La
tradizione
1) Omero nell’introduzione
dell’Odissea, laddove invoca la
Musa , chiama Ulisse polìtropos, ovvero “dal multiforme ingegno” e dice che nel
suo viaggio di ritorno da Troia “vide
molte città e di molti uomini conobbe il noon,
il pensiero, l’indole, la mente”. Qui c’è già il doppio aspetto del carattere di Ulisse, giacchè da una parte, con
il riferimento alla versatilità dell’ingegno, si allude alla sua astuzia,
dall’altra, con il riferimento al suo peregrinare di gente in gente, si allude
al suo desiderio di conoscenza.
2) E’ dunque una fama doppia quella che caratterizza il
personaggio di Ulisse sin dalle origini; ed è
una doppiezza che ritorna nella tradizione, a cominciare dagli autori
latini. Infatti Virgilio nell’Eneide
lo chiama scelerum inventor, cioè inventore di scelleratezze, di inganni,
ma anche fandi fictor, che significa creatore, inventore di discorsi,
falsificatore di parole, intendendo sempre inventore di inganni tramite parole.
Anche Ovidio, nel libro XIII delle Metamorfosi,
laddove si riporta la contesa per ereditare le armi di Achille fra Aiace ed
Ulisse (contesa vinta da quest’ultimo grazie all’uso astuto dell’abilità di
parola), lo chiama hortator scelerum, istigatore di scelleratezze.
3) Invece Cicerone,
Orazio, Seneca ne parlano come di un uomo bramoso, sopra ogni cosa, di
conoscenza. Così dice di lui Orazio,
nella seconda epistola del I libro (vv. 17-22):
Si
propone, come utile esempio di ciò che possono virtú e saggezza (quid virtus et quid sapientia possit),
Ulisse, che dopo aver vinto Troia, si
preoccupò di conoscere le città e i costumi di molte genti (multorum providus urbes, et mores hominum
inspexit) , mentre sull'ampia distesa del mare, cercando il ritorno per sé
e per i suoi, soffrì travagli d'ogni genere, senza lasciarsi mai sommergere dai
marosi dell'avversa fortuna.
E Seneca, in un passo del De constantia sapientis (II, 2), in
cui vuole elogiare la superiore saggezza di Catone l’Uticense, ricorda che nei
tempi antichi altrettanto saggio era ritenuto Ulisse:
(…)
quanto a Catone, gli dei immortali ci hanno dato un esempio di uomo sapiente
ancora più alto di quello che ci avevano dato con Ercole e Ulisse nei secoli
precedenti. Questi ultimi infatti vennero
dichiarati sapienti dai nostri (maestri) stoici, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del
piacere e vincitori di tutte le paure (sapientes
pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores
omnium terrorum).
Infine Cicerone, in un passo del De
finibus bonorum et malorum (V, 18), laddove sostiene che il desiderio
di conoscere è proprio dell’uomo e che chi ama la conoscenza è disposto per lei
ad ogni sacrificio, interpreta in questo senso l’episodio dell’Odissea in cui
si narra del passaggio di Ulisse presso l’isola delle Sirene:
Non
vediamo forse che chi si diletta degli studi e delle arti non tiene conto né
della salute né degli interessi familiari e tutto sopporta, preso dalla
conoscenza e dal sapere, e trova un compenso delle grandissime fatiche nel piacere
che prova nell’imparare? Tanto che a me sembra che Omero abbia concepito
qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti delle Sirene.
Non mi sembra infatti che fossero solite attirare coloro che passavano con la
dolcezza della voce o con la novità e la bellezza del canto, ma perché dichiaravano di sapere molte cose, così che
gli uomini andavano a sbattere contro i loro scogli per bramosia di sapere.
Così infatti attirano Ulisse (…) Omero capì che la storia non poteva essere
creduta se un uomo tanto grande fosse stato attirato con delle canzonette; è la conoscenza che (le Sirene) promettono,
e non è incredibile che questa fosse più cara della patria per un uomo bramoso
di sapienza (cupido sapientiae).
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