domenica 12 luglio 2015

Beccaria: Dei delitti e delle pene


C. Beccaria                  Dei delitti e delle pene (1764)
ed. U. E. 1950

 

A chi legge: “avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore”, compilate da Giustiniano dodici secoli fa, mischiate con riti longobardi e con oscuri commenti di interpreti, “scolo di secoli barbari”, sono tuttora in vigore (pp. 13-16).

Della tortura: evitando appelli al sentimento, si cerca di mostrare l’inutilità e illogicità della tortura: “il mezzo più sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti” (pp. 36-41); ma è illogica anche quando vi si fa ricorso come pena, perché la sofferenza del reo non consente certo di “disfare” un delitto già commesso (giacché la pena si deve ispirare a due principi: impedire che il reo commetta altri reati e distogliere i potenziali criminali dal commettere reati[1]).

Della pena di morte: non fondata in linea di diritto, perché nel contratto sociale[2] l’individuo rinuncia a una parte della sua libertà, ma non concede al sovrano (allo Stato) il diritto di uccidere[3]; inutile, in quanto non trattiene dal compimento di altri delitti; “parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino uno pubblico”; la pena non è espiazione (concezione religiosa), ma risarcimento o autodifesa della società attraverso l’isolamento del criminale (concezione utilitaristica della pena)[4]; del resto è proprio tale isolamento che ha efficacia deterrente (giacché è temuta non l’“intensione”, ma l’“estensione” della pena) (pp. 48-55).

Come si prevengono i delitti: “è meglio prevenire i delitti che punirli”; ci vogliono leggi giuste “che favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi”; bisogna “perfezionare l’educazione”, che è problema che riguarda la natura del governo (cioè, è problema politico) (pp. 93-98).

 

Rocco (guardasigilli nel governo Mussolini) relaziona alla Camera sulla legge 25-XI-1926, che introduce la pena di morte: il liberalismo, considerando l’individuo come fine e non come mezzo, non può accettare la pena di morte; ma per il fascismo il fine è lo Stato, cui l’individuo è subordinato: quindi, per tale fine, l’individuo può essere sacrificato; la pena di morte è fondata come è fondato il diritto dello Stato di chiedere ai cittadini di morire per la patria (il fondamento è la concezione etica dello Stato).

 



[1] “…Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile… Il fine dunque non è altro che d’impedire al reo dal far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali.”
[2]E’ l’idea che fonda la concezione laica dello Stato, la cui autorità quindi proviene dagli uomini e non da Dio: ma, mentre per Hobbes tale contratto mette fine ad uno stato di natura in cui ognuno è in guerra con tutti (e quindi la moltitudine cede al sovrano, legibus solutus, un potere assoluto), per Locke (in questo, vero interprete del giusnaturalismo, secondo cui il diritto di natura preesiste al e deve determinare il diritto positivo) gli individui, attraverso lo Stato (che quindi è inteso come puro strumento, secondo la concezione liberale), intendono tutelare i diritti inalienabili che ciascuno ha per natura (alla vita, libertà e proprietà) - e quindi non consentono con un potere assoluto.
[3]La morte è ammessa quando il criminale abbia "anche privo della libertà, tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione" ; e quando "fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti". Ma il 1° caso non esiste durante il "tranquillo regno delle leggi" (esiste se c'è anarchia); sul 2°, lo stesso B. adduce l'obiezione classica: non l'"intensione", ma l'"estensione" della pena ha effetto deterrente.
[4]Il concetto di pena come autodifesa (peraltro superato dal concetto di pena come rieducazione, ad es. nella nostra Costituzione) si fonda non sul classico principio della restitutio iuris (per cui punitur quia peccatum est ), ma su quello, appunto utilitaristico, per cui punitur ne peccetur.

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