L’ideale della kalòkagathìa
ovvero il formalismo del Rinascimento
A. HAUSER, Storia
sociale dell’arte, vol. I,
Einaudi
1956, pp. 375-79.
"Nel Cinquecento la bellezza e la forza fisica
divengono espressione perfetta della bellezza e del valore spirituale":
perciò, ad esempio, santi, profeti, apostoli non potranno più essere
rappresentati come volgari contadini o semplici artigiani, ma lo saranno nella
pienezza della loro bellezza, con "nobile struttura delle membra,
studiata armonia dei gesti, sostenuta dignità dell’atteggiamento" (al
contrario, si possono nobilitare figure umili: nell’Incendio di Borgo di
Raffaello "la portatrice d’acqua è della stirpe delle
Madonne e delle Sibille michelangiolesche: umanità gigantesca, dal piglio
energico, orgogliosa e sicura").
La forma esteriore è specchio della bellezza interiore
(1). Ecco
perché il Cortegiano (così attento all’esteriorità, alla
"forma", alla immagine che appare) è il modello di tutta un’epoca.
E come quella società "sottomette la vita a
una canone formale che la protegga dall’anarchia del sentimento",
dettando norme precise di un galateo il cui "più alto precetto è la
padronanza di sé, la repressione degli affetti", così nell’arte
figurativa si ricercano quella misura e quell’armonia che frenano il
sentimento, la spontaneità (il sentimento ostentato, la smorfia di dolore,
sono all’origine del brutto; "Cristo non è più un martire sofferente,
ma il re dei cieli, superiore ad ogni umana debolezza") e riflettono
"l’utopistica immagine di un mondo da cui ogni lotta è esclusa".
Si tratta di un’arte funzionale alla conservazione del
potere da parte della classe dominante, la quale "nell’arte cercherà
anzitutto il simbolo della calma e della stabilità che essa persegue nella
vita. Infatti il primo Cinquecento, sviluppando la composizione in simmetrie e
rispondenze, costringendo la realtà nello schema di un triangolo o di un
cerchio, non soltanto risolve un problema formale, ma esprime una tendenza alla
stasi e il desiderio di perpetuarla".
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