Svevo: la
galleria degli “atti a vivere”
1) Se rintracciamo nei diversi romanzi
i cosiddetti “atti a vivere”, scopriamo che Svevo ne fa una descrizione
spietata che mette in risalto proprio quella mediocrità intellettuale di cui
parla Leopardi. Il primo che vediamo è Creglingi, in Una vita: si tratta di un vecchio amico d’infanzia di Alfonso, che
costui incontra quando torna al paese, fuggendo da Trieste con la scusa di
dovere andare a trovare la madre malata (in verità, si sente incapace di
reggere il rapporto con Annetta). Creglingi amministra con successo i beni
della famiglia e, in più, si è fidanzato con Rosina, una bella ragazza di cui
Alfonso era stato innamorato. Ecco come viene descritto:
(…)
Creglingi, un giovine forte, dai tratti volgari, la pelle macchiata dal sole e
nel viso quasi rotondo gli occhi piccoli dell'astuzia (…)
Era
un'amicizia di prima gioventù ed era durata fino alla partenza di Alfonso ad
onta che con l'avanzarsi dell'età la differenza fra i due giovani fosse
divenuta sempre maggiore. L'intelligenza di Creglingi era stata poco sviluppata
o meglio soffocata dal lavoro manuale. Mai Alfonso si sarebbe risolto a tagliare
quella relazione conservando un culto superstizioso alle memorie della sua
prima giovinezza. Ebbe qualche avvilimento al vedersi lui respinto. Creglingi era il possessore di due o tre
idee in tutto e dovevano servirgli per tutta la vita e Alfonso lo aveva
sopportato per una certa simpatia per la
forza e risolutezza che scorgeva in lui.
2) Ecco poi Leardi, in Senilità: un bellimbusto che aveva
successo con le donne, di cui si diceva che avesse avuto una relazione con
Angiolina; e così lo descrive Emilio:
Chissà con chi Angiolina lo avrebbe
tradito quel giorno, forse con delle persone ch'egli non conosceva neppure.
Come era superiore a lui il Leardi, quell'imbecille
privo di idee! Quella calma era la vera scienza della vita. - Sì, - pensò
il Brentani, e gli parve di dire una parola che avrebbe dovuto far vergognare
insieme a lui l'umanità più eletta - l'abbondanza
d'immagini nel mio cervello forma la mia inferiorità. - Infatti se il
Leardi avesse pensato che Angiolina lo tradiva, non se la sarebbe saputa rappresentare
in un'immagine così piena di rilievo, di colore e di movimento come faceva lui
figurandosela accanto al Leardi.
3) Ma è ne La coscienza di Zeno che si trovano le più significative
rappresentazioni degli “atti a vivere”. Così Zeno descrive il proprio padre (un padre che negli affari ci ha saputo fare,
visto che lascia un discreto patrimonio che, non fidandosi delle capacità del
figlio, affida ad un amministratore, certo Olivi) :
Avevamo
tanto poco di comune fra di noi, ch’egli mi confessò che una delle persone che
più l’inquietavano a questo mondo ero io. Il mio desiderio di salute m’aveva
spinto a studiare il corpo umano. Egli, invece, aveva saputo eliminare dal suo
ricordo ogni idea di quella spaventosa macchina. Per lui il cuore non pulsava e non v’era bisogno di ricordare valvole e
vene e ricambio per spiegare come il suo organismo viveva (chi è “atto a vivere” vive con immediatezza,
con naturalezza, non si pone domande su come funziona la vita; invece l’inetto
si guarda vivere, si pone problemi sul senso e sui modi della vita, e questo
rallenta, fino a bloccarla, la capacità di agire; ricordare il passo in cui
Zeno non riesce a camminare dopo che un amico gli ha detto che si mettono in
moto 54 muscoli). Niente movimento perché l’esperienza diceva che quanto si
moveva finiva coll’arrestarsi. Anche la terra era per lui immobile e
solidamente piantata su dei cardini. Naturalmente non lo disse mai, ma soffriva
se gli si diceva qualche cosa che a tale concezione non si conformasse.
M’interruppe con disgusto un giorno che gli parlai degli antipodi. Il pensiero
di quella gente con la testa all’ingiù gli sconvolgeva lo stomaco.
4) E così descrive il vecchio Malfenti
(anche lui uomo di successo negli affari, capace di operare in borsa con
vantaggio), quello che lo psicanalista ha definito “un secondo padre”:
Il desiderio di novità che c'era nel mio
animo veniva soddisfatto da Giovanni Malfenti ch'era tanto differente da me e
da tutte le persone di cui io fino ad allora avevo ricercato la compagnia e
l'amicizia. Io ero abbastanza còlto essendo passato attraverso due facoltà
universitarie eppoi per la mia lunga inerzia, ch'io credo molto istruttiva.
Lui, invece, era un grande negoziante, ignorante
ed attivo. Ma dalla sua ignoranza
gli risultava forza e serenità ed io m'incantavo a guardarlo, invidiandolo.
Il Malfenti aveva allora circa
cinquant'anni, una salute ferrea, un corpo enorme alto e grosso del peso di un
quintale e più. Le poche idee che gli si
movevano nella grossa testa erano svolte da lui con tanta chiarezza,
sviscerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi affari di
ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere. Di tali idee io
ero ben povero e m'attaccai a lui per arricchire.
5) Ma è nella descrizione di Augusta
(la moglie non desiderata, ma poi rivelatasi ottima), nella descrizione della
sua bella salute e delle sue solide certezze, che emerge con chiarezza come
l’opposizione fra malattia e salute, ovvero fra inettitudine e attitudine alla
vita corrisponda all’opposizione fra capacità e incapacità di pensiero, fra un vivere istintivo e naturale che
rifugge dai problemi e un vivere problematico, un vivere che riflette su se
stesso, che si guarda vivere:
Non
so più se dopo o prima dell’affetto, nel mio animo si formò una speranza, la
grande speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch’era la salute
personificata. Durante il fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella
salute, perché tutto immerso a studiare me in primo luogo eppoi Ada e Guido (…)
Altro
che il suo rossore! Quando questo sparve con la semplicità con cui i colori
dell’aurora spariscono alla luce diretta del sole, Augusta batté sicura la via
per cui erano passate le sue sorelle su questa terra, quelle sorelle che
possono trovare tutto nella legge e nell’ordine o che altrimenti a tutto
rinunziano. Per quanto la sapessi mal fondata perché basata su di me, io amavo,
io adoravo quella sicurezza (...)
Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da
ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la vita eterna. Non che la
dicesse tale: si sorprese anzi che una volta io, cui gli errori ripugnavano
prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene
la brevità. Macché! Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva
che oramai ch’eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme.
Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un
periodo tanto breve, breve, breve, che non
s’intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo di non essersi
conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai più per un altro
infinito tempo (è un pensiero di una
profondità abissale, il pensiero di quanto breve sia la vita rispetto
all’infinità del tempo che sta prima e dopo la vita; tutti siamo un po’ come
Augusta: lo sappiamo ma non ci pensiamo; solo un pensatore maniacale come
l’inetto può sprofondare in questo pensiero). Compresi
finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai
di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me s'era
confidato.
Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di natura. Se
anche la terra
girava
non occorreva
mica
avere il mal
di mare!
Tutt'altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto (notate: quello
di Augusta è un modo di essere simile a quello del padre, anche lui non poteva
soffrire l’idea degli antipodi; entrambi diffidano di, anzi, rifiutano di
accettare ciò che fuoriesce da schemi semplici e rassicuranti). E queste cose
immobili avevano un'importanza enorme: l'anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non m'adattavo di mettermi
in marsina. E le ore dei pasti erano tenute
rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto (la
salute di Augusta consiste nell’adeguarsi totalmente alla convenzioni, alle
tradizioni, alle abitudini; non si pone problemi, non sa e non vuole
fuoriuscire dai binari su cui si è sempre mossa) .
Di domenica essa andava a Messa ed io ve l'accompagnai talvolta per vedere come sopportasse l'immagine del dolore e della morte. Per lei non c'era, e quella visita le infondeva serenità per tutta la settimana. Vi andava anche in certi giorni festivi ch'essa sapeva a mente. Niente di più, mentre se io fossi stato religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.
C'erano
un mondo
di autorità
anche quaggiù
che la rassicuravano.
Intanto quella austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre del mio meglio per associarmi anche a quel suo rispetto. Poi
v'erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli studii regolari per salvarci quando - Dio
non voglia
- ci avesse a toccare qualche malattia. Io ne usavo ogni giorno di quell'autorità: lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il mio atroce destino quando la malattia mortale m'avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassù e quaggiù, per lei vi sarebbe stata la salvezza. (l’analisi
della salute di Augusta diventa sempre più perfida e corrosiva: lei sta bene
perché non si pone problemi, si affida totalmente alla routine delle abitudini,
stagionali e giornaliere; anche il frequentare la chiesa non è religiosità, ma
un’abitudine rassicurante; e infine c’è una fiducia incrollabile,
a-problematica, nelle istituzioni ufficiali, nelle autorità politiche e in
quelle mediche).
Io
sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m'accorgo che, analizzandola, la converto
in malattia.
E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d'istruzione per guarire. Ma vivendole accanto
per tanti anni,
mai ebbi tale dubbio. (vedete
l’ambiguità di Zeno: da una parte vorrebbe essere anche lui come Augusta,
vorrebbe integrarsi in quel mondo “normale”, con i suoi valori e le sue
abitudini piccolo borghesi; dall’altra si rende conto che quella salute
corrisponde ad una assenza di pensiero, è una salute che dovrebbe “guarire” –
dunque è una malattia – e che la propria malattia corrisponde ad una estraneità
irriducibile e critica rispetto a quel mondo. Certo, Augusta, nella sua
ignorante superficialità, vive bene, non soffre; Zeno invece sta male, è
continuamente angosciato da mille dubbi e mille problemi, ma questo è il prezzo
della sua disposizione al pensiero, alla riflessione, all’analisi e
all’auto-analisi, al “guardarsi vivere”) (…)
Ma mi colse allora un’altra piccola
malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da niente: la paura
d’invecchiare e sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da
una speciale forma di gelosia. L’invecchiamento mi faceva paura solo perché
m’avvicinava alla morte. Finché ero vivo, certamente Augusta non m’avrebbe
tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto
acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe
necessarie, subito essa si sarebbe guardata d’intorno per darmi il successore ch’essa avrebbe circondato
del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me. Non poteva mica morire la
sua bella salute perché ero morto io. Avevo una tale fede in quella salute
che mi pareva non potesse perire che sfracellata sotto un intero treno in
corsa.
Mi ricordo che una sera, a Venezia, si passava in gondola per uno di quei canali
dal silenzio
profondo
ad ogni tratto
interrotto dalla luce e dal rumore di una via che su di esso improvvisamente s'apre. Augusta,
come sempre, guardava le cose e accuratamente le registrava: un giardino verde e fresco che sorgeva da una base sucida lasciata all'aria dall'acqua che s'era ritirata; un campanile che si rifletteva nell'acqua torbida; una viuzza lunga e oscura con in fondo un fiume di luce e di gente. Io,
invece, nell'oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso. Le dissi del tempo che andava via e che presto essa avrebbe rifatto quel viaggio di nozze con un altro. Io ne ero tanto sicuro che mi pareva di dirle una storia già avvenuta. E mi parve fuori di posto ch'essa si mettesse a piangere per negare la verità di quella storia. Forse m'aveva capito male e credeva io le avessi attribuita l'intenzione di uccidermi. Tutt'altro! Per spiegarmi meglio le descrissi un mio eventuale modo di morire: le mie gambe, nelle quali la circolazione era certamente già povera, si sarebbero incancrenite e
la cancrena dilatata, dilatata, sarebbe giunta a toccare un organo qualunque, indispensabile per
poter tener
aperti
gli occhi.
Allora li avrei chiusi, e addio patriarca! Sarebbe stato necessario stamparne un altro.
Essa continuò a singhiozzare e a me quel suo pianto, nella tristezza enorme di quel canale, parve molto importante. Era forse provocato dalla disperazione per la visione esatta di quella
sua salute
atroce? Allora tutta l'umanità avrebbe singhiozzato in quel pianto.
Poi, invece, seppi ch'essa neppur sapeva come fosse fatta la salute. La salute
non analizza se stessa e neppur si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.
6) “Solo
noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi” E dunque, se le cose stanno così, la malattia, o inettitudine, corrisponde ad
intelligenza critica: esattamente come dice Leopardi, che associa
l’inettitudine (perché di questo si tratta, quando parla di difficoltà nel
decidere e nell’agire e di goffaggine, mancanza di disinvoltura, nei rapporti
interpersonali) alla grandezza delle facoltà intellettive, ovvero “della ragione e della immaginativa”. Gli
“adatti a vivere”, al contrario, oltre che capaci di decidere e di agire, sono
anche brillanti nella vita sociale; ma lo sono, inevitabilmente, a prezzo (o in
virtù) della loro mediocrità intellettuale.
Svevo: la
superiorità di “chi non si adatta” e la lettera a Jahier
7)
Del
resto, se leggiamo certi saggi sveviani, quali L’uomo e la teoria darwiniana e La
corruzione dell’anima[1] non possiamo
che trovare riscontri a questa teoria che fa dell’inadatto a vivere l’uomo per
eccellenza. Vi si sostiene anzitutto che la
superiorità dell’uomo sull’animale è data dal fatto che, mentre quest’ultimo
perde l’anima (e con essa il “malcontento”, ovvero l’insoddisfazione) nel momento
in cui adatta il proprio organismo alle necessità ambientali, l’uomo è l’essere
che conserva l’anima – e l’inquietudine vitale che le è propria – proprio
perché non c’è adattamento che lo soddisfi. L’uomo dunque, pur a prezzo
dell’infelicità (è “torvo e malcontento”),
mantiene integre le potenzialità di sviluppo ed è sempre disponibile ad
affrontare il mutamento ambientale, laddove l’animale vive, sì, soddisfatto
della funzionalità del proprio organismo, ma rimane “identico a se stesso, definitivamente cristallizzato”, “non accorgendosi di aver perduto la vera
vita” (la “vera” vita: non sfugga il giudizio di
valore). Ne consegue
paradossalmente che, rovesciando
l’assunto darwiniano, il vero vincitore nella lotta per la sopravvivenza è
l’uomo in quanto animale che non si adatta, e cioè l’uomo in quanto inetto
(etimologicamente in-aptus, ovvero
“non-atto”, “che non si adatta”); ma, di più, trasponendo questa verità sul
piano della vita sociale, si ha un corollario altrettanto paradossale, perché
si conclude che l’uomo di successo è il
mediocre che ha perduto l’anima (e con essa la vera vita), assimilando, con istinto quasi animalesco, i valori
dominanti (appunto, adattandovisi)[2], laddove
l’inetto, in quanto incapace di far propri quei valori (in quanto renitente ad
adattarvisi), è l’uomo che vive la vera
vita, l’uomo in senso pieno, dotato di anima, dunque eternamente
insoddisfatto, straniero in ogni tempo e in ogni luogo, mai in pace con se
stesso e con gli altri. E che questa sia l’ottica giusta con cui guardare i
protagonisti dei suoi romanzi, ce lo conferma lo stesso autore nella lettera a
Valerio Jahier del 27 dicembre 1927 (Jahier gli aveva scritto dicendo che si
sentiva simile a Zeno e gli chiedeva consigli sulla terapia psicanalitica):
Egregio
Signore, non vorrei poi averle dato un consiglio che potrebbe attenuare la
speranza ch’Ella ripone nella cura che vuole intraprendere. Dio me ne guardi.
Certo è ch’io non posso mentire e debbo confermarle che in un caso trattato dal
Freud in persona non si ebbe alcun risultato. Per esattezza debbo aggiungere
che il Freud stesso, dopo anni di cure implicanti gravi spese, congedò il
paziente dichiarandolo inguaribile. Anzi io ammiro il Freud, ma quel verdetto
dopo tanta vita perduta mi lasciò un’impressione disgustosa (...)
Letterariamente
Freud è certo più interessante. Magari avessi fatto io una cura con lui. Il mio
romanzo sarebbe risultato più intero.
E perché voler curare
la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere all’umanità quello ch’essa ha di
meglio? Io credo sicuramente che il vero successo che mi ha
dato la pace è consistito in questa convinzione. Noi siamo una vivente protesta
contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata
(soprattutto a noi italiani). Io rileggo la Sua lettera come lessi molte volte
le precedenti. Ma rispondendo alle precedenti credevo davvero di parlare di letteratura. Invece da questa
Sua ultima risulta proprio un’ansiosa speranza di guarigione. E questa deve
esserci; è parte della nostra vita. Ed anche la speranza di ottenerla deve
esserci. Sola la meta è oscura.
Ma intanto -con qualche dolore- spesso
ci avviene di ridere dei sani. Il primo che seppe di noi è anteriore al
Nietzsche: Schopenhauer, e considerò il
contemplatore come un prodotto della natura, finito quanto il lottatore.
Non c’è cura che valga. Se c’è differenza allora la cosa è differente: Ma se
questa può scomparire per un successo (p. e. la scoperta d’essere l’uomo più umano che sia stato creato) allora
si tratta proprio di quel cigno della novella di Andersen che si credeva
un’anitra male riuscita perché era stato covato da un’anitra. Che guarigione
quando arrivò tra i cigni!
8)
Il
riferimento alla novella del brutto anatroccolo è perfetto: significa scoprire di non essere malato, in
quanto diverso dagli altri, ma semplicemente di appartenere ad un’altra specie,
degna quanto quella degli altri, anzi più degna, tanto quanto il cigno è più
bello dell’anatra.
[1] Più che di saggi veri e propri,
si ha l’impressione di studi rimasti allo stato di abbozzo. Si tratta di testi
di poche pagine, formalmente poco curati, a volte incompiuti, non databili con
precisione, ma collocabili alla fine del primo decennio del Novecento. Si
possono leggere in I. Svevo, Opera omnia, vol. III, Milano 1968 (p.
637 e p.641)
[2] In questa tipologia umana
saranno da riconoscere, pur con le debite differenze, gli antagonisti
dell’inetto nei diversi romanzi: Macario, Stefano Balli, Guido Speier.
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