venerdì 16 marzo 2018

Ulisse nella tradizione latina


La tradizione

1) Omero nell’introduzione dell’Odissea, laddove invoca la Musa, chiama Ulisse polìtropos, ovvero “dal multiforme ingegno” e dice che nel suo viaggio di ritorno da Troia “vide molte città e di molti uomini conobbe il noon, il pensiero, l’indole, la mente”. Qui c’è già il doppio aspetto del carattere di Ulisse, giacchè da una parte, con il riferimento alla versatilità dell’ingegno, si allude alla sua astuzia, dall’altra, con il riferimento al suo peregrinare di gente in gente, si allude al suo desiderio di conoscenza.

2) E’ dunque una fama doppia quella che caratterizza il personaggio di Ulisse sin dalle origini; ed è  una doppiezza che ritorna nella tradizione, a cominciare dagli autori latini. Infatti Virgilio nell’Eneide lo chiama scelerum inventor, cioè inventore di scelleratezze, di inganni, ma anche fandi fictor, che significa creatore, inventore di discorsi, falsificatore di parole, intendendo sempre inventore di inganni tramite parole. Anche Ovidio, nel libro XIII delle Metamorfosi, laddove si riporta la contesa per ereditare le armi di Achille fra Aiace ed Ulisse (contesa vinta da quest’ultimo grazie all’uso astuto dell’abilità di parola), lo chiama hortator scelerum, istigatore di scelleratezze.

 3) Invece Cicerone, Orazio, Seneca ne parlano come di un uomo bramoso, sopra ogni cosa, di conoscenza. Così dice di lui Orazio, nella seconda epistola del I libro (vv. 17-22):

Si propone, come utile esempio di ciò che possono virtú e saggezza (quid virtus et quid sapientia possit), Ulisse, che dopo aver vinto Troia, si preoccupò di conoscere le città e i costumi di molte genti (multorum providus urbes, et mores hominum inspexit) , mentre sull'ampia distesa del mare, cercando il ritorno per sé e per i suoi, soffrì travagli d'ogni genere, senza lasciarsi mai sommergere dai marosi dell'avversa fortuna.

E Seneca, in un passo del De constantia sapientis (II, 2), in cui vuole elogiare la superiore saggezza di Catone l’Uticense, ricorda che nei tempi antichi altrettanto saggio era ritenuto Ulisse:

(…) quanto a Catone, gli dei immortali ci hanno dato un esempio di uomo sapiente ancora più alto di quello che ci avevano dato con Ercole e Ulisse nei secoli precedenti. Questi ultimi infatti vennero dichiarati sapienti dai nostri (maestri) stoici, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del piacere e vincitori di tutte le paure (sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum).

Infine Cicerone, in un passo del De finibus bonorum et malorum (V, 18), laddove sostiene che il desiderio di conoscere è proprio dell’uomo e che chi ama la conoscenza è disposto per lei ad ogni sacrificio, interpreta in questo senso l’episodio dell’Odissea in cui si narra del passaggio di Ulisse presso l’isola delle Sirene:

Non vediamo forse che chi si diletta degli studi e delle arti non tiene conto né della salute né degli interessi familiari e tutto sopporta, preso dalla conoscenza e dal sapere, e trova un compenso delle grandissime fatiche nel piacere che prova nell’imparare? Tanto che a me sembra che Omero abbia concepito qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti delle Sirene. Non mi sembra infatti che fossero solite attirare coloro che passavano con la dolcezza della voce o con la novità e la bellezza del canto, ma perché dichiaravano di sapere molte cose, così che gli uomini andavano a sbattere contro i loro scogli per bramosia di sapere. Così infatti attirano Ulisse (…) Omero capì che la storia non poteva essere creduta se un uomo tanto grande fosse stato attirato con delle canzonette; è la conoscenza che (le Sirene) promettono, e non è incredibile che questa fosse più cara della patria per un uomo bramoso di sapienza (cupido sapientiae).

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