giovedì 4 giugno 2015

La poesia crepuscolare


Il crepuscolarismo

 

Il termine (“poeta crepuscolare”) comparve per la prima volta sulla “Voce”, in un articolo di E. Cecchi dedicato a Gozzano (12/8/1909); l’anno dopo (10/9/1910) usciva su “La Stampa” un articolo di G. A. Borgese (dal titolo Poesia crepuscolare), in cui recensiva poesie di Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves, Marino Moretti (e scriveva, significativamente: “dopo le Laudi e i Poemetti, la poesia italiana si è spenta. Si spegne infatti, ma in un mite e lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte”).

I modelli sono, per un verso i tardi e minori simbolisti franco-belgi (Laforgue, Jammes, Maeterlinck, Rodenbach), la cui poesia si risolve in un morboso ripiegamento interiore, correlato ad un sentimento di malattia (fisica e morale), di impotenza e insufficienza alla vita; dall’altro, tanto il D’Annunzio del Poema Paradisiaco (con quei languori da super-uomo sconfitto, con quell’idoleggiamento dei buoni sentimenti e con quel corrispondente tono dimesso), quanto il Pascoli poeta delle piccole cose (e non si potrà non notare come quella sua estensione del campo del poetabile, intesa ad accogliere “il trifoglio accanto alla rosa”, sia portata ad estreme conseguenze: Gozzano accoglie “il basilico, l’aglio, la cedrina”). (1)

E’ quindi una poesia malinconica e lacrimevole, che giunge spesso ad una autocommiserazione compiaciuta, che predilige toni smorzati, anti-eloquenti, e che ha situazioni, oggetti, luoghi topici. Lo dichiara Govoni: “Ho sempre amato le cose tristi, la musica girovaga, i canti d’amore cantati nelle osterie, le preghiere delle suore, i mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni malinconici pieni di addii, ecc .”; e lo conferma Gozzano, quando rappresenta quegli interni piccolo-borghesi, squallidi e trasandati (l’opposto dei raffinati ambienti dannunziani), arredati con “le buone cose di pessimo gusto” (tale è il salotto di Nonna Speranza: “Loreto impagliato ed il busto di Alfieri, di Napoleone / i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto) / il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, / un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, / gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco, / Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi ”).

Il rifiuto di una poesia “vaticinante” ed eloquente (“solare”, com’era quella della linea Carducci-D’Annunzio) trapassa in vergogna della poesia (Gozzano: “Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!”), sfiducia nelle sue funzioni (emblematico il titolo della raccolta di Moretti: Poesie scritte col lapis), crisi d’identità dello stesso poeta (Corazzini: “Perché tu mi dici poeta? / Io non sono un poeta / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange ”; Palazzeschi: “Sono forse un poeta? / No, certo. / Non scrive che una parola, ben strana, / la penna dell’anima mia: / 'follia'”).

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1) Di Gozzano dirà Montale che fu “il primo che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico col prosaico ”, in quanto “fondò la sua poesia sull’urto, o choc, di una materia psicologicamente povera, frusta, apparentemente adatta ai soli toni minori, con una sostanza verbale ricca, gioiosa, estremamente compiaciuta di sé ”.

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