martedì 1 settembre 2015

Inferno: il canto di Ulisse

Ulisse nel XXVI dell’Inferno
 
BOSCO-REGGIO, commento all’Inferno;
introduzione al canto.
 
Il peccato sembra essere collegato ad un uso fraudolento della parola (per ingannare, a fine di male): e il contrappasso sembra consistere non solo nell’essere coperti dalla fiamma (cosiccome loro agirono per “vie coperte”), ma anche nella difficoltà di parlare (la fiamma è vista come una lingua che parla a fatica).
Quanto a Ulisse, è evidente dal testo che Dante (che non conosceva il greco) non conosceva né l’Odissea  né i riassunti della stessa; conosceva il personaggio tramite gli autori latini (Cicerone, Orazio, Seneca) che lo presentano come astuto e “desideroso di conoscenza”. Ma quella sulla sua fine è invenzione tutta di Dante: sembra risentire della letteratura cortese d’avventura (quella di Ulisse può sembrare la “ricerca” del cavaliere; e ci sono termini tecnico-cavallereschi come “perduto” e “sottrasse”); e forse c’è l’eco dell’impresa dei fratelli Vivaldi, che nel 1291 partirono per l’occidente e non tornarono mai più. Per altro non si può non pensare che Dante senta un’affinità con l’eroe che rinuncia alla pietas familiare (come lui esule) per una meta più alta.
Certamente superata l’interpretazione romantica che faceva di Ulisse un eroe della ribellione (e del libero pensiero), che va oltre le colonne d’Ercole perché non tollera limitazioni: nell’“orazion picciola” non ci sono riferimenti a violazioni o ribellioni. Ma anche da rifiutarsi è l’interpretazione che collega il viaggio (e il suo esito) al peccato per il quale Ulisse è punito (la frode attraverso la parola sarebbe attuata a danno dei compagni  con l’“orazion picciola”: ma come ci si può vedere la frode, se l’unico argomento usato è l’invito a spendere la poca vita residua in un rischio  estremo?). Si deve invece distinguere il peccato per il quale Ulisse è punito, dalla tragedia implicata dal viaggio. Il naufragio è necessario perché il volo è “folle”, ovvero non sostenuto dalla grazia di Dio (come indicano chiaramente i rilievi sull’uso della parola “folle” nella Commedia [7]); il varcare i limiti delle colonne d’Ercole è simbolo della presunzione della ragione di poter tutto conoscere prima della rivelazione[8]. Né in Ulisse è punita la curiositas  (che Cicerone attribuisce agli uomini frivoli), perché tutta la tradizione classica gli attribuisce un nobile amore di sapienza; vuole raggiungere quella conoscenza cui l’uomo è naturalmente (non colpevolmente) inclinato; la sua tragedia è la tragedia dei grandi pagani, per cui Virgilio dirà, malinconicamente, in Pg. III, 38-39: “ma se possuto aveste saper tutto, mestier non era parturir Maria”.

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[7]Valga, per tutti, il “temo che la venuta non sia folle ” di If. II 35, dove appare altresì chiaro come il viaggio di Dante sia compimento di quello di Ulisse; a Dante, sorretto dalla Grazia, è concesso di vedere (la “montagna bruna”, l’altro regno) ciò che al pagano è vietato.
 
[8]E’ stato M. Fubini, in uno studio del 1941, a chiarire in questi termini la questione.
 
 

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