12) L’Infinito, un altro testo esemplare
1) Il tema
Si
tratta di un itinerarium ad infinitum:
il sentimento che si vuole comunicare è quello dell’infinito, nella sua
dimensione prima spaziale e poi temporale. L’idillio, di 15 versi, è infatti perfettamente
diviso a metà del verso 8 nelle due parti che, appunto, intendono rappresentare
il sentimento-sensazione della infinitezza, nello spazio e nel tempo. Ed è un
sentimento che nasce, per contrasto, dall’avvertimento, tramite i sensi prima
della vista e poi dell’udito, di dati concreti: la siepe che, in quanto
preclude la vista dell’orizzonte, consente l’immaginazione (io nel pensier mi fingo) dell’infinito
spaziale; lo stormire del vento tra le piante che, in quanto interrompe il
silenzio, sollecita il pensiero (mi
sovvien) dell’eterno (dell’infinito scorrere del tempo). Ma siccome si
tratta di sentimenti-immaginazioni troppo vaste perché la mente le possa
definire e il cuore le possa abbracciare, in esse ci si perde, con paura
dapprima (8), e ci si annega, come in un dolce naufragio poi (15). E’
un’esperienza potente, per certi versi terribile, perché comporta un perdersi,
un annullamento della propria individualità: ne è prova l’uso, nel momento in
cui si descrive l’acme dell’esperienza, di verbi estremamente significativi,
che risaltano nel lessico abbastanza povero dell’idillio e che hanno nell’opera
leopardiana un riscontro rarissimo (si
spaura, solo in La vita solitaria
e Amore e morte) o unico (s’annega, naufragar).[1]
Ma
se questo è schematicamente il piano tematico dell’idillio, molti e
significativi sono i rilievi che si possono fare sul piano formale, della
struttura complessiva, della sintassi, del lessico, della metrica[2].
2) La struttura
e la sintassi
Sulla
struttura complessiva andranno notate non solo le corrispondenze già rilevate
(perfetta divisione in due parti, parallela simmetria dal dato concreto al suo
trascendimento), ma anche
a.
la continuità
ritmica dell’intera lirica, tale per cui, con la sequenza ininterrotta delle
inarcature[3], nessun
verso è isolato e a sé stante: nessuno, tranne il primo e l’ultimo, che quindi
sembrano incorniciare perfettamente l’idillio (non ci si lasci ingannare dal
punto alla fine del verso 3: la pausa sintattica è apparente perché la
coordinante avversativa che segue tende ad unire i due versi, malgrado il
punto).
b.
Il perfetto
disegno costruttivo si rileva, oltre che dall’incorniciamento fornito dal primo
e dall’ultimo verso, anche dalla divisone sintattica in quattro periodi che si
corrispondono in modo speculare: il primo (tre versi) corrisponde all’ultimo
(due versi e mezzo), il secondo (quattro e mezzo) al terzo (cinque): la lirica
risulta così divisa in due parti uguali, di sette versi e mezzo ciascuna (per
cui risalta la centralità dell’ottavo verso, che contiene due emistichi che
separano e congiungono le due parti del componimento).
c.
Inoltre il primo
e l’ultimo periodo hanno un andamento piano, paratattico, a carattere
enunciativo, mentre i periodi mediani sono connotati da una sintassi più mossa
e con un incremento dei costrutti ipotattici (c’è la tensione che vuole rendere
il processo mentale che conduce all’infinità, spaziale e temporale; una
tensione preceduta dalla descrizione affettiva del paesaggio e seguita dal suo
placamento-compimento nel naufragio finale).
3) Il lessico
Interessanti
sono i riscontri sul piano del lessico:
a.
la poesia è
punteggiata di parole che Leopardi stesso indica come particolarmente poetiche
per l’indefinito del loro significato (le cataloga proprio come “Voci e frasi piacevoli e poetiche
assolutamente, per l’infinito o l’indefinito del loro significato” nell’ Indice del mio Zibaldone, che compila,
da notare, a partire dal luglio del 1827): e sono ermo, tanta, ultimo, silenzio, profondo, eterno, morte; ma a queste
si possono aggiungere sostantivi come orizzonte,
immensità, e aggettivi come interminati,
sovrumani, infinito).
b.
Un rilievo a
parte va fatto per l’avverbio “sempre”,
con cui si apre la lirica. La prima cosa da notare è l’ascendenza petrarchesca
di tale incipit (tipico in Petrarca, a indicare la persistenza di una
condizione: “io amai sempre, et amo forte
ancora”, “cercato ò sempre solitaria
vita”, ecc.). In Leopardi la parola è, come altre, per il suo significato
indeterminato, evocativa dell’infinito. Ma notate come nell’espressione “sempre caro mi fu” sia associata ad un
passato remoto, tempo verbale che contrasta con tutti i presenti iterativi che
seguono nella lirica. La cosa è sempre apparsa problematica ai lettori, ma a me
sembra che nella scelta si manifesti l’intenzione dell’autore di unire
l’esperienza straordinaria che si accinge a descrivere al ricordo di un passato
felice: quel “sempre”, più che
indicare il ripetersi dell’evento, sollecita la memoria di un passato
affettivamente evocato (caro); il
sentimento affettivo è intensificato dalla memoria, e quel “fu” sottolinea proprio questa
associazione affetto-memoria. Dunque qui è in campo un altro elemento della
poetica dell’indefinito, e cioè l’elemento della poeticità della rimembranza.
c.
Il riferimento
del “quella” del v. 5 alla siepe non
convince tutti (alcuni preferiscono riferirlo a “tanta parte”, visto che la siepe è vicina, tant’è che al v. 2 era
accompagnata dal dimostrativo “questa”).
Ora, a parte che la logica impone di intendere il riferimento alla siepe, mi
pare convincente la lettura che A. Marchese ha fatto dell’uso dei dimostrativi
nell’idillio. Essi segnalano il passaggio da un “qui ed ora” iniziale (questo colle, questa siepe) a un “altrove” trascendente in cui è trasportata la
mente del poeta (quella siepe, perché
ora il poeta è lontano dalla siepe, è altrove, nella lontananza infinita);
quindi lo stormire del vento è come se risvegliasse il poeta dal suo sogno di
un viaggio nell’altrove, lo riporta a terra, qui ed ora (dunque, queste piante, quel silenzio, questa
voce); ma la mente è ora sollecitata al pensiero dell’infinito scorrere del
tempo, trascende di nuovo i dati del reale e del presente, è altrove (in questa immensità, in questo mare).
d.
Altro problema è
quello del valore dell’avversativo “ma”
con cui si apre il verso 4. E’ un problema perché logicamente non può avversare
il periodo precedente (non si può avversare il fatto che il colle e la siepe al
poeta siano cari), caso mai avversa soltanto la seconda parte del periodo –
tant’è che Bacchelli proponeva di intenderlo come un asseverativo, nel senso di
“appunto, proprio per questo”. Nella forza di quel “ma” sarà da vedere piuttosto l’intenzione di avversare il carattere
petrarchesco-arcadico di quell’incipit che sembra evocare la tradizionale
figura del locus amoenus. Quel “ma”
intende dire che l’idillio non vuole descrivere le piacevolezze di un luogo
campestre, ma invece rappresentare sensazioni di tutt’altro tipo, proporre una
narrazione diversa, di tipo mentale e introspettivo, rappresentare appunto l’itinerarium ad infinitum.
4) Il ritmo
Quel “ma”
forse ci suggerisce anche il cambiamento di ritmo che ci attende nei versi
successivi:
a.
dall’andamento
piano e regolare, prevalentemente bisillabico, si passa ora ad un ritmo segnato
da fortissime inarcature e rallentato dalla serie ardita di parole
polisillabiche, in un crescendo che va da parole trisillabiche (sedendo, mirando) a parole di 5 sillabe
(interminati, profondissima), parole
che anche foneticamente vorrebbero esprimere l’idea dell’infinito (come se la
lentezza della pronuncia volesse segnalare la difficoltà di circoscrivere
quell’idea).
b.
Come abbiamo
notato, l’alta frequenza di enjambements e di pause sintattiche interne fa sì
che nessun verso della lirica sia sintatticamente isolabile, ad eccezione dei
due estremi (che per altro non sono perfettamente isolati perché congiunti
dalla coordinante “e”). Il componimento si presenta così come un continuum
ritmico, in cui spiccano alcuni fortissimi enjambements che mettono in rilievo
termini infinitivi, accentuandone la carica evocativa (vedi i due aggettivi “interminati” e “sovrumani” a fine verso, o i sostantivi “infinito silenzio” e “immensità”
ad inizio verso, ma evidenziati dall’attesa creata dai dimostrativi alla fine
del verso precedente). La carica evocativa propria dei tre sintagmi dei vv. 4-6
è potenziata dagli enjambements che separano e uniscono i primi due, e trova
compimento e appagamento (sintattico e metrico) nel terzo (profondissima quiete),
cui contribuisce anche la dieresi che rende trisillabo il sostantivo “quiete”, rallentandone la pronuncia.
5) I fonemi
Sul
piano fonetico, da notare
a.
sia la “rilevanza
strategica” di timbri vocalici aperti, in particolare di quello in “a”, in
posizione tonica e/o ritmica, cioè a fine verso (parte, rafforzato da tanta,
interminati, sovrumani, mare) o a fine
emistichio (in quarta o sesta sillaba, a seconda che l’endecasillabo sia a
minore o a maiore: mirando, comparando, immensità, naufragar); e
sono in maggioranza parole legate al tema dell’infinito, per le quali dunque
l’apertura vocalica entra in sinergia col significato di vastità. Il fenomeno
era già stato notato da Contini (“trionfo di a”), e la minore forza
impressiva delle parole con timbro in
“e” (pur leggermente prevalenti nella lirica) andrà ascritta alla eterogeneità
semantica di tali parole (con significati e collocazioni non di rilievo).
b.
sia la frequenza di parole caratterizzate dall’incontro
di nasale più consonante, con effetti di amplificazione sonora (fenomeno che
investe in particolare parole che intendono esprimere l’infinito: orizzonte, interminati, profondissima,
infinito, silenzio, immensità).
13) Una conclusione provvisoria
I “segnali dell’infinito” (parole,
immagini, suoni, rimembranze, doppie visioni) si possono rintracciare in canti
successivi. E’ un’operazione che ha fatto Blasucci, che ha riscontrato la
presenza nei canti non solo di parole evocative dell’infinito (come è logico
aspettarsi, vista la esplicita predilezione di Leopardi) ma anche di scelte
espressive (fonemi, sintagmi, inarcature), già presenti nell’Infinito, che Leopardi sente cariche di
una tensione capace di comunicare il piacere dell’indefinito.
E’ il caso, ad esempio, del timbro
vocalico in “a”, rintracciabile in Ricordanze,
sia ai vv. 20-24[4] (dove investe parole
evocative dell’infinito, come lontano,
mar, varcare, arcani, arcana, e riecheggia in altre, come qua, pensava, felicità, amplificandone
la sonorità), sia ai vv. 11-13[5] (dove
– a parte il ricorrere di espressioni presenti nell’idillio del ’19, come gran parte, mirando – detto timbro
confluisce nella parola conclusiva, “campagna”,
associata più volte nello Zibaldone
al piacere dell’indefinito suscitato da sensazioni acustiche: l’echeggiare del
tuono in campagna, il canto degli agricoltori in campagna, lo stormire del
vento in campagna).
E’ anche il caso dell’inarcatura nelle
due tipologie (aggettivo infinitivo + sostantivo, sul modello di interminati / spazi e sovrumani / silenzi; dimostrativo +
sostantivo infinitivo, sul modello di quello
/ infinito silenzio e questa /
immensità). In particolare, sul modello di “questa / immensità”, va notato l’uso frequente, ad inizio verso ed
entro un’inarcatura, di un sostantivo femminile quadrisillabo ossitono,
evocativo dell’infinito, con predilezione per la parola “felicità” (anche se non preceduta da aggettivo infinitivo, è parola
semanticamente coinvolta nella tematica dell’infinito: si veda come in Ricordanze 23-24, citato sopra, e in Amore e morte 35-39[6] sia
associata ad espressioni – fingendo, il
suo pensier figura - che rimandano all’immaginazione mentale, e quindi alla
sua irraggiungibile lontananza).
Ma è un riscontro che si fa sempre più
arduo man mano che ci si inoltra nel tempo. Dopo i canti pisano-recanatesi, la
poesia tende a farsi più filosofica, più ragionata ed argomentativa, sempre più
tesa ad affermare la verità della condizione umana, quindi sempre più asciutta e,
in un certo senso, sempre meno disponibile a cercare ed offrire la consolazione
del diletto proprio delle parole vaghe e indefinite. E’ quella che Binni ha
chiamato la poesia eroica, riferendosi all’atteggiamento di Leopardi che, come
Tristano, ha il coraggio di guardare in faccia la realtà senza nulla detrarre
al vero e senza più cercare il conforto di ricordi, speranze, illusioni, belle
immaginazioni. Il linguaggio della Ginestra non è più il linguaggio
evocativo dell’infinito, è un linguaggio diverso, ancora tutto da studiare. Del
resto le pagine dello Zibaldone si
chiudono nel dicembre del ’32 e, per quanto riguarda la riflessione sulla
poesia, si ha l’impressione di un sentiero interrotto.
Forse si può dire che, se il profumo che
la ginestra spande sul deserto del paesaggio impietrato dalla lava è il profumo
della poesia, c’è ancora un diletto che può consolare nel deserto delle
illusioni, ed è il diletto del vero. E allora bisognerà fare un passo indietro
e dare il giusto peso a quella semplice affermazione che in un canto del 1826,
l’epistola Al conte Carlo Pepoli.
conclude una rassegnata previsione sul destino di un poeta, il cui petto non è
più scaldato da “alto senso” e “tenero affetto” : "conosciuto,
ancor che tristo, ha suoi diletti il vero" .
[1] Per
altro, quella di cui si parla non è un’esperienza di tipo mistico-religioso:
non lo è, sia perché Leopardi stesso precisa nello Zibaldone che “l’infinità della inclinazione dell’uomo è una
infinità materiale” (luglio 1820), sia perché è evidente la base sensistica di
tutta la costruzione (l’immaginazione dell’infinito si ha a partire da dati
sensibili), sia infine perché ancora lo stesso autore chiarisce nello Zibaldone (4 gennaio 1821) che “non solo
la facoltà conoscitiva, o quella d’amare, ma neanche l’immaginativa è capace
dell’infinito, o di conoscere infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di
concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perché l’anima, non vedendo
i confini, riceve l’impressione di una specie d’infinito, e confonde
l’indefinito con l’infinito..”
[2] Per alcuni di tali rilievi
sono debitore a Luigi Blasucci (Leopardi e i segnali dell'infinito,
Bologna 1985).
[3] Per chi
non lo sapesse, l’inarcatura, o enjambement, è quel fenomeno per cui la pausa
metrica non coincide con la pausa sintattica, anzi la pausa metrica separa
elementi che sintatticamente sono uniti (ad esempio, un sostantivo e il suo
attributo), con l’effetto di sottolineare maggiormente (nel suono e nel
significato) i termini separati.
[4] Che dolci sogni mi spirò
la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!
[5] delle sere io solea passar
gran parte
mirando il cielo, ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna
[6] a sé la terra
forse il mortale inabitabil fatta
vede omai senza quella
nova, sola, infinita
felicità che il suo pensier figura
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