Inettitudine
ed ebraismo in Svevo
G. DEBENEDETTI, Svevo
e Schmitz (1929),
in Personaggi e
destino,
ed. Il Saggiatore (1977),
pp. 49-92.
L'inetto è generato da uno scompenso fra
l'orientamento (il progetto) che l'individuo dà alla propria vita e la curva
che poi effettivamente la vita descrive: incarna questo difetto, questo errore
di calcolo; agisce come i bambini, ai quali il meccanismo associativo non
ancora esercitato impedisce di raggiungere col tatto gli oggetti percepiti con
la vista. E' una tara congenita e di cui non si è responsabili, ma rimorde e fa
soffrire come una colpa.
Zeno contraddice questa figura solo apparentemente; il
successo gli arride senza merito; anche lui non sa cogliere l'oggetto, ma in
compenso se ne trova tra le mani un altro, non cercato, che è proprio quello buono.
Le due caratteristiche di fondo dell'inetto sono
queste:
1) è un eterno adolescente (vedi Zeno che non si è mai
laureato) per il quale la vita resta sempre un indecifrabile enigma, incapace
di acquisire una reale esperienza (sentimentale, non solo mentale) dagli
smacchi subiti;
2) per sopravvivere, malgrado questa impossibilità di
vivere come gli altri, si è creato un rifugio dove nascondere il capo: la
presunzione di valere di più nell'ambito della produzione spirituale (così si
rivalgono i "letterati" Alfonso ed Emilio; meno chiaro per Zeno).
Tale figura di inetto non è altro che la proiezione
(inconfessata) della diversità ebraica. Weininger definisce infatti
l'ebreo come il diseredato (privo) di ogni felice istinto del vivere;
femminilmente passivo (analogamente, del resto, è definito Emilio rispetto al
Balli).
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