Il pensiero politico in Dante e in Marsilio da Padova
SALINARI-RICCI, vol. I
Bari, 1991, pp. 366-67.
Anche se il pensiero politico di Dante anticipa
l’impostazione moderna, in quanto teorizza l’autonomia del potere politico
da quello religioso, si tratta pur sempre di una concezione ancora interna
al Medioevo, fondata com’è sull’idea, tutta medievale, dei due poteri - Impero
e Papato - che sono universali e provengono da Dio.
Di fronte alla realtà, che si va storicamente
affermando, degli Stati nazionali, Dante non ne capisce la portata
rivoluzionaria (anzi, vede in essi un segno della degenerazione maligna) e
reagisce con la grande nostalgia-utopia dei due poteri che, in armonia, garantiscono
il bene dell’uomo rispettivamente nella città terrena e nella città celeste.
Decisamente innovativa è invece l’impostazione di Marsilio
da Padova (1275/80 - 1343?) che, nel suo Defensor pacis
(frutto dell’esperienza fatta durante i soggiorni in Francia, ove è rimasto
colpito dalla monarchia di Filippo il Bello (1); ma l’occasione fu la
contesa fra Ludovico il Bavaro e Giovanni XXII, che l’aveva
scomunicato), attacca decisamente sia la pretesa di “universalità” dell’Impero
sia, soprattutto, quella di giurisdizione separata avanzata dalla Chiesa,
arrivando a sostenere l’origine naturale, umana e non divina, della società
e dello Stato: l’unica fonte della legge è il popolo (la cui volontà
è rivelatrice di quella divina), e solo da questo deriva il potere dello Stato,
che deve pertanto potersi esercitare su tutti i cittadini, compresi gli
ecclesiastici. La Chiesa quindi viene ridotta all’ordine strettamente
spirituale (cioè, all’amministrazione dei sacramenti), le viene negato
qualunque potere temporale; anche i suoi beni, provenienti da donatori,
appartengono allo Stato e sono pertanto soggetti alle imposte.
Peraltro, questa logica del potere dal basso, viene
applicata da Marsilio anche al potere interno alla Chiesa: è al Concilio dei
vescovi, e non al Papa, che spetta di dirigere, sul piano pratico e dottrinale,
la comunità dei fedeli.
Per quanto riguarda il rapporto fra i due poteri (del Papa e dell'Imperatore), Dante accoglie la cosiddetta teoria dei due Soli (l'espressione è usata da Marco Lombardo in Pg. XVI, vv. 105-108), secondo cui entrambi i poteri derivano direttamente da Dio ed hanno come fine - essendo l'uomo una creatura composta da una parte corruttibile, il corpo, e da una incorruttibile, l'anima - rispettivamente la felicità terrena (da conseguirsi sotto la guida dell'Imperatore e usando gli insegnamenti della ragione) e la beatitudine eterna (da conseguirsi sotto la guida del Papa e usando gli insegnamenti della fede); tuttavia l'Imperatore deve riservare al Papa quella stessa riverenza che un figlio primogenito riserva al padre. Tutto ciò è teorizzato in Monarchia III, XV. Tuttavia in Monarchia III, IV 18, Dante aveva accolto la teoria del sole (Papa) e della luna (Imperatore), pur sostenendo che la luna ha luce propria, non deriva dal sole
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1) Sintomatico il suo contrasto con Bonifacio VIII,
fiero sostenitore della concezione teocratica: la tassazione che Filippo
vuole imporre al clero, comporta la teorizzazione dell’autonomia e pienezza del
potere politico (anche non imperiale); la risposta papale (1302: bolla Unam
Sanctam) riafferma la superiorità e universalismo della Chiesa. La
conclusione sarà l’oltraggio di Anagni (una spedizione comandata da Nogaret
e Sciarra Colonna cattura il papa ad Anagni, e Sciarra lo schiaffeggia).
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