venerdì 16 marzo 2018

Ulisse in Dante


Dante

4) E’ questa doppiezza della tradizione che arriva a Dante: Ulisse è sia scelerum inventor (e fandi fictor) sia cupidus sapientiae, e di questa doppiezza il canto XXVI dell’Inferno rende testimonianza. Come “scelerum inventor” Ulisse è dannato nella bolgia dei consiglieri frodolenti (è detto esplicitamente da Virgilio, laddove indica le colpe per cui Ulisse e Diomede “insieme vanno”: l’agguato del cavallo, l’inganno a Deidamia, il furto del Palladio). Ed è un peccato per il quale Dante si sente particolarmente coinvolto, visto che, al solo ricordo della bolgia, sente il bisogno di ammonire se stesso (vv. 19-24). E’ un peccato che ha a che fare non solo con l’intelligenza (questo vale per tutte le bolge), ma particolarmente con l’uso frodolento della parola, dunque con l’uso distorto di una capacità altamente umana, quella di parlare, di cui un letterato come Dante più di altri dispone: che di questo si tratti non mi pare dubbio, visto che un aspetto del contrappasso consiste proprio nella difficoltà ad articolare parole (come è evidente qui, ma ancora di più nel canto successivo, con Guido da Montefeltro):



Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse
: «Quando

mi diparti’ da Circe…

.

5) Sono tutte espressioni che indicano la fatica di parlare, di emettere la voce. Piccola parentesi: Dante non aveva letto l’Odissea, e forse nemmeno dei riassunti, tant’è che – forse sulla scorta di ciò che dice Ovidio in un passo delle Metamorfosi (XIV, 436 ss.) –  immagina che Ulisse parta per il suo viaggio fatale dopo il soggiorno presso Circe, mentre noi sappiamo che nella narrazione omerica dopo quell’episodio seguono altre avventure fino al ritorno ad Itaca. Ma torniamo al testo di Dante. Il racconto di Ulisse sulla propria morte, non ha a che fare con il peccato per cui è dannato (a meno che non si voglia vedere nell’ “orazion picciola” il consiglio frodolento, cosa davvero difficile visto che si fa appello a valori nobilissimi, quali la superiorità dell’uomo sui bruti e l’aspirazione alla conoscenza):



"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".



6) E’ invece la narrazione di una vicenda che si conclude tragicamente perché l’umanissimo desiderio di conoscere del pagano Ulisse non è sostenuto dalla grazia divina. Per questo suo desiderio di conoscere (l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore) Ulisse era esaltato dalla tradizione classica (si veda come lo rappresentano gli auctores sopra citati). E così Dante lo recepisce. Ma il cristiano Dante sa anche che senza l’aiuto della grazia la conoscenza non può giungere alla verità. Per questo il “volo” di Ulisse è “folle”, e la follia in Dante (si veda il canto II: “temo che la venuta non sia folle”) indica appunto la presunzione dell’intelletto di giungere alla verità con le sole sue forze, senza la Rivelazione, senza la grazia (se questo fosse stato possibile, “mestier non era parturir Maria”, dice Virgilio in Pg. III pensando con tristezza alla condizione di pagani dotati di grande intelligenza). Dunque quel viaggio verso una verità inconoscibile con le sole forze umane non può che fallire, la nave di Ulisse non può che naufragare in vista della montagna del Purgatorio.



7) L’alter ego di Ulisse è Dante stesso, che compie, come lui, un viaggio al di là delle capacità umane (e infatti aveva temuto che fosse “folle”); ma, diversamente dall’eroe omerico, Dante è sostenuto dalla grazia divina, lui potrà giungere alla spiaggia del Purgatorio (dove, non a caso, ricorderà ancora il fallimento del viaggio di Ulisse: non diversamente si deve intendere il riferimento di Pg. I, 130-132). 



Venimmo poi in sul lito diserto,

che mai non vide navicar sue acque

omo, che di tornar sia poscia esperto.

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