Machiavelli teorico dello Stato borghese
M. HORKHEIMER, Gli inizi della filosofia borghese
della storia,
Einaudi 1978, pp. 7-13 (in M. I., 4, pp. 736-740).
Nel suo oscillare fra principato e repubblica, nel suo
ammaestrare sia i detentori del potere sia gli oppositori, Machiavelli
sembrerebbe indifferente ai risultati, appassionato unicamente ai meccanismi
della lotta (per la conquista e per la difesa del potere). In realtà, ciò che
gli interessa è la formazione di una saldo potere borghese, che possa garantire
lo sviluppo delle forze e delle attività economiche.
E’ infatti chiaro dalle sue opere – si veda il finale
del cap. XXI del Principe (1); e Discorsi I, LV (2) – che è giunto alla conclusione
che “dal dispiegarsi degli scambi, dalla diffusione dell’abilità borghese
nel commercio e nell’artigianato, dal libero gioco delle forze economiche,
dipende il benessere della totalità”. Lo stesso concetto di “virtù”
va compreso in questo contesto: non indica più lo spirito statuale e guerriero
del romano, e nemmeno l’umiltà cristiana, ma l’insieme delle qualità che
attengono alla laboriosità e alla capacità di guadagno.
Quindi, non in astratto “il fine giustifica i mezzi”,
ma quel fine concreto, nobile (la creazione della migliore comunità possibile),
chiede la subordinazione di ogni scrupolo (3).
L’errore di Machiavelli consisterebbe nell’aver
giustificato, anche per il passato e per il futuro, strumenti di dominio (di
conquista del potere) che erano condizione irrinunciabile per l’ascesa della
borghesia nel suo tempo e nel suo paese (quando si trattava di spazzare via i “gentiluomini”,
ovvero la vecchia nobiltà, i cui interessi erano contrari alla costituzione di
un forte potere centrale, funzionale allo sviluppo borghese).
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1) “(Il principe) debbe animare li sua
cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii loro, e nella mercanzia
e nella agricoltura... e che quello non tema di ornare le sua possessione per
timore che le gli sieno tolte, e quell’altro di aprire uno traffico per paura
delle taglie; ma debbe preparare premii a chi vuol fare queste cose...”
2) “... dico che gentiluomini sono chiamati
quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni abbondantemente,
senza avere cura alcuna o di coltivazione o di altra necessaria fatica a
vivere. Questi tali sono perniziosi in ogni repubblica...”; “(chi vuol fondare una repubblica) dove sono assai gentiluomini... non
lo può fare se prima non gli spegne tutti”.
3) Questa tesi fa evidentemente il paio con quella di Chabod, che
vede la nobiltà del fine nella fondazione dello Stato nazionale.
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