Il
crepuscolarismo
Il termine (“poeta crepuscolare”) comparve per la
prima volta sulla “Voce”, in un
articolo di E. Cecchi dedicato a
Gozzano (12/8/1909); l’anno dopo (10/9/1910) usciva su “La Stampa” un articolo di G.
A. Borgese (dal titolo Poesia
crepuscolare), in cui recensiva poesie di Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves,
Marino Moretti (e scriveva,
significativamente: “dopo le Laudi e i Poemetti, la poesia italiana si è spenta. Si spegne infatti, ma in un mite e
lunghissimo crepuscolo, cui forse non seguirà la notte”).
I modelli sono, per un verso i tardi e minori
simbolisti franco-belgi (Laforgue, Jammes, Maeterlinck, Rodenbach),
la cui poesia si risolve in un morboso ripiegamento interiore, correlato ad un
sentimento di malattia (fisica e morale), di impotenza e insufficienza alla
vita; dall’altro, tanto il D’Annunzio del Poema Paradisiaco (con
quei languori da super-uomo sconfitto, con quell’idoleggiamento dei buoni
sentimenti e con quel corrispondente tono dimesso), quanto il Pascoli
poeta delle piccole cose (e non si potrà non notare come quella sua estensione
del campo del poetabile, intesa ad accogliere “il trifoglio accanto alla rosa”, sia portata ad estreme
conseguenze: Gozzano accoglie “il
basilico, l’aglio, la cedrina”). (1)
E’ quindi una poesia malinconica e lacrimevole, che
giunge spesso ad una autocommiserazione compiaciuta, che predilige toni
smorzati, anti-eloquenti, e che ha situazioni, oggetti, luoghi topici. Lo
dichiara Govoni: “Ho sempre amato le cose tristi, la musica
girovaga, i canti d’amore cantati nelle osterie, le preghiere delle suore, i
mendichi pittorescamente stracciati e malati, i convalescenti, gli autunni
malinconici pieni di addii, ecc .”; e lo conferma Gozzano, quando rappresenta quegli interni piccolo-borghesi,
squallidi e trasandati (l’opposto dei raffinati ambienti dannunziani), arredati
con “le buone cose di pessimo gusto” (tale è il salotto di Nonna Speranza: “Loreto impagliato ed il busto di Alfieri, di
Napoleone / i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto) / il caminetto
un po’ tetro, le scatole senza confetti, / un qualche raro balocco, gli scrigni
fatti di valve, / gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco, /
Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi ”).
Il rifiuto di una poesia “vaticinante” ed eloquente (“solare”, com’era quella della linea
Carducci-D’Annunzio) trapassa in vergogna della poesia (Gozzano: “Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta!”), sfiducia
nelle sue funzioni (emblematico il titolo della raccolta di Moretti: Poesie scritte col lapis),
crisi d’identità dello stesso poeta (Corazzini:
“Perché tu mi dici poeta? / Io non sono
un poeta / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange ”; Palazzeschi: “Sono forse un poeta? / No, certo. / Non
scrive che una parola, ben strana, / la penna dell’anima mia: / 'follia'”).
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