D’Annunzio
18)
La demitizzazione dell’eroe, che abbiamo visto soprattutto ne L’ultimo viaggio, è probabilmente anche
una risposta alla esaltata idealizzazione che ne aveva fatto D’Annunzio in Maia, il primo libro delle Laudi, un paio d’anni prima (1903). La
idealizzazione romantica dell’eroe, che abbiamo visto in A Zacinto, diventa in Maia di D’Annunzio raffigurazione
del super-uomo (strumento dunque per dare corpo a quell’ideologia a lui
così cara). Il poeta, mentre naviga nel mar Jonio con i suoi compagni, immagina
di incrociare la rotta di Ulisse che affronta il mare da solo, come si addice a
chi si è innalzato al di sopra della mediocrità e in questa altezza non può
avere compagni. Il poeta e i suoi amici lo chiamano, pregandolo di prenderli
con sé; Ulisse nemmeno volge il capo verso di loro, ma quando è il poeta da
solo a invocarlo (“Tra costoro io sono il più forte! / Mettimi a prova!”),
lo folgora con lo sguardo (“e il folgore degli occhi suoi / mi ferì per
mezzo alla fronte”), quindi prosegue nella sua rotta. Ma quello sguardo
basta perché il poeta si senta eletto e da
quel momento i suoi compagni sentano il peso della sua volontà di potenza:
Incontrammo
colui
che
i Latini chiamano Ulisse,
nelle
acque di Leucade, sotto
le
rogge (color ruggine) e bianche rupi
che
incombono al gorgo vorace,
presso
l'isola macra (arida, pietrosa)
come
corpo di rudi
ossa
incrollabili estrutto
e
sol d'argentea cintura
precinto.
Lui vedemmo
su
la nave incavata. E reggeva
ei
nel pugno la scotta (cima che consente di
orientare la vela)
spiando
i volubili vènti,
silenzioso;
e il pìleo (copricapo a forma conica, con
la punta tondeggiante)
tèstile
dei marinai
coprivagli
il capo canuto,
la
tunica breve il ginocchio
ferreo,
la palpebra alquanto
l'occhio
aguzzo; e vigile in ogni
muscolo
era l'infaticata
possa
del magnanimo cuore.
(…)
«O
Laertiade» gridammo,
e
il cuor ci balzava nel petto
come
ai Coribanti dell'Ida
per
una virtù furibonda
e
il fegato acerrimo ardeva
«o
Re degli Uomini, eversore
di
mura, piloto di tutte
le
sirti, ove navighi? A quali
meravigliosi
perigli
conduci
il legno tuo nero?
Liberi
uomini siamo
e
come tu la tua scotta
noi
la vita nostra nel pugno
tegnamo,
pronti a lasciarla
in
bando o a tenderla ancóra.
Ma,
se un re volessimo avere,
te
solo vorremmo
per
re, te che sai mille vie.
Prendici
nella tua nave
tuoi
fedeli insino alla morte!»
Non
pur degnò volgere il capo.
Come
a schiamazzo di vani
fanciulli,
non volse egli il capo
canuto;
e l'aletta vermiglia
del
pìleo gli palpitava
al
vento su l'arida gota
che
il tempo e il dolore
solcato
aveano di solchi
venerandi.
«Odimi» io gridai
sul
clamor dei cari compagni
«odimi,
o Re di tempeste!
Tra costoro io sono il più forte.
Mettimi alla prova. E, se tendo
l'arco
tuo grande,
qual
tuo pari prendimi teco.
Ma,
s'io nol tendo, ignudo
tu
configgimi alla tua prua.»
Si
volse egli men disdegnoso
a
quel giovine orgoglio
chiarosonante
nel vento;
e
il fólgore degli occhi suoi
mi
ferì per mezzo alla fronte.
Poi
tese la scotta allo sforzo
del
vento; e la vela regale
lontanar
pel Ionio raggiante
guardammo
in silenzio adunati.
Ma
il cuor mio dai cari compagni
partito
era per sempre;
ed
eglino ergevano il capo
quasi
dubitando che un giogo
fosse per scender su loro
intollerabile. E io tacqui
in
disparte, e fui solo;
per
sempre fui solo sul Mare.
E in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella
inesorabile d'un cuore possente.
E a me solo fedele
io fui, al mio solo disegno.
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