C.
Beccaria Dei delitti e delle pene (1764)
ed. U. E. 1950
A chi
legge:
“avanzi di leggi di un antico popolo
conquistatore”, compilate da Giustiniano dodici secoli fa, mischiate con
riti longobardi e con oscuri commenti di interpreti, “scolo di secoli barbari”, sono tuttora in vigore (pp. 13-16).
Della
tortura:
evitando appelli al sentimento, si cerca di mostrare l’inutilità e illogicità
della tortura: “il mezzo più sicuro di
assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti” (pp.
36-41); ma è illogica anche quando vi si fa ricorso come pena, perché la
sofferenza del reo non consente certo di “disfare” un delitto già commesso (giacché
la pena si deve ispirare a due principi: impedire che il reo commetta altri
reati e distogliere i potenziali criminali dal commettere reati[1]).
Della
pena di morte: non
fondata in linea di diritto, perché nel contratto sociale[2] l’individuo
rinuncia a una parte della sua libertà, ma non concede al sovrano (allo Stato)
il diritto di uccidere[3]; inutile, in quanto non trattiene
dal compimento di altri delitti; “parmi
un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che
detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime e, per
allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino uno pubblico”; la pena
non è espiazione (concezione
religiosa), ma risarcimento o
autodifesa della società attraverso l’isolamento del criminale
(concezione utilitaristica
della pena)[4]; del
resto è proprio tale isolamento che ha efficacia deterrente (giacché è temuta
non l’“intensione”, ma l’“estensione” della pena) (pp. 48-55).
Come si
prevengono i delitti: “è
meglio prevenire i delitti che punirli”; ci vogliono leggi giuste “che favoriscano meno le classi degli uomini
che gli uomini stessi”; bisogna “perfezionare
l’educazione”, che è problema che riguarda la natura del governo (cioè, è
problema politico) (pp. 93-98).
Rocco (guardasigilli nel governo Mussolini)
relaziona alla Camera sulla legge 25-XI-1926, che introduce la pena di
morte: il liberalismo, considerando l’individuo come fine e non come mezzo, non
può accettare la pena di morte; ma per il fascismo il fine è lo Stato, cui
l’individuo è subordinato: quindi, per tale fine, l’individuo può essere
sacrificato; la pena di morte è fondata come è fondato il diritto dello Stato
di chiedere ai cittadini di morire per la patria (il fondamento è la concezione
etica dello Stato).
[1]
“…Il fine delle pene non è di tormentare
ed affliggere un essere sensibile… Il fine dunque non è altro che d’impedire al
reo dal far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuovere gli altri dal farne
uguali.”
[2]E’
l’idea che fonda la concezione laica dello Stato, la cui autorità quindi
proviene dagli uomini e non da Dio: ma, mentre per Hobbes tale contratto mette fine ad uno stato di natura in cui
ognuno è in guerra con tutti (e quindi la moltitudine cede al sovrano, legibus solutus, un potere assoluto),
per Locke (in questo, vero
interprete del giusnaturalismo,
secondo cui il diritto di natura preesiste al e deve determinare il diritto
positivo) gli individui, attraverso lo Stato (che quindi è inteso come puro
strumento, secondo la concezione liberale), intendono tutelare i diritti inalienabili
che ciascuno ha per natura (alla vita,
libertà e proprietà) - e quindi non consentono con un potere assoluto.
[3]La
morte è ammessa quando il criminale abbia "anche
privo della libertà, tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza
della nazione" ; e quando "fosse
il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti".
Ma il 1° caso non esiste durante il "tranquillo
regno delle leggi" (esiste se c'è anarchia); sul 2°, lo stesso B.
adduce l'obiezione classica: non l'"intensione", ma
l'"estensione" della pena ha effetto deterrente.
[4]Il
concetto di pena come autodifesa (peraltro superato dal concetto di pena come rieducazione, ad es. nella nostra
Costituzione) si fonda non sul classico principio della restitutio iuris (per cui punitur
quia peccatum est ), ma su quello, appunto utilitaristico, per cui punitur ne peccetur.
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