lunedì 29 maggio 2023

Verga verista (II parte)

 

Da Nedda a Rosso Malpelo

1)    Nella fase pre-verista, il patto narrativo è sempre tale per cui il narratore è interno alla vicenda narrata (ne è partecipe o testimone). In Nedda (1874) abbiamo un narratore omnisciente, tutto esterno rispetto ai fatti e ai personaggi, che infatti non appartengono al mondo, sociale e culturale, di Verga: la convenzione è che il narratore, che fuma il sigaro in poltrona davanti al caminetto, ricorda un altro fuoco, attorno a cui ballavano le raccoglitrici di olive (e quindi comincia a narrare, senza dirci chiaramente come egli conosca la storia); questo comporta un atteggiamento di superiorità (paternalistico) nei confronti di quel mondo, che si esplica in commenti, giudizi moralistici, magari attraverso una descrizione, un’esclamazione, un aggettivo (ad esempio, la chiama la “povera ragazza” o la “povera madre”) ed un sottinteso rapporto di complicità con il lettore, implicitamente riconosciuto delle stesso livello del narratore, e chiamato a provarne gli stessi sentimenti, di commozione e di commiserazione per quel mondo di derelitti.

2)    La vera novità narrativa compare con Rosso Malpelo (1878). Si tratta di una novella straordinaria, di uno sconvolgente capolavoro, sia per la tecnica narrativa, sia per la rappresentazione, assolutamente priva di elementi consolatori, di un mondo miserabile, violento, sub-umano. Per chi non conoscesse la novella, si tratta della vicenda di un ragazzo che lavora, per una miserissima paga, presso una cava di rena ed è chiamato così perché ha i capelli rossi e questi, secondo una credenza popolare, sono indice di cattiveria.

L’ “eclissi dell’autore” o “artificio della regressione”

3)    Leggiamo l’incipit della novella:

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone.

 

Subito, la frase iniziale ci lascia perplessi: dire che Malpelo ha i capelli rossi perché è “malizioso e cattivo” è un’affermazione assolutamente priva di logica, un’affermazione che dà per scontato un nesso causale assurdo, proprio di una mentalità ignorante e superstiziosa. Pertanto non può essere dell’autore, Verga, che è colto, non ignorante né superstizioso. E dunque quell’affermazione sarà propria del mondo cui appartiene il ragazzo, il mondo dei minatori e dei popolani, ignoranti e superstiziosi. Ma non è detto, a margine dell’affermazione, che così dicevano i minatori e i paesani. Si tratta del cosiddetto “discorso indiretto libero” (o “erlebte Rede”, come lo chiamò Spitzer, ovvero “discorso rivissuto”): cioè non è un discorso diretto (dei minatori, dei popolani) perché non è introdotto dalle virgolette; è un discorso indiretto, ma non segnalato dalle locuzioni che dovrebbero segnalarlo, del tipo “come dicevano”, “così si diceva” e simili. La frase sta lì, secca e indiscutibile, è la verità enunciata dal narratore, su cui l’autore Verga non interviene a giudicarla e a contestarla. L’autore si è “eclissato”, o è “regredito” al livello del mondo di cui si narra. Non è lui che narra, sono gli stessi personaggi di quel mondo che narrano.

4)    Se poi confrontiamo quell’incipit con quei nessi causali assurdi – che pertanto non possono essere dell’autore Verga – con un passo di Nedda, vediamo con chiarezza la differenza. A un certo punto, poiché Nedda si rifiuta di portare la neonata alla Ruota, si dice: “Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita e perché non era snaturata”.  Qui la spiegazione introdotta dai “perché” è proprio dell’autore Verga, che interviene a ristabilire la verità, difendendo la scelta di Nedda dalle accuse delle comari. E’ dunque ben diverso da quell’assurdo “perché” che associa i capelli rossi di Malpelo alla cattiveria.

L’incipit de I Malavoglia

5)    Guardate anche l’incipit dei Malavoglia, il primo grande romanzo verista di Verga: “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina e ad Aci Castello…”. Qui non c’è una stortura logica, ma si avverte subito che chi sta narrando non è l’autore Verga, ma qualcuno che appartiene al mondo di cui si narra, qualcuno che per dire che un tempo dei Malavoglia ce n’erano tanti non ha altri termini di paragone che “i sassi della strada vecchia di Trezza, qualcuno cioè che non ha altri riferimenti che il paese cui appartiene; qualcuno il cui universo è ridotto al piccolo mondo che conosce, visto che per caratterizzare meglio quella moltitudine dice che dei Malavoglia “ce n’erano persino ad Ognina e ad Aci Castello” (dove risalta molto significativamente quel “persino”, visto che Ognina ed Aci Castello distano pochi chilometri da Aci Trezza).

6)    In questo modo Verga realizza quella “impersonalità” cui diceva di aspirare nella lettera al Farina, quella tecnica per cui “la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile” e l’opera “sembrerà essersi fatta da sé”, “senza serbare alcun punto di contatto col suo autore”.

I narratori nella prima pagina

7)    Se ora torniamo a Rosso Malpelo e procediamo nella lettura, possiamo non solo vedere come è considerato e trattato il ragazzo, ma anche riconoscere via via chi sono i narratori che narrano attraverso il discorso indiretto libero, possiamo cioè riconoscere che c’è, come è stato detto particolarmente per i Malavoglia, una narrazione corale:

Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.

Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi; nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. (Qui si avverte che sono la madre o la sorella che narrano)

Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, (qui ci pare di sentire la voce del padrone della cava) e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; (questi sembrano essere le parole dei minatorii) e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica (un’erba diffusa) per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perchè mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava. (qui si avverte che sono i paesani a narrare. E si potrebbe continuare).

 

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