Montale: l’opera poetica
La vita
Di famiglia
agiata (il padre era titolare di una ditta di prodotti chimici), nasce a Genova
nel 1896. Da ragazzo passava le vacanze estive a Monterosso,
nella Cinque Terre (1), dove il padre possedeva una villa.
La famiglia lo
indirizza agli studi tecnici (si diploma in ragionieria), ma,
come Svevo, coltiva da autodidatta (ma anche con l’aiuto della sorella, che si
era iscritta alla facoltà di Lettere) la sua passione per la letteratura. Altra
passione, che gli restò per tutta la vita e alla quale dedicò
degli studi giovanili, fu quella per il canto.
Partecipa alla
prima guerra mondiale. Nel dopo guerra entra in contatto con il gruppo degli ntellettuali
torinesi che si riunivano intorno a Gobetti, nel 1925 firma il manifesto
degli intellettuali antifascisti promosso da Croce.
Attraverso Bobi
Bazlen conosce ed apprezza l’opera di Svevo (che, riconoscente, lo ospita a
Trieste nel 1926).
Nel 1927 si
trasferisce a Firenze dove viene assunto come redattore della casa editrice
Bemporad. Nel 1929 è nominato direttore della biblioteca del Gabinetto
letterario Viesseux (ma verrà licenziato nel 1938 perchè non iscritto al
partito fascista). Dopo la seconda guerra mondiale aderisce al Partito
d’Azione, da cui però si dimise dopo poco tempo.
Dal 1946 comincia
la sua attività di redattore presso il Corriere della Sera.
Nel 1967 viene
nominato senatore a vita.
Nel 1975 riceve
il Nobel per la letteratura.
Muore nel 1981.
Ossi di seppia
Gli Ossi di
seppia sono pubblicati nel 1925 e, dopo una poesia
introduttiva (In limine), si suddividono in quattro sezioni (Movimenti,
Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi e ombre).
Il titolo
rimanda, ambiguamente, sia al motivo del mare da cui l’osso di seppia proviene
(e il mare è il luogo panico della felicità, il luogo della natura
primigenia e indistinta) (2), sia al motivo della terra “desolata” ove
si posa quel relitto, quanto mai inaridito, della vita organica (e la
terra polverosa e seccata dal sole è il luogo della privazione e della
negatività, ed è il paesaggio che fa da sfondo alle poesie degli Ossi,
vero e proprio “correlativo oggettivo” dello stato d’animo del poeta) (3).
I precedenti sono
senz’altro il D’Annunzio di Alcyone (della necessità di
“attraversare D’Annunzio” per i poeti della sua generazione ha parlato lo
stesso Montale), Pascoli e i crepuscolari (Gozzano in particolar modo, sulla
cui lingua poetica Montale faceva un’osservazione che vale senz’altro anche per
la propria: “fu il primo a far scoccare scintille accostando l’aulico al
prosaico”). Di tali ascendenze dà conto una poesia come I limoni,
dove la polemica nei confronti dei “poeti laureati” e delle “piante
dai nomi poco usati” in nome di una vegetazione più comune (“erbosi
fossi”, “ciuffi delle canne”, gli stessi limoni) richiama la
predilezione pascoliana e poi crepuscolare per le “piccole cose” della
quotidianità (e dunque per piante estranee alla tradizione poetica, quali il “trifoglio”
di cui parla Pascoli o “il basilico, l’aglio e la cedrina” evocate da
Gozzano).
Il tema dominante
è quello, già accennato, della opposizione mare-terra (che è anche
opposizione campagna-città, infanzia-maturità). Il distacco dal mare è inevitabile,
la vita è sulla terra, ma è una vita sentita come falsa, in autentica (4), in cui non sono individuabili un
senso e una prospettiva; eppure anche sulla terra è possibile intravvedere,
di tanto in tanto, quasi per miracolo, una via d’uscita, un “varco”, che ci
salvi dalla falsità di ciò che appare, che ci metta in contatto, anche solo per
un momento, con una dimensione più vera (è il miracolo consentito dai
limoni, o dal girasole, o, ne La casa dei doganieri della raccolta
successiva, dalla luce della petroliera che s’intravvede all’orizzonte).
La lingua e
il “correlativo oggettivo”
Sul piano della
lingua abbiamo una straordinaria mescolanza di lingua quotidiana (“pozzanghere”,
“scalcinato muro”, “cocci aguzzi di bottiglia”) e parole
inusuali, perché letterarie (in Gloria del disteso mezzogiorno:
“occaso”, “compita”; in Cigola la carrucola nel pozzo “atro
fondo”) (5) o tecnicamente precise (“croco”, “veccia”)
o recuperate etimologicamente (“divertite passioni”) o
semplicemente rare (“cimase”, “pomario”). Ricorrente è
anche l’uso di prefissi inconsueti, soprattutto per forme verbali (“incartocciarsi”,
“disbrogliare”, “disvela”). Ne risulta, per fare riferimento, ma
in senso rovesciato, alla poetica leopardiana, una poesia di
“termini” (che indicano oggetti precisamente determinati) e non di
“parole” (che comunicano sensazioni indefinite, secondo la definizione, e
predilezione, di Leopardi); o anche, per usare una terminologia anceschiana,
una “poetica delle cose”, ovvero una poesia colma di oggetti,
nominati con precisione, che si contrappone alla “poetica delle parole”
(più propria del simbolismo) che invece si serve di accostamenti analogici che
evocano significati imprevisti, originali, non definiti né definibili.
Tali oggetti sono
gli emblemi (o meglio, per usare l’espressione tratta da Eliot, il “correlativo
oggettivo”) di un disagio esistenziale (di un male di vivere: “il rivo
strozzato che gorgoglia”, “l’incartocciarsi della foglia riarsa”, “il
cavallo stramazzato”; di una vita impedita: “una muraglia che ha in cima
cocci aguzzi di bottiglia”) (6) da cui vanamente si cerca una via d’uscita
(“l’anello che non tiene”, “il filo da disbrogliare”).
La metrica
Per quanto
riguarda la metrica, non abbiamo il verso assolutamente libero (com’era invece
nel primo Ungaretti, che partiva dalla dissoluzione del verso tradizionale per
attingere all’assoluto tramite la forza della parola pura), ma abbiamo, pur con
numerosissime infrazioni e irregolarità, endecasillabi (e settenari), rime,
strofe (si vedano le due quartine di Spesso il male di vivere, o le
tre di Non chiederci la parola). L’uso della rima è quanto mai vario:
c’è una predilezione per la rima ipermetra (amico-canicola in Non
chiederci la parola; miracolo-ubriaco in Forse un mattino andando;
fuggi-ruggine in In limine), ma ci sono anche rime al mezzo
(laureati-usati, dolcezza-ricchezza, indaga-dilaga ne I limoni), consonanze
(sempre ne I limoni: piante-acanti) e assonanze (passim).
Notevole è anche la ricerca di suoni aspri (si veda il ricorrere
insistito di parole con la doppia sibilante ne I limoni: o
l’accavallarsi di consonanti dure in Meriggiare pallido e assorto): ciò
ricorda le “rime aspre e chiocce” del Dante delle Petrose
ed è senz’altro una sorta di “correlativo fonetico” di quella
desolazione, sentimentale e conoscitiva, al centro della problematica
montaliana.
Le occasioni
La raccolta Le
occasioni è pubblicata nel 1939 (e come la raccolta precedente,
anche questa è divisa in quattro sezioni, di cui solo la seconda ha un titolo: Mottetti).
Il titolo della raccolta allude a una massima di Goethe (secondo cui le poesie
sono sempre “d’occasione”), ma più precisamente le occasioni sono quegli
eventi che sollecitano nel poeta il pensiero della possibilità di rompere la
“campana di vetro” entro cui si sente racchiuso e di riconoscere, nel mondo
circostante, nelle cose e negli accidenti, una prospettiva di senso. E’ una
possibilità affidata alla memoria, che cerca, invano, di tenere
saldo il filo che lega il presente al passato (così nella Casa dei doganieri,
ma anche in Dora Markus o Non recidere, forbice, quel volto); ma
ancor più è affidata alla figura femminile (qui più presente che
negli Ossi, e più chiaramente l’interlocutrice diretta cui il poeta si
rivolge con il “tu”), intermediaria fra le due dimensioni (fisica e
metafisica), capace di resistere al male, novella Beatrice che guida alla
salvezza.
Clizia
La raccolta è
dedicata ad Irma Brandeis (7), nella quale è identificabile Clizia,
la donna-angelo cui è attribuita questa funzione salvifica. Essa vive in una
dialettica di presenza e assenza (e dunque di salvezza e dannazione, per
chi l’ha conosciuta): ma anche assente (come è per lo più) (8), è presente
nella memoria, garante della possibilità di una vita diversa (9). E’ lei la
protagonista di buona parte dei Mottetti ed è lei la donna di Nuove
stanze, capace di opporre i suoi “occhi d’acciaio” allo “specchio
ustorio che accieca le pedine”. Come Clizia, è nominata solo nella Primavera
hitleriana (della raccolta successiva, La bufera e altro): il nome è
desunto dal mito narrato da Ovidio, secondo cui la fanciulla, abbandonata dal Sole
di cui era innamorata, si trasformò in eliotropio o girasole (e
dunque al Sole resterà sempre fedele, essendo il fiore sempre rivolto verso di
lui). L’allegoria è trasparente: Clizia è devota alla luce, dunque ad una
verità sopra-sensibile cui conduce chi si affida a lei.
Plurilinguismo e allegoria
Il recupero di
Dante e dello stilnovismo è evidente, anche se per il nostro la salvezza non
ha nulla a che fare con una visione provvidenziale o comunque religiosa, ma
piuttosto con una ragione laica e umanistica, capace di dare senso e valore
alla vita. Peraltro l’influsso di Dante è riconoscibile anche in altri
aspetti: tanto nel “plurilinguismo” (si pensi a quella mescolanza di
parole inusuali e parole quotidiane, di cui si diceva a proposito degli Ossi),
quanto nell’adozione dell’allegoria come figura (tecnica) in
grado di mettere in relazione gli elementi della realtà fisica (e individuale)
con una dimensione, ed una significazione, metafisica (e universale). Per
quanto riguarda quest’ultimo aspetto, si può dire che è l’uso più vistoso e
sistematico del “correlativo oggettivo” di ascendenza eliottiana che assume le
valenze dell’allegoria.
Di allegoria più
che di simbolismo si deve infatti
parlare. Mentre il simbolismo si affida ad una intuizione istantanea che
intravede una verità più profonda associando analogicamente immagini e
sensazioni diverse, l’allegoria mette in campo oggetti e vicende, che
appartengono al mondo fisico e quotidiano, di cui si narra con precisione e
continuità, lasciando intravedere dietro il significato letterale un altro e
più universale significato (si veda in Nuove stanze il significato
allegorico del gioco degli scacchi, della finestra che si apre, della stessa
Clizia).
Rispetto agli Ossi,
il brullo paesaggio naturale tende a far posto ad interni (Nuove stanze,
la seconda parte di Dora Markus) e a scenari cittadini (la stazione di Addii,
fischi nel buio, i portici di La speranza di pure rivederti).
Per la lingua e
la metrica valgono le osservazioni fatte per gli Ossi, anche se la
lingua appare ora più elevata e meno presente è l’elemento prosastico e
quotidiano.
La bufera e altro: da Clizia a Volpe
Nel 1956 è
pubblicata La bufera ed altro (il titolo allude allo sconvolgimento
della guerra, evento che peraltro, nella sua tragicità, non fa che
confermare il pessimismo montaliano nei confronti della storia). Le sette
sezioni (10) che la compongono sono disposte in ordine cronologico, ad
eccezione della quarta (Flashes e dediche).
Ritorna la figura
di Clizia, ma si rivela illusoria la speranza che possa sopravvivere (e farsi
portatrice della “salvezza per tutti”) (11) in un mondo che, nella
catastrofe della guerra e nelle feroci contrapposizioni del dopoguerra (le
contrapposizioni fra le due chiese, DC e PCI) (12), si rivela sempre
più sordo ai valori da lei rappresentati. A Clizia, come alle Grazie
foscoliane, non resta che la fuga nell’”oltrecielo”. Il suo posto è preso
da un’altra figura femminile, Volpe (13), l’anti-Beatrice, donna concreta e passionale, che può
garantire solo una salvezza “privata” per il poeta, non per “tutti”, come
invece era annunciato da Clizia.
A Volpe sono
associate allegorie di animali (l’anguilla, il gallo cedrone) che
indicano la strada della salvezza non nella cultura o nei valori cristiani
(in questa raccolta, a differenza delle prime due, Clizia diventa anche
Cristofora) (14), ma nel fango (e nella vitalità) dell’eros e degli
istinti. L’anguilla in particolare (si veda l’omonima poesia)
diventa l’emblema di questa celebrazione della pura forza biologica, “sorella”
di Clizia, ma testimone di una speranza che si annida in basso, nel
terreno, non in alto, nel cielo. L’anguilla, che risale dall’acqua e dalla
melma alle vette degli Appennini, sembra così riunire i due termini,
contrapposti negli Ossi, del mare e della terra, dell’istintualità
vitale e della resistenza etica.
Ma una salvezza
solo privata equivale a una sconfitta, ed ecco l’ultima sezione (Conclusioni
provvisorie), composta di due sole poesie, in cui nella prima (Piccolo
testamento) si preannuncia la catastrofe del mondo occidentale, cui
resiste soltanto, flebile ma tenace, la fiammella della poesia; e nella
seconda (Il sogno del prigioniero) si denuncia la condizione di
prigionia in cui si vive (è una condizione esistenziale, a prescindere da
riferimenti a lager nazisti o gulag staliniani) ed in cui si può solo sognare
una vita diversa (“il mio sogno di te non è finito”).
La svolta di Satura
Satura è pubblicata nel 1971, e raccoglie poesie
scritte dopo il 1964 (quindi dopo un lungo silenzio, coincidente con il
periodo del boom economico e con l’affermarsi della moderna società di massa).
Sono ancora quattro sezioni: Xenia I e Xenia II (il
termine indicava in latino i doni che si fanno ad un ospite nel momento in cui
abbandona la casa che lo ha accolto; le poesie sono infatti “donate”, come
un’offerta votiva, alla moglie morta. Drusilla Tanzi, indicata col senhal
di Mosca); Satura I e Satura II, in cui prevalgono
temi polemici e parodici (il titolo, che è anche quello della raccolta, indica
sia l’intento satirico dei componimenti, sia, nel suo significato etimologico
di satura lanx (15), la
varietà degli argomenti e dei motivi ispiratori).
La novità (una vera
e propria svolta) consiste nell’abbassamento del tono, sia nelle
scelte tematiche che lessicali; è una poesia che tende alla prosa,
che sembra rinunciare ad ogni ricercatezza retorica e che, tematicamente,
prende spunto da episodi della quotidianità, privati, o comunque di cronaca
più che di storia. Si veda in Piove la chiara parodia
de La pioggia nel pineto di dannunziana memoria o ne La poesia
l’effetto dissacratorio ottenuto usando facili rime baciate
(questione-ispirazione, produce-conduce, surgelante-importante); ma si
veda anche la polemica Lettera a Malvolio, in cui Montale rivendica la
propria coerenza intellettuale ed accusa l’interlocutore-antagonista (Pasolini)
di opportunismo.
Caratteristica
è anche l’autocitazione parodica, con cui l’autore riprende,
ironicamente, motivi e oggetti di sue poesie precedenti (c’è quasi una
negazione del valore simbolico e cognitivo che quegli elementi possedevano
originariamente; e comunque, certamente, un sorridere sulla presunzione
della propria poesia, ma anche, ambiguamente, un voler riproporre, su un
registro più basso, la dignità e la coerenza del proprio percorso
intellettuale: si veda in Botta e risposta I la molteplicità di
riferimenti a cose e persone degli Ossi e delle Occasioni).
Mosca
Quanto a Mosca,
si tratta di una figura femminile ben diversa sia da Clizia (di cui non
possiede la valenza divina e salvifica) che da Volpe (di cui non possiede la
vitalità quasi animalesca): la sua capacità è quella di vedere (pur essendo
le sue pupille “tanto offuscate”) dietro il velo della realtà che
appare, di riconoscere e demistificare gli inganni delle ideologie, e dunque di
guidare, col suo solido buon senso, il poeta stesso nel groviglio del mondo.
Dunque si potrebbe dire che la figura di Clizia sta a quella di Mosca come
la poesia delle raccolte precedenti (con il suo tono alto, i suoi rimandi
metafisici, le sue allegorie) sta alla poesia di Satura (con il suo tono
basso, che non vagheggia grandi valori, ma che tuttavia non rinuncia ad
esistere e a pronunciare qualche parola di verità).
L’ultimo Montale: i Diari
La produzione
dell’ultimo Montale (Diario del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni,
Altri versi, e poi, pubblicato dopo la morte, Diario postumo)
si colloca sulla linea di Satura. Anzi, si ha una radicalizzazione di
quell’abbassamento di tono, di quella tendenza prosastica e desublimante.
Sul piano stilistico si tratta di componimenti quasi sempre privi di interne
suddivisioni, a cominciare da quelle determinate dalla punteggiatura (spesso
assente). Sul piano tematico tendono a scomparire sia la molteplicità degli
oggetti, sia quei momenti di sentenziosità che ancora permanevano in Satura;
è una poesia di pura aderenza alla quotidianità spicciola, ai limiti della
cronaca più dimessa.
La carriera
poetica di Montale sembra dunque concludersi con uno scacco.
1)
Il rilievo è significativo, perché è quel paesaggio
sul mare che fa da sfondo alle poesie di Ossi di seppia.
2) Si veda Potessi almeno costringere (della
sezione Mediterraneo): “dato mi fosse accordare / alle tue voci il
mio balbo parlare / io che sognava rapirti / le salmastre parole“.
3) Si pensi al “polveroso prato” e allo “scalcinato
muro” di Non chiederci la parola.
4) Eʼ lui stesso che dice, in
un’intervista immaginaria, "mi pareva di vivere sotto a una campana di
vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo
sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione
assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, la fine dell’inganno del mondo
come rappresentazione.".
5) Ma anche nelle Occasioni (“belletta“, in Non recidere
forbice quel volto).
6) O di una vita priva di certezze, di punti di riferimento; vedi “la
bussola” impazzita e “la banderuola affumicata” che gira senza
pietà, nella Casa dei doganieri (Le occasioni).
7) Un’ebrea americana, italianista, conosciuta da
Montale a Firenze, che dovette tornare in America a seguito delle persecuzioni
razziali.
8) Ad esempio, vedi Il balcone.
9) Tant’è che per alcuni più che di “donna angelo“ si
deve parlare di visiting angel (l’espressione è stata usata dallo stesso
Montale nella lettera a Glauco Cambon del gennaio del 1962), ovvero di un
angelo della visitazione che agisce soltanto in assenza.
10) Nell’ordine Finisterre (composte fra il
1940 e il 1942, avrebbero dovute figurare come appendice delle Occasioni),
Dopo, Intermezzo, Flshese e dediche, Silvae, Madrigali privati, Conclusioni
provvisorie.
11) Così nella Primavera hitleriana.
12) A questo proposito va ricordato che la
pubblicazione della raccolta suscitò polemiche da parte della critica di
sinistra, che rimproverava a Montale, ritenuto una bandiera dell’antifascismo,
il mancato schieramento nel dopoguerra, il suo disimpegno ideologico. Montale
rispose dichiarando che oggetto della sua poesia era la “totale disarmonia
con la realtà” e che in lui “le ragioni di infelicità andavano al di là
e al di fuori” del fascismo.
13) La poetessa Maria Luisa Spaziani, amata dal poeta.
14) Così è chiamata nella lettera allo studioso Glauco
Cambon (del gennaio del 1962) in cui commentava la poesia Giorno e notte.
15) Piatto ricolmo (s’intende, di vari cibi, cosiccome
la satura era una rappresentazione composta di varie performances).
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