Ulisse nella
letteratura italiana (e altrove)
1)
Se vogliamo fare un excursus nella letteratura italiana per rintracciare la
figura di Ulisse, non possiamo non partire da quel bellissimo passo di Se
questo è un uomo in cui Primo Levi ricorda come nel campo
di concentramento lui recitasse, per sé e per gli altri prigionieri, i versi
del canto XXVI dell’Inferno che conosceva a memoria; sforzava la memoria per
ricordarli e sforzava l’intelligenza per tradurli, scoprendo significati che, fuori
da quella tragica condizione, gli erano sempre sfuggiti (“e misi me per
l’alto mare aperto”; nel “mettere sé” c’è un’idea dello slanciarsi,
più forte di un semplice dirigersi; e poi c’è il “mare aperto”, quello
che ha per limite soltanto l’orizzonte). E quegli uomini, la cui umanità era
annientata, si commuovevano ascoltando il monito di Ulisse: Fatti non foste
per viver come bruti… Quel monito, il ricordo di essere uomini e non
bestie, li aiutava a sopravvivere.
2)
Tutti ricordiamo A Zacinto di Foscolo. Lì l’eroe
greco è definito “bello di fama e di sventura”. E’ diventato un
eroe romantico, cui il poeta si sente simile, e che è reso “bello” dalla
“sventura”, dalla sofferenza. Il dolore è un segno di nobiltà, è privilegio di
animi non mediocri (“soffri e sii grande!” dice Anfrido ad Adelchi,
nella tragedia manzoniana). Di questo privilegio-maledizione Ulisse è il
simbolo, e Foscolo se ne serve per mostrarci che lui è ancora più “bello”,
visto che, a differenza dell’eroe omerico che alla fine riesce a baciare “la
sua petrosa Itaca”, per lui la sofferenza dell’esilio non avrà termine (“a
noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura”).
3)
Ma nell’opera di Foscolo c’è un’altra rappresentazione di Ulisse: nei Sepolcri
Ulisse viene contrapposto come “itaco astuto” al magnanimo Aiace;
è colui che con l’astuzia è riuscito a farsi assegnare le armi di Achille, che
invece, per valore guerriero, sarebbero spettate ad Aiace. Costui impazzisce e
si uccide, ma “a’ generosi / giusta di glorie dispensiera è morte”, e
dunque, per volontà degli dei, Ulisse farà naufragio e il mare riporterà sul
sepolcro di Aiace (“alle prode Retèe”, sul promontorio Retèo, vicino a
Troia) le armi ingiustamente sottrattegli. Sembra qui ritornare lo scelerum inventor,
che si contrappone all’altro Ulisse, quello che, per amore di conoscenza, è
disposto ad affrontare ogni sacrificio.
4)
La idealizzazione romantica dell’eroe, che abbiamo visto in A Zacinto,
diventa in Maia di D’Annunzio raffigurazione del
super-uomo (strumento dunque per dare corpo a quell’ideologia a lui
così cara). Il poeta, mentre naviga nel mar Jonio con i suoi compagni, immagina
di incrociare la rotta di Ulisse che affronta il mare da solo, come si addice a
chi si è innalzato al di sopra della mediocrità e in questa altezza non può
avere compagni. Il poeta e i suoi amici lo chiamano, pregandolo di prenderli
con sé; Ulisse nemmeno volge il capo verso di loro, ma quando è il poeta da
solo a invocarlo (“Tra costoro io sono il più forte! / Mettimi a prova!”),
lo folgora con lo sguardo (“e il folgore degli occhi suoi / mi ferì per
mezzo alla fronte”), quindi prosegue nella sua rotta. Ma quello sguardo
basta perché il poeta si senta eletto e da quel momento i suoi compagni sentano
il peso della sua volontà di potenza.
5)
Non stupirà di ritrovare in Gozzano il rovesciamento ironico di quella
figura. Non stupirà, perché l’anti-eroico ed anti-dannunziano Gozzano, così
come ha rivisitato in maniera ironica le immagini del super-uomo (Totò
Merumeni è appunto un super-uomo fallito, un inetto che ha rinunciato
ad ogni aspirazione eroica ed ora, appartato dal mondo, si consola con un “esile
fiorita di versi”) e della donna fatale (La signorina Felicita,
nella sua semplicità ed ignoranza campagnola è il rovescio della donna di
lusso, della “intellettuale gemebonda”, che appartiene al mondo, reale e
letterario, di D’Annunzio), così in un delizioso componimento (L’ipotesi,
pubblicata fra le Poesie sparse, ma composta prima de La signorina
Felicita) propone in chiave ironico-parodistica quell’Ulisse
esaltato da D’Annunzio nei modi suddetti. Il poeta immagina di avere sposato la
signorina Felicita, di avere avuto con lei una vita felice e di ritrovarsi,
loro due ormai settantenni (“un giorno d’estate, nel mille e… novecento…
quaranta”), a discutere con amici di vari argomenti; e siccome il discorso
cade sul “Re di Tempeste” Odisseo, il poeta immagina di raccontarne la
storia “ad uso della consorte ignorante”. Il racconto si risolve in una
straordinaria dissacrazione della figura di Ulisse, che investe
non solo D’Annunzio ma risale fino al canto di Dante (il testo è fitto di
citazioni letterali delle espressioni dantesche): l’eroe omerico è infatti
rappresentato come uno scapestrato, marito infedele, “che visse a bordo d’un
yacht toccando tra liete brigate / le spiagge più frequentate dalle famose
cocottes…”; decise poi di andare in America a cercar fortuna, ma sbagliò
rotta e, invece di giungere in California o Perù, si trovò davanti il monte del
Purgatorio, dove la nave fece naufragio “e Ulisse piombò nell’inferno dove
ci resta tuttora”.
6) Nella poesia di Saba (Ulisse) è il poeta stesso che si identifica con Ulisse. Ricorda gli isolotti pericolosamente affioranti quando da ragazzo navigava lungo le coste dalmate: insidiosi, ma “al sole / belli come smeraldi”. Ora riconosce in quei luoghi l’autenticità della vita: “il porto / accende ad altri i suoi lumi”, ma per sé il poeta vuole ancora quella vita, l’unica degna di essere vissuta, quella che richiede “non domato spirito” e che si ama “con doloroso amore”.
6) Nella poesia di Saba (Ulisse) è il poeta stesso che si identifica con Ulisse. Ricorda gli isolotti pericolosamente affioranti quando da ragazzo navigava lungo le coste dalmate: insidiosi, ma “al sole / belli come smeraldi”. Ora riconosce in quei luoghi l’autenticità della vita: “il porto / accende ad altri i suoi lumi”, ma per sé il poeta vuole ancora quella vita, l’unica degna di essere vissuta, quella che richiede “non domato spirito” e che si ama “con doloroso amore”.
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