martedì 26 maggio 2015

Ulisse nella letteratura (I parte)


Ulisse nella letteratura italiana (e altrove)
 

1)                  Se vogliamo fare un excursus nella letteratura italiana per rintracciare la figura di Ulisse, non possiamo non partire da quel bellissimo passo di Se questo è un uomo in cui Primo Levi ricorda come nel campo di concentramento lui recitasse, per sé e per gli altri prigionieri, i versi del canto XXVI dell’Inferno che conosceva a memoria; sforzava la memoria per ricordarli e sforzava l’intelligenza per tradurli, scoprendo significati che, fuori da quella tragica condizione, gli erano sempre sfuggiti (“e misi me per l’alto mare aperto”; nel “mettere sé” c’è un’idea dello slanciarsi, più forte di un semplice dirigersi; e poi c’è il “mare aperto”, quello che ha per limite soltanto l’orizzonte). E quegli uomini, la cui umanità era annientata, si commuovevano ascoltando il monito di Ulisse: Fatti non foste per viver come bruti… Quel monito, il ricordo di essere uomini e non bestie, li aiutava a sopravvivere.

2)                  Tutti ricordiamo A Zacinto di Foscolo. Lì l’eroe greco è definito bello di fama e di sventura. E’ diventato un eroe romantico, cui il poeta si sente simile, e che è reso “bello” dalla “sventura”, dalla sofferenza. Il dolore è un segno di nobiltà, è privilegio di animi non mediocri (“soffri e sii grande!” dice Anfrido ad Adelchi, nella tragedia manzoniana). Di questo privilegio-maledizione Ulisse è il simbolo, e Foscolo se ne serve per mostrarci che lui è ancora più “bello”, visto che, a differenza dell’eroe omerico che alla fine riesce a baciare “la sua petrosa Itaca”, per lui la sofferenza dell’esilio non avrà termine (“a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura”).

3)                  Ma nell’opera di Foscolo c’è un’altra rappresentazione di Ulisse: nei Sepolcri Ulisse viene contrapposto come itaco astuto al magnanimo Aiace; è colui che con l’astuzia è riuscito a farsi assegnare le armi di Achille, che invece, per valore guerriero, sarebbero spettate ad Aiace. Costui impazzisce e si uccide, ma “a’ generosi / giusta di glorie dispensiera è morte”, e dunque, per volontà degli dei, Ulisse farà naufragio e il mare riporterà sul sepolcro di Aiace (“alle prode Retèe”, sul promontorio Retèo, vicino a Troia) le armi ingiustamente sottrattegli. Sembra qui ritornare lo scelerum inventor, che si contrappone all’altro Ulisse, quello che, per amore di conoscenza, è disposto ad affrontare ogni sacrificio.

4)                  La idealizzazione romantica dell’eroe, che abbiamo visto in A Zacinto, diventa in Maia di D’Annunzio raffigurazione del super-uomo (strumento dunque per dare corpo a quell’ideologia a lui così cara). Il poeta, mentre naviga nel mar Jonio con i suoi compagni, immagina di incrociare la rotta di Ulisse che affronta il mare da solo, come si addice a chi si è innalzato al di sopra della mediocrità e in questa altezza non può avere compagni. Il poeta e i suoi amici lo chiamano, pregandolo di prenderli con sé; Ulisse nemmeno volge il capo verso di loro, ma quando è il poeta da solo a invocarlo (“Tra costoro io sono il più forte! / Mettimi a prova!”), lo folgora con lo sguardo (“e il folgore degli occhi suoi / mi ferì per mezzo alla fronte”), quindi prosegue nella sua rotta. Ma quello sguardo basta perché il poeta si senta eletto e da quel momento i suoi compagni sentano il peso della sua volontà di potenza.

5)                  Non stupirà di ritrovare in Gozzano il rovesciamento ironico di quella figura. Non stupirà, perché l’anti-eroico ed anti-dannunziano Gozzano, così come ha rivisitato in maniera ironica le immagini del super-uomo (Totò Merumeni è appunto un super-uomo fallito, un inetto che ha rinunciato ad ogni aspirazione eroica ed ora, appartato dal mondo, si consola con un “esile fiorita di versi”) e della donna fatale (La signorina Felicita, nella sua semplicità ed ignoranza campagnola è il rovescio della donna di lusso, della “intellettuale gemebonda”, che appartiene al mondo, reale e letterario, di D’Annunzio), così in un delizioso componimento (L’ipotesi, pubblicata fra le Poesie sparse, ma composta prima de La signorina Felicita) propone in chiave ironico-parodistica quell’Ulisse esaltato da D’Annunzio nei modi suddetti. Il poeta immagina di avere sposato la signorina Felicita, di avere avuto con lei una vita felice e di ritrovarsi, loro due ormai settantenni (“un giorno d’estate, nel mille e… novecento… quaranta”), a discutere con amici di vari argomenti; e siccome il discorso cade sul “Re di Tempeste” Odisseo, il poeta immagina di raccontarne la storia “ad uso della consorte ignorante”. Il racconto si risolve in una straordinaria dissacrazione della figura di Ulisse, che investe non solo D’Annunzio ma risale fino al canto di Dante (il testo è fitto di citazioni letterali delle espressioni dantesche): l’eroe omerico è infatti rappresentato come uno scapestrato, marito infedele, “che visse a bordo d’un yacht toccando tra liete brigate / le spiagge più frequentate dalle famose cocottes…”; decise poi di andare in America a cercar fortuna, ma sbagliò rotta e, invece di giungere in California o Perù, si trovò davanti il monte del Purgatorio, dove la nave fece naufragio “e Ulisse piombò nell’inferno dove ci resta tuttora”.

6)              Nella poesia di Saba (Ulisse) è il poeta stesso che si identifica con Ulisse. Ricorda gli isolotti pericolosamente affioranti quando da ragazzo navigava lungo le coste dalmate: insidiosi, ma “al sole / belli come smeraldi”. Ora riconosce in quei luoghi l’autenticità della vita: “il porto / accende ad altri i suoi lumi”, ma per sé il poeta vuole ancora quella vita, l’unica degna di essere vissuta, quella che richiede “non domato spirito” e che si ama “con doloroso amore”.
 

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