domenica 20 settembre 2015

Paradiso: il canto di Giustiniano

Il canto VI del Paradiso
 
BOSCO-REGGIO, commento al Paradiso;
introduzione al canto VI.
 
La simmetria dei “sesti” canti nelle tre cantiche si può accettare, con l’avvertenza che l’accento batte sempre (che ci si riferisca alle condizioni di Firenze, dell’Italia o dell’Impero) sul male della lotta tra fazioni.
Qui il discorso si amplia con l’esaltazione della funzione provvidenziale dell’Impero: la storia tende verso quel punto (la plenitudo temporis di cui parla S. Paolo) in cui si attua la redenzione (il peccato universale è punito da un potere universale); dopodiché l’Impero mantiene quella funzione di guida del mondo (in concordia con la Chiesa) ereditata, senza soluzione di continuità, dal Sacro Romano Impero.
Ma perché a celebrare l’aquila è scelto Giustiniano, la cui sede non era stata Roma? Senz’altro perché autore di quel Corpus Iuris che fa sì che sopravviva l’unità giuridica, quando si spezza l’unità politica: e del resto l’aquila è simbolo non solo dell’Impero, ma anche della giustizia (e il valore del diritto romano è affermato anche in Pg. VI, quando si dice: “che val che Giustinian ti racconciasse il freno se la sella è vota?”).
Altra questione è se nel dire che l’aquila fu portata “contro al corso del ciel ” sia implicito un giudizio negativo (“contro natura”) verso Costantino. Certo, negativo fu l’andare a Bisanzio lasciando Roma al Pontefice (la “donazione” è ritenuta autentica); ma Costantino è fra i giusti che formano l’occhio dell’aquila nel cielo di Giove, e qui il ritorno nella Troade (da dove l’aquila era partita) sembra visto piuttosto come il compimento di un ciclo, come segno dell’universalità dell’Impero che spazia da est a ovest.
Con stacco narrativo (dal tono esaltato a quello dolente) viene poi evocata la figura di Romeo[18]: un piccolo personaggio (e una piccola storia) accanto a uno grande (la giustizia di Dio uguaglia tutti). Ammenda di Giustiniano per il suo atteggiamento nei confronti di Belisario[19], analogo a quello che, secondo la leggenda, Raimondo di Provenza avrebbe avuto nei confronti di Romeo? O, semplicemente, altro personaggio in cui Dante commisera il suo stesso destino di esule? Destino simile, peraltro, a quello di Pier della Vigna, che, come Romeo e come Dante, non aveva accettato l’umiliazione di dover rendere conto del suo operato. I provenzali sono stati puniti; e così lo saranno i fiorentini.
 
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[18]Il personaggio era storico (ministro di Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, fino alla sua morte, nel 1250); ma Dante dà credito alla leggenda di un umile pellegrino (“romeo”), accolto nella corte, divenuto ministro, calunniato dai cortigiani, ripartito com’era arrivato.
 
[19]A un certo punto era stato emarginato dall’imperatore, perché troppo potente, e poi riabilitato; ma non si sa se Dante fosse a conoscenza della leggenda secondo cui sarebbe stato fatto accecare e ridotto a morire in completa miseria.

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