Da Nedda a Rosso Malpelo
1) Nella
fase pre-verista, il patto narrativo è sempre tale per cui il narratore è
interno alla vicenda narrata (ne è partecipe o testimone). In Nedda
(1874) abbiamo un narratore
omnisciente, tutto esterno rispetto ai fatti e ai personaggi, che infatti non
appartengono al mondo, sociale e culturale, di Verga: la convenzione è
che il narratore, che fuma il sigaro in poltrona davanti al caminetto, ricorda
un altro fuoco, attorno a cui ballavano le raccoglitrici di olive (e quindi
comincia a narrare, senza dirci chiaramente come egli conosca la storia);
questo comporta un atteggiamento di
superiorità (paternalistico) nei confronti di quel mondo, che si esplica in commenti, giudizi moralistici,
magari attraverso una descrizione, un’esclamazione, un aggettivo (ad esempio,
la chiama la “povera ragazza” o la “povera madre”) ed un sottinteso
rapporto di complicità con il lettore, implicitamente riconosciuto delle stesso
livello del narratore, e chiamato a provarne gli stessi sentimenti, di commozione e di commiserazione per quel
mondo di derelitti.
2) La
vera novità narrativa compare con Rosso Malpelo (1878). Si tratta di
una novella straordinaria, di uno sconvolgente
capolavoro, sia per la
tecnica narrativa, sia per la
rappresentazione, assolutamente priva di elementi consolatori, di un mondo miserabile,
violento, sub-umano. Per chi non conoscesse la novella, si tratta della
vicenda di un ragazzo che lavora, per una miserissima paga, presso una cava di
rena ed è chiamato così perché ha i capelli rossi e questi, secondo una
credenza popolare, sono indice di cattiveria.
L’ “eclissi dell’autore” o
“artificio della regressione”
3) Leggiamo
l’incipit della novella:
Malpelo si
chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era
un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone.
Subito,
la frase iniziale ci lascia perplessi: dire che Malpelo ha i capelli rossi
perché è “malizioso e cattivo” è un’affermazione
assolutamente priva di logica, un’affermazione che dà per scontato un nesso
causale assurdo, proprio di una
mentalità ignorante e superstiziosa. Pertanto non può essere dell’autore, Verga, che è colto, non ignorante né
superstizioso. E dunque quell’affermazione
sarà propria del mondo cui appartiene il ragazzo, il mondo dei minatori e dei
popolani, ignoranti e superstiziosi. Ma non è detto, a margine
dell’affermazione, che così dicevano i minatori e i paesani. Si tratta del
cosiddetto “discorso indiretto libero”
(o “erlebte
Rede”, come lo chiamò Spitzer, ovvero “discorso rivissuto”): cioè non è un discorso diretto (dei
minatori, dei popolani) perché non è introdotto dalle virgolette; è
un discorso indiretto, ma non segnalato
dalle locuzioni che dovrebbero segnalarlo, del tipo “come dicevano”, “così
si diceva” e simili. La frase sta lì, secca e indiscutibile, è la verità
enunciata dal narratore, su cui l’autore Verga non interviene a giudicarla e a
contestarla. L’autore si è
“eclissato”, o è “regredito” al livello del mondo di cui si narra. Non è lui
che narra, sono gli stessi personaggi di quel mondo che narrano.
4) Se
poi confrontiamo quell’incipit con quei nessi causali assurdi – che
pertanto non possono essere dell’autore Verga – con un passo di Nedda, vediamo con chiarezza la
differenza. A un certo punto, poiché Nedda si rifiuta di portare la neonata
alla Ruota, si dice: “Le comari la
chiamavano sfacciata, perché non era
stata ipocrita e perché non era snaturata”. Qui la
spiegazione introdotta dai “perché” è proprio dell’autore Verga, che interviene
a ristabilire la verità, difendendo la scelta di Nedda dalle accuse delle
comari. E’ dunque ben diverso da
quell’assurdo “perché” che associa i capelli rossi di Malpelo alla cattiveria.
L’incipit de I Malavoglia
5) Guardate
anche l’incipit dei Malavoglia, il primo grande romanzo verista di Verga: “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi
come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina e ad
Aci Castello…”. Qui non c’è una
stortura logica, ma si avverte subito che chi sta narrando non è
l’autore Verga, ma qualcuno che
appartiene al mondo di cui si narra, qualcuno che per dire che un tempo dei
Malavoglia ce n’erano tanti non ha altri
termini di paragone che “i sassi della
strada vecchia di Trezza”, qualcuno cioè che non ha altri riferimenti
che il paese cui appartiene; qualcuno il
cui universo è ridotto al piccolo mondo che conosce, visto che per
caratterizzare meglio quella moltitudine dice che dei Malavoglia “ce n’erano persino ad Ognina e ad Aci Castello” (dove risalta molto
significativamente quel “persino”, visto che Ognina ed Aci
Castello distano pochi chilometri da Aci Trezza).
6) In
questo modo Verga realizza quella “impersonalità” cui diceva di aspirare nella
lettera al Farina, quella tecnica per cui “la
mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile” e l’opera “sembrerà essersi fatta da sé”, “senza
serbare alcun punto di contatto col suo autore”.
I narratori nella prima pagina
7) Se
ora torniamo a Rosso Malpelo e
procediamo nella lettura, possiamo non solo vedere come è considerato e
trattato il ragazzo, ma anche riconoscere
via via chi sono i narratori che narrano attraverso il discorso indiretto
libero, possiamo cioè riconoscere che
c’è, come è stato detto particolarmente per i Malavoglia, una narrazione corale:
Sicché
tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre,
col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di
battesimo.
Del
resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei
pochi soldi della settimana; e
siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei
soldi; nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la
ricevuta a scapaccioni. (Qui si avverte
che sono la madre o la sorella che narrano)
Però
il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per
Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, (qui ci pare di sentire la voce del padrone
della cava) e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano
coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero
un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al
mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio
la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a
rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane
di otto giorni, come fanno le bestie
sue pari; (questi sembrano essere
le parole dei minatorii) e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli
tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata.
Ei c’ingrassava, fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio,
senza osar di lagnarsi. Era
sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa,
e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica (un’erba diffusa) per tutto Monserrato e
la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo»,
e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per
carità e perchè mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava. (qui si avverte che sono i paesani a narrare.
E si potrebbe continuare).
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