venerdì 16 marzo 2018

Ulisse in D'Annunzio


D’Annunzio



18) La demitizzazione dell’eroe, che abbiamo visto soprattutto ne L’ultimo viaggio, è probabilmente anche una risposta alla esaltata idealizzazione che ne aveva fatto D’Annunzio in Maia, il primo libro delle Laudi, un paio d’anni prima (1903). La idealizzazione romantica dell’eroe, che abbiamo visto in A Zacinto, diventa in Maia di D’Annunzio raffigurazione del super-uomo (strumento dunque per dare corpo a quell’ideologia a lui così cara). Il poeta, mentre naviga nel mar Jonio con i suoi compagni, immagina di incrociare la rotta di Ulisse che affronta il mare da solo, come si addice a chi si è innalzato al di sopra della mediocrità e in questa altezza non può avere compagni. Il poeta e i suoi amici lo chiamano, pregandolo di prenderli con sé; Ulisse nemmeno volge il capo verso di loro, ma quando è il poeta da solo a invocarlo (“Tra costoro io sono il più forte! / Mettimi a prova!”), lo folgora con lo sguardo (“e il folgore degli occhi suoi / mi ferì per mezzo alla fronte”), quindi prosegue nella sua rotta. Ma quello sguardo basta perché il poeta si senta eletto e da quel momento i suoi compagni sentano il peso della sua volontà di potenza:


Incontrammo colui

che i Latini chiamano Ulisse,

nelle acque di Leucade, sotto

le rogge (color ruggine) e bianche rupi

che incombono al gorgo vorace,

presso l'isola macra (arida, pietrosa)

come corpo di rudi

ossa incrollabili estrutto

e sol d'argentea cintura

precinto. Lui vedemmo

su la nave incavata. E reggeva

ei nel pugno la scotta (cima che consente di orientare la vela)

spiando i volubili vènti,

silenzioso; e il pìleo (copricapo a forma conica, con la punta tondeggiante)

tèstile dei marinai

coprivagli il capo canuto,

la tunica breve il ginocchio

ferreo, la palpebra alquanto

l'occhio aguzzo; e vigile in ogni

muscolo era l'infaticata

possa del magnanimo cuore.

(…)

«O Laertiade» gridammo,

e il cuor ci balzava nel petto

come ai Coribanti dell'Ida

per una virtù furibonda

e il fegato acerrimo ardeva

«o Re degli Uomini, eversore

di mura, piloto di tutte

le sirti, ove navighi? A quali

meravigliosi perigli

conduci il legno tuo nero?

Liberi uomini siamo

e come tu la tua scotta

noi la vita nostra nel pugno

tegnamo, pronti a lasciarla

in bando o a tenderla ancóra.

Ma, se un re volessimo avere,

te solo vorremmo

per re, te che sai mille vie.

Prendici nella tua nave

tuoi fedeli insino alla morte!»

Non pur degnò volgere il capo.

Come a schiamazzo di vani

fanciulli, non volse egli il capo

canuto; e l'aletta vermiglia

del pìleo gli palpitava

al vento su l'arida gota

che il tempo e il dolore

solcato aveano di solchi

venerandi. «Odimi» io gridai

sul clamor dei cari compagni

«odimi, o Re di tempeste!

Tra costoro io sono il più forte.

Mettimi alla prova. E, se tendo

l'arco tuo grande,

qual tuo pari prendimi teco.

Ma, s'io nol tendo, ignudo

tu configgimi alla tua prua.»

Si volse egli men disdegnoso

a quel giovine orgoglio

chiarosonante nel vento;

e il fólgore degli occhi suoi

mi ferì per mezzo alla fronte.

Poi tese la scotta allo sforzo

del vento; e la vela regale

lontanar pel Ionio raggiante

guardammo in silenzio adunati.

Ma il cuor mio dai cari compagni

partito era per sempre;

ed eglino ergevano il capo

quasi dubitando che un giogo

fosse per scender su loro

intollerabile. E io tacqui

in disparte, e fui solo;

per sempre fui solo sul Mare.

E in me solo credetti.

Uomo, io non credetti ad altra

virtù se non a quella

inesorabile d'un cuore possente.

E a me solo fedele

io fui, al mio solo disegno.

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