, e quindi Coprosich aveva avuto ragione, lo schiaffo era meritato, anche il vecchio Malfenti era stato odiato, in quanto sostituto del padre (e quindi Zeno aveva “sfregiato” la sua casa, tradendo la moglie e aspirando a sedurre anche Ada e Alberta) e naturalmente sempre odiato era stato Guido.

2)   . Quindi, in maniera piuttosto contraddittoria, Zeno dice di avere chiuso con la psicanalisi, ora perché non lo ha guarito, ora perché invece è guarito, infine perché è la vita stessa che è una malattia. Dice di essere guarito perché sta avendo successo nel commercio. E infatti ha comprato ed accaparrato in tempo di guerra (oro, anzitutto, ma poi qualsiasi merce), quando i prezzi erano bassi, facendo ottimi affari, proprio come i cosiddetti “pescecani”, o profittatori di guerra. Dunque la salute è integrazione in quel mondo, con quella morale spregiudicata, del successo economico, del profitto, quel mondo cui invece era estraneo lo Zeno malato. Del resto è interessante notare che in un frammento del progettato quarto romanzo si dice che, finita la guerra, Zeno fa delle operazioni sbagliate, tanto che perde con gli interessi tutti i guadagni ottenuti durante la guerra.

3)    Ma infine (e qui la voce del narratore si confonde con quella dell’autore: si riprendono infatti tesi da lui sostenute in alcuni saggi) malata è la vita dell’uomo che, a differenza degli animali che hanno un progresso naturale (la rondine, la talpa), ha inventato gli “ordigni” fuori di sé, gli ordigni che hanno ormai il sopravvento su di lui, impedendogli la naturalità. Da tale malattia solo la catastrofe di una “esplosione enorme che nessuno udrà” potrà liberare la terra:



Dal Maggio dell’anno scorso non avevo più toccato questo libercolo. Ecco che dalla Svizzera il dr. S. mi scrive pregiandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato. È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ma al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare.

Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico–analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri (allude a coloro che muoiono in guerra).

Non è per il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. (…)

Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo. Fu il mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia.

Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell’Agosto dell’anno scorso. Allora io cominciai a comperare. Sottolineo questo verbo perché ha un significato più alto di prima della guerra. In bocca di un commerciante, allora, significava ch’egli era disposto a comperare un dato articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch’io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna. L’Olivi (è l’amministratore dei suoi beni, che il padre ha voluto, non fidandosi delle capacità commerciali del figlio) non era a Trieste, ma è certo ch’egli non avrebbe permesso un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un rischio. Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza. Dapprima m’ero messo, secondo l’antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v’era una certa difficoltà di comperare e vendere dell’oro. L’oro per così dire liquido, perché più mobile, era la merce e ne feci incetta. Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti. Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli.

Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d’incenso. Il venditore mi vantava la possibilità d’impiegare l’incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l’incenso mai più avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere. Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una miseria tale da dover accettare l’incenso quale un surrogato della resina. E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l’importo che m’era occorso per appropriarmi della partita intera. Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute. (…)

Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati.

La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! (qui è proprio l’autore che vede con acutezza certi mali della società industriale: l’inquinamento, la distruzione della natura, l’eccessivo incremento demografico)

Ma non è questo, non è questo soltanto.

Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.

Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico–analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. (se gli ordigni sono le macchine, la tecnologia industriale, qui Svevo sembra alludere alla interpretazione marxista: la malattia prospera a causa della proprietà privata dei mezzi di produzione)

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.



4)   A parte il tono profetico che parla, agli inizi del Novecento, di un “esplosivo incomparabile”, e quindi della possibilità che la follia umana possa distruggere la terra – un incubo diventato concreto alcuni decenni dopo, con la realizzazione della bomba atomica – è un passo che ricorda un’Operetta morale di Leopardi, Il cantico del gallo silvestre, nel cui finale si prefigura lo stesso un universo senza più vita e senza più dolore, in un buio e in un silenzio infiniti. Ma queste pagine finali, in particolare quelle in cui Svevo si dichiara guarito in quanto ha acquisito i valori della società in cui vive (e sono i valori del profitto e del successo commerciale), si prestano ad una riflessione più accurata sulla natura dell’inetto sveviano. A questo fine serve recuperare una pagina molto significativa del primo romanzo

Una vita: Macario e il volo del gabbiano

5)   In Una vita, come negli altri due romanzi, c’è l’antagonista dell’inetto, l’amico-rivale, colui che ha le qualità che mancano all’inetto: capacità di decidere, determinazione, senso pratico, efficienza e, naturalmente, facilità nei rapporti con le donne. In Una vita si tratta di Macario, il cugino di Annetta, che lei alla fine sposerà. Fra Alfonso e Macario si instaura un rapporto di apparente amicizia. In realtà Alfonso subisce la superiorità sociale e di “attitudine alla vita” di Macario, e quest’ultimo disprezza le qualità intellettuali di Alfonso, la sua cultura umanistica. C’è un episodio estremamente significativo, ed è quando Macario, abile velista, invita Alfonso a uscire con lui in barca. Naturalmente, tanto è sicuro di sé Macario quanto è a disagio e impaurito Alfonso, che per di più soffre il mal di mare.    

Macario lo guardò con un leggero sorriso. Si sentiva bene nella sua calma accanto ad Alfonso e per rendere più evidente il distacco tenne il cutter sotto la piena azione del vento. Alfonso vide il sorriso e volle prendere l'aspetto di persona calma. Segnalò a Macario all'orizzonte delle punte bianche di montagne di cui non si vedevano le basi.

        Passando accanto al faro poté misurare la rapidità con la quale tagliavano l'acqua; diede un balzo sembrandogli che la barca andasse a sfracellarsi sui sassi che la contornavano.

        - Sa nuotare? - gli chiese Macario con tranquillità. - Alla peggio ritorneremo a casa a nuoto. Ma - e finse grande preoccupazione - anche se si sentisse andare a fondo non si aggrappi a me perché saremmo perduti in due. Penseremo a lei io e Nando. Nevvero, Nando?

        Ridendo sgangheratamente, costui lo promise.

        Coi suoi modi di pensatore, Macario si dilungò in considerazioni sugli effetti della paura. Ogni dieci parole alzava la mano aristocratica, l'arrotondava e tutti i sottintesi che quel gesto segnava, cui nel vuoto della mano creava il posto, Alfonso lo sapeva, dovevano andare a colpire lui e la sua paura.

        - Muore maggior numero di persone per paura che per coraggio. Per esempio in acqua, se vi cadono, muoiono tutti coloro che hanno l'abitudine di afferrarsi a tutto quello che loro è vicino, - e fece una strizzatina d'occhio verso le mani di Alfonso che si chiudevano nervosamente sulla banchina.

        E passarono accanto al verde Sant'Andrea senza che Alfonso potesse padroneggiarsi. Guardava, ma non godeva.

        La città, quando al ritorno la rivide, gli parve triste. Sentiva un grande malessere, una stanchezza come se molto tempo prima avesse fatto tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare mai più. Doveva essere mal di mare e provocò l'ilarità di Macario dicendoglielo.

        - Con questo mare!

        Infatti il mare sferzato dal vento di terra non aveva onde. Vi erano larghe strisce increspate, altre incavate, liscie liscie precisamente perché battute dal vento che sembrava averci tolto via la superficie. (…)

        Alfonso era tanto pallido che Macario se ne impietosì e ordinò a Ferdinando di accorciare le vele.

        Si era in porto, ma per giungere al punto di partenza si dovette passarci dinanzi due volte.

        Si udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come la salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le grandi ali bianche tese, il corpicciuolo sproporzionato piccolo coperto da piume leggiere.

        Fatti proprio per pescare e per mangiare, - filosofeggiò Macario. - Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch'è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l'appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall'alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere.

        Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero nell'agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza.

       - Ed io ho le ali? - chiese abbozzando un sorriso.

       - Per fare dei voli poetici sì! - rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso.

6)   Le considerazioni di Macario sul volo del gabbiano e sulla sua capacità di afferrare la preda ci portano nel cuore del problema. Macario dice sostanzialmente due cose: 1) il gabbiano ci insegna che non c’è bisogno del cervello per afferrare la preda, ci vogliono l’appetito formidabile, la vista acuta e soprattutto quelle ali potenti; 2) avere o non avere quelle ali è un dato di natura, chi non le possiede non potrà mai ottenerle e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare”, sarà sempre uno sconfitto

7)   Per quanto riguarda questo secondo aspetto, Svevo desumeva da Schopenhauer l’idea che esistano in natura due tipi umani, i “lottatori” e i “contemplatori”, i primi sono quelli capaci di “afferrare la preda”, i vincenti nella lotta per la vita, i contemplatori invece sono incapaci di afferrare la preda, destinati a soccombere, insomma gli inetti.

8)   Ma se riflettiamo sul primo aspetto, gettiamo una luce del tutto diversa sulla figura dell’inetto. Il lottatore Macario disprezza il cervello, l’organo che consente di pensare e di capire, disprezza il contemplatore Alfonso che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile”, il cervello appunto, fino a liquidarlo, in risposta alla sua ingenua domanda (“Ed io ho le ali?”),  con la battuta finale (“Per fare dei voli poetici sì!”).

L’albatro di Baudelaire

9)   Sono considerazioni che ci rimandano, soprattutto per questo secondo aspetto, a due autori insospettabili: Baudelaire e Leopardi.

10)             Baudelaire si era servito ugualmente del paragone con un uccello, l’albatro, per definire la condizione del poeta, goffo e impacciato in un’età incapace di comprenderne l’intelligenza, la sensibilità e la fantasia, in una società che professa altri valori rispetto a quelli dell’arte, che dunque sente il poeta come diverso, estraneo da sé e ne fa oggetto di derisione. Ma il poeta è come l’albatro, impacciato quando è a terra perché ostacolato dalle sue grandi ali, ali da gigante, ma sicuro e maestoso quando può dispiegare le ali nel volo, quando è nel suo elemento, l’aria, e fa e vede ciò che gli uomini a terra non possono né fare né vedere. E’ uno dei Fiori del male, la poesia intitolata, appunto, L’albatro.

Per dilettarsi, sovente, le ciurme
catturano degli albatri, marini
grandi uccelli, che seguono, indolenti
compagni di viaggio, il bastimento
che scivolando va su amari abissi.
E li hanno appena sulla tolda posti
che questi re dell'azzurro abbandonano,
inetti e vergognosi, ai loro fianchi
miseramente, come remi, inerti
le candide e grandi ali. Com'è goffo
e imbelle questo alato viaggiatore!
Lui, poco fa sì bello, com'è brutto
e comico! Qualcuno con la pipa
il becco qui gli stuzzica, là un altro
l'infermo che volava, zoppicando
scimmieggia.

Come il principe dei nembi
è il Poeta che, avvezzo alla tempesta,
si ride dell'arciere, ma esiliato
sulla terra, fra scherni, camminare
non può per le sue ali da gigante.

11)             Come si vede, il riferimento al gabbiano in Svevo e all’albatro in Baudelaire ha una valenza diversa, se non opposta: per Macario il gabbiano, con la sua capacità di afferrare la preda, rappresenta il positivo apprezzato dalla società, laddove il letterato, il poeta, con la sua intelligenza e sensibilità, è il negativo oggetto di derisione. Per Baudelaire invece l’albatro è il positivo come lo è il poeta, laddove il negativo sono i marinai ignoranti che lo sbeffeggiano perché lo vedono goffo, inetto, ma in realtà sono incapaci – come lo è Macario nei confronti di Alfonso – di comprenderne l’intelligenza e la sensibilità. Di comune c’è la stessa idea di una estraneità del poeta (o del letterato) – una estraneità che lo rende ridicolo – rispetto ai valori dominanti. L’inetto Alfonso non è altro che l’albatro, che, a terra, appare ridicolo perché fatica a camminare; ma fatica a camminare perché ha ali da gigante, con le quali può librarsi nell’azzurro, con le quali, fuor di metafora, può vedere e comprendere ciò che i marinai e i Macario non sanno né vedere né comprendere.

12)             Baudelaire scriveva a metà dell’Ottocento ed esprimeva così quella che lui avvertiva come nuova condizione dell’intellettuale, non in sintonia ma in conflitto con i valori dominanti nella società (l’interesse, il profitto, l’efficienza), una condizione di cui, qualche decennio più tardi, si faranno interpreti i “poeti maledetti” e poi tanta arte d’avanguardia del Novecento.

La diagnosi di Leopardi

13)             Ma più interessanti ancora appaiono certe riflessioni di Leopardi, che scrive agli inizi dell’Ottocento e che sembra fare una vera e propria diagnosi ante litteram della condizione dell’inetto. Sono riflessioni che si trovano nello Zibaldone e che poi diventano argomento di alcune Operette morali. Vorrei leggere alcuni brani tratti da questi testi. Nel Dialogo della Natura e di un’Anima, Leopardi immagina che un’Anima grande chieda alla Natura ragione della propria infelicità. La Natura, dopo aver spiegato che quanto più l’individuo è dotato di intelligenza e sensibilità (quanto più si eleva sopra il torpore degli "animali bruti"), tanto più è destinato all’infelicità, giacché più intensamente avverte la distanza incolmabile fra il desiderio del piacere (proprio di ogni uomo) e la miseria della realtà, prosegue il ragionamento  giungendo ad indicare per l’anima grande alcune conseguenze sul piano pratico della vita quotidiana:

Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dalla immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni nell’eseguire. I meno atti e meno usati a ponderare seco medesimi sono i più pronti al risolversi, e nell’operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiaciono il più tempo all’irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che, mentre per l’eccellenza delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo quasi tutte le altre della tua specie nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in sé, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo.

14)             In un’altra delle Operette morali, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, viene attribuita al suddetto personaggio l’idea che esista una categoria di persone, a cui va la stima generale, “atte ai negozi pubblici e privati; a partecipare con diletto nel commercio gentile degli uomini, e riuscire scambievolmente grate a quelli coi quali si abbattono a convivere”; e che invece ne esista un’altra con  le seguenti caratteristiche:

gli uomini di questa seconda specie, non essendo di volontà punto alieni dal conversare cogli altri, desiderando in molte e diverse cose di rendersi conformi o simili a quelli del primo genere, dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui si veggono essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente inferiori a sé d'ingegno e d'animo; non vengono a capo, non ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all'uso pratico della vita, né di rendersi nella conversazione tollerabili a se, non che altrui.

15)             Infine, ecco alcune riflessioni rintracciabili nello Zibaldone, in cui sono ribadite le stesse idee:

È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento, sono i più difficili a risolversi tanto al credere, quanto all'operare; i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da quell'eccessiva pena dell'irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l'utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l'abito di riflettere, e la profondità dell'indole, tanto è maggiore la difficoltà e l'angustia di risolvere. (21. Gen. 1821.).

l'abito della prudenza nel deliberare esclude ordinariamente la facilità e prontezza del risolvere, ed anche la fermezza nell'operare. Di qui è che gli uomini d'ingegno grande ed esercitato sono per lo più, anzi quasi sempre prigionieri, per così dire, dell'irresolutezza, difficili a risolvere, timidi, sospesi, incerti, delicati, deboli nell'eseguire. Altrimenti essi dominerebbero il mondo, il quale, perché la risolutezza per se può sempre più che la prudenza sola, fu ed è e sarà sempre in balia degli uomini mediocri. (26. Luglio, dì di S. Anna. 1823.).

16)             Dunque Leopardi associa l’inettitudine ad intelligenza, immaginazione, sensibilità; e parla proprio dell’inettitudine nei due aspetti che abbiamo sottolineato, ovvero come incapacità di prendere decisioni e come goffaggine nella vita pratica. Si tratta ora di vedere se questa associazione è vera anche per Svevo, cioè se è vero che l’inetto è portatore di un’intelligenza critica, laddove gli “atti a vivere” sono i mediocri che non comprendono la complessità del reale.


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