martedì 9 giugno 2015

Inettitudine ed ebraismo in Svevo


Inettitudine ed ebraismo in Svevo

G. DEBENEDETTI, Svevo e Schmitz (1929),
in Personaggi e destino,
ed. Il Saggiatore (1977), pp. 49-92.

 
L'inetto è generato da uno scompenso fra l'orientamento (il progetto) che l'individuo dà alla propria vita e la curva che poi effettivamente la vita descrive: incarna questo difetto, questo errore di calcolo; agisce come i bambini, ai quali il meccanismo associativo non ancora esercitato impedisce di raggiungere col tatto gli oggetti percepiti con la vista. E' una tara congenita e di cui non si è responsabili, ma rimorde e fa soffrire come una colpa.

Zeno contraddice questa figura solo apparentemente; il successo gli arride senza merito; anche lui non sa cogliere l'oggetto, ma in compenso se ne trova tra le mani un altro, non cercato, che è proprio quello buono.

Le due caratteristiche di fondo dell'inetto sono queste:

1) è un eterno adolescente (vedi Zeno che non si è mai laureato) per il quale la vita resta sempre un indecifrabile enigma, incapace di acquisire una reale esperienza (sentimentale, non solo mentale) dagli smacchi subiti;

2) per sopravvivere, malgrado questa impossibilità di vivere come gli altri, si è creato un rifugio dove nascondere il capo: la presunzione di valere di più nell'ambito della produzione spirituale (così si rivalgono i "letterati" Alfonso ed Emilio; meno chiaro per Zeno).

Tale figura di inetto non è altro che la proiezione (inconfessata) della diversità ebraica. Weininger definisce infatti l'ebreo come il diseredato (privo) di ogni felice istinto del vivere; femminilmente passivo (analogamente, del resto, è definito Emilio rispetto al Balli).

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