Il neoclassicismo
Il ritorno a
un gusto classicista, nella seconda metà del sec. XVIII, si spiega come
reazione all’eccessiva artificiosità del barocco e del rococò.
Tale gusto si
determina poi, più precisamente (e questo, soprattutto in relazione all’avvio
degli scavi archeologici di Ercolano e Pompei, fra il 1737 e il 1748),
come ammirazione per le forme dell’arte classica. Ed è un’ammirazione che si
ripercuote anche nel costume: basti pensare all’abbigliamento e alle
acconciature femminili in età napoleonica, o ai continui richiami a figure
della romanità, prima repubblicana e poi imperiale (Bruto, i Gracchi; Cesare,
Augusto, ecc.), tipici dell’oratoria politica (ma anche della pittura: si pensi
a David) nell’età che va dalla
rivoluzione alla costituzione dell’Impero.
David: Il giuramento degli Orazi |
David: Le Sabine |
Alla
definizione di una poetica neo-classica concorrono il pittore A. Raphael Mengs (1728-1779: boemo,
soggiornerà a lungo a Roma, diventerà pittore di corte a Madrid), il letterato G. E. Lessing (1729-1781: autore di due
opere fondamentali, Laocoonte[1]e
Drammaturgia
amburghese), il teorico Francesco
Milizia (1725-1798: di Brindisi, soggiornerà a Roma) e, soprattutto, lo
storico dell’arte Johann Joachim
Winckelmann (1717-1768: nato in Prussia, soggiornerà a lungo in Italia,
particolarmente a Roma, morirà assassinato a Trieste, presumibilmente da un
“ragazzo di vita”)[2].
E’ appunto
Winckelmann che, suggestionato dalla vista delle statue greche (che lui
presumeva di vedere in Italia, visto che in Grecia non andò mai), teorizza un
ideale di bellezza assoluta, concretizzatosi nell’arte greca classica del
quinto e quarto sec. a. C., ma metastorico e quindi sempre da ricercarsi:
si tratta di una bellezza fondata sull’armonia
e l’equilibrio formale, da cui si
sprigiona una “nobile semplicità” e una “quieta grandezza” (edle Einfalt und stille Größe); è una bellezza come imperturbabilità,
in quanto si realizza attraverso il dominio
delle passioni (che esistono, ma che sono sottomesse ad un’armonia
superiore: il modello per eccellenza è il gruppo del Laocoonte),
Gruppo del Laocoonte |
nonchè attraverso il superamento, in nome
dell’universale, di ciò che è eccessivamente individualizzante (anche nei
caratteri sessuali: il modello per eccellenza è l ’Apollo del Belvedere, non a caso una figura androgina).
Apollo del Belvedere |
Il concetto di imperturbabilità è
espresso più volte attraverso paragoni con il mare[3],
con l’acqua quello di mancanza di individuazione[4].
Va detto che
si trattava di una idealizzazione dell’arte greca, sostenuta non da una
conoscenza diretta, ma dalla conoscenza di copie romane (tale è l’Apollo
del Belvedere) o di opere non classiche (il Laocoonte è di età
ellenistica, I sec. a. C.); al punto che si scambiavano la forza e la vivacità
espressiva degli originali per grossolanità (è sintomatico che dei discepoli di
Winckelmann si rifiutassero ostinatamente di avallare l’acquisto dei marmi
fidiaci strappati al Partenone da Lord Elgin, ritenendoli indegni di colui che
la tradizione esaltava come il più grande scultore greco). Una idealizzazione
che avrebbe dovuto fare i conti sia con la tesi di Nietzche, secondo cui non
solo il sentimento apollineo (e quindi di armonia) ma anche quello dionisiaco
(e quindi tragico) è presente nello spirito e nell’arte greca; sia con la
scoperta di statue quali i bronzi di Riace, in cui la individuazione sessuale
non è certamente debole.
[1]Partendo
dall’esegesi del gruppo ellenistico del Laocoonte (che pone il problema della
passione nell’arte, lì perfettamente dominata), valorizza la superiorità della
poesia, in quanto questa può esprimere azioni, sentimenti, passioni (di quanto
la vita supera il quadro, di tanto la poesia supera la pittura).
[2]Il
suo capolavoro è la Storia dell’arte
dell’antichità (1763-64).
[3]
“La
generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile
semplicità e una quieta grandezza (edle Einfalt
und stille Größe), sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta
sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, così l’espressione
delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima, nonostante le
più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e non solo nel
volto. Il dolore che traspare in tutti i muscoli e i tendini del corpo e che,
al solo guardare il ventre convulsamente contratto, senza badare né al viso né
alle altre parti, quasi crediamo di sentire noi stessi, questo dolore, dico,
non si esprime affatto con segni di furore nel volto o nella posizione. Il
Laocoonte non grida orribilmente come nel canto di Virgilio: il modo in cui la
bocca è aperta non lo consente; piuttosto ne può uscire un sospiro un sospiro
angosciato e represso. Il dolore del corpo e la grandezza dell’anima sono
distribuiti con eguale intensità nell’intera struttura della statua e sembrano
tenersi in equilibrio. Laocoonte soffre, ma soffre come il Filottete di
Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo sopportare il
dolore come la sopporta quest’uomo sublime” (Il bello nell’arte, TO 1953, pp. 30-31). O anche: “Gli artisti troveranno nella
giovinezza... le sorgenti del bello, cioè l’unità, la varietà e l’armonia,
assomigliandosi, per così dire, le forme giovanili alla superficie del mare,
che, veduto a qualche distanza, sembra terso e tranquillo come uno specchio,
sebbene di fatto sia sempre in moto, e volga incessantemente le sue onde... Una
bella figura giovanile sembra tersa, uguale ed uniforme, eppure vi si fanno in
un punto mille cangiamenti”.
[4]
“Il bello è come l’acqua, la quale tanto
è migliore, quanto ha meno gusto”.
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