mercoledì 8 aprile 2015

La poetica di Leopardi (IV parte)



12) L’Infinito, un altro testo esemplare

1)  Il tema

Si tratta di un itinerarium ad infinitum: il sentimento che si vuole comunicare è quello dell’infinito, nella sua dimensione prima spaziale e poi temporale. L’idillio, di 15 versi, è infatti perfettamente diviso a metà del verso 8 nelle due parti che, appunto, intendono rappresentare il sentimento-sensazione della infinitezza, nello spazio e nel tempo. Ed è un sentimento che nasce, per contrasto, dall’avvertimento, tramite i sensi prima della vista e poi dell’udito, di dati concreti: la siepe che, in quanto preclude la vista dell’orizzonte, consente l’immaginazione (io nel pensier mi fingo) dell’infinito spaziale; lo stormire del vento tra le piante che, in quanto interrompe il silenzio, sollecita il pensiero (mi sovvien) dell’eterno (dell’infinito scorrere del tempo). Ma siccome si tratta di sentimenti-immaginazioni troppo vaste perché la mente le possa definire e il cuore le possa abbracciare, in esse ci si perde, con paura dapprima (8), e ci si annega, come in un dolce naufragio poi (15). E’ un’esperienza potente, per certi versi terribile, perché comporta un perdersi, un annullamento della propria individualità: ne è prova l’uso, nel momento in cui si descrive l’acme dell’esperienza, di verbi estremamente significativi, che risaltano nel lessico abbastanza povero dell’idillio e che hanno nell’opera leopardiana un riscontro rarissimo (si spaura, solo in La vita solitaria e Amore e morte) o unico (s’annega, naufragar).[1]

Ma se questo è schematicamente il piano tematico dell’idillio, molti e significativi sono i rilievi che si possono fare sul piano formale, della struttura complessiva, della sintassi, del lessico, della metrica[2].

 

2)    La struttura e la sintassi

Sulla struttura complessiva andranno notate non solo le corrispondenze già rilevate (perfetta divisione in due parti, parallela simmetria dal dato concreto al suo trascendimento), ma anche

a.                la continuità ritmica dell’intera lirica, tale per cui, con la sequenza ininterrotta delle inarcature[3], nessun verso è isolato e a sé stante: nessuno, tranne il primo e l’ultimo, che quindi sembrano incorniciare perfettamente l’idillio (non ci si lasci ingannare dal punto alla fine del verso 3: la pausa sintattica è apparente perché la coordinante avversativa che segue tende ad unire i due versi, malgrado il punto).

b.               Il perfetto disegno costruttivo si rileva, oltre che dall’incorniciamento fornito dal primo e dall’ultimo verso, anche dalla divisone sintattica in quattro periodi che si corrispondono in modo speculare: il primo (tre versi) corrisponde all’ultimo (due versi e mezzo), il secondo (quattro e mezzo) al terzo (cinque): la lirica risulta così divisa in due parti uguali, di sette versi e mezzo ciascuna (per cui risalta la centralità dell’ottavo verso, che contiene due emistichi che separano e congiungono le due parti del componimento).

c.                Inoltre il primo e l’ultimo periodo hanno un andamento piano, paratattico, a carattere enunciativo, mentre i periodi mediani sono connotati da una sintassi più mossa e con un incremento dei costrutti ipotattici (c’è la tensione che vuole rendere il processo mentale che conduce all’infinità, spaziale e temporale; una tensione preceduta dalla descrizione affettiva del paesaggio e seguita dal suo placamento-compimento nel naufragio finale).

 

3)    Il lessico

Interessanti sono i riscontri sul piano del lessico:

a.                la poesia è punteggiata di parole che Leopardi stesso indica come particolarmente poetiche per l’indefinito del loro significato (le cataloga proprio come “Voci e frasi piacevoli e poetiche assolutamente, per l’infinito o l’indefinito del loro significato” nell’ Indice del mio Zibaldone, che compila, da notare, a partire dal luglio del 1827): e sono ermo, tanta, ultimo, silenzio, profondo, eterno, morte; ma a queste si possono aggiungere sostantivi come orizzonte, immensità, e aggettivi come interminati, sovrumani, infinito).

b.               Un rilievo a parte va fatto per l’avverbio “sempre”, con cui si apre la lirica. La prima cosa da notare è l’ascendenza petrarchesca di tale incipit (tipico in Petrarca, a indicare la persistenza di una condizione: “io amai sempre, et amo forte ancora”, “cercato ò sempre solitaria vita”, ecc.). In Leopardi la parola è, come altre, per il suo significato indeterminato, evocativa dell’infinito. Ma notate come nell’espressione “sempre caro mi fu” sia associata ad un passato remoto, tempo verbale che contrasta con tutti i presenti iterativi che seguono nella lirica. La cosa è sempre apparsa problematica ai lettori, ma a me sembra che nella scelta si manifesti l’intenzione dell’autore di unire l’esperienza straordinaria che si accinge a descrivere al ricordo di un passato felice: quel “sempre”, più che indicare il ripetersi dell’evento, sollecita la memoria di un passato affettivamente evocato (caro); il sentimento affettivo è intensificato dalla memoria, e quel “fu” sottolinea proprio questa associazione affetto-memoria. Dunque qui è in campo un altro elemento della poetica dell’indefinito, e cioè l’elemento della poeticità della rimembranza.

c.                Il riferimento del “quella” del v. 5 alla siepe non convince tutti (alcuni preferiscono riferirlo a “tanta parte”, visto che la siepe è vicina, tant’è che al v. 2 era accompagnata dal dimostrativo “questa”). Ora, a parte che la logica impone di intendere il riferimento alla siepe, mi pare convincente la lettura che A. Marchese ha fatto dell’uso dei dimostrativi nell’idillio. Essi segnalano il passaggio da un “qui ed ora” iniziale (questo colle, questa siepe) a un “altrove” trascendente in cui è trasportata la mente del poeta (quella siepe, perché ora il poeta è lontano dalla siepe, è altrove, nella lontananza infinita); quindi lo stormire del vento è come se risvegliasse il poeta dal suo sogno di un viaggio nell’altrove, lo riporta a terra, qui ed ora (dunque, queste piante, quel silenzio, questa voce); ma la mente è ora sollecitata al pensiero dell’infinito scorrere del tempo, trascende di nuovo i dati del reale e del presente, è altrove (in questa immensità, in questo mare).

d.               Altro problema è quello del valore dell’avversativo “ma” con cui si apre il verso 4. E’ un problema perché logicamente non può avversare il periodo precedente (non si può avversare il fatto che il colle e la siepe al poeta siano cari), caso mai avversa soltanto la seconda parte del periodo – tant’è che Bacchelli proponeva di intenderlo come un asseverativo, nel senso di “appunto, proprio per questo”. Nella forza di quel “ma” sarà da vedere piuttosto l’intenzione di avversare il carattere petrarchesco-arcadico di quell’incipit che sembra evocare la tradizionale figura del locus amoenus. Quel “ma” intende dire che l’idillio non vuole descrivere le piacevolezze di un luogo campestre, ma invece rappresentare sensazioni di tutt’altro tipo, proporre una narrazione diversa, di tipo mentale e introspettivo, rappresentare appunto l’itinerarium ad infinitum.

 

4)    Il ritmo

Quel “ma” forse ci suggerisce anche il cambiamento di ritmo che ci attende nei versi successivi:

a.                dall’andamento piano e regolare, prevalentemente bisillabico, si passa ora ad un ritmo segnato da fortissime inarcature e rallentato dalla serie ardita di parole polisillabiche, in un crescendo che va da parole trisillabiche (sedendo, mirando) a parole di 5 sillabe (interminati, profondissima), parole che anche foneticamente vorrebbero esprimere l’idea dell’infinito (come se la lentezza della pronuncia volesse segnalare la difficoltà di circoscrivere quell’idea).

b.               Come abbiamo notato, l’alta frequenza di enjambements e di pause sintattiche interne fa sì che nessun verso della lirica sia sintatticamente isolabile, ad eccezione dei due estremi (che per altro non sono perfettamente isolati perché congiunti dalla coordinante “e”). Il componimento si presenta così come un continuum ritmico, in cui spiccano alcuni fortissimi enjambements che mettono in rilievo termini infinitivi, accentuandone la carica evocativa (vedi i due aggettivi “interminati” e “sovrumani” a fine verso, o i sostantivi “infinito silenzio” e “immensità” ad inizio verso, ma evidenziati dall’attesa creata dai dimostrativi alla fine del verso precedente). La carica evocativa propria dei tre sintagmi dei vv. 4-6 è potenziata dagli enjambements che separano e uniscono i primi due, e trova compimento e appagamento (sintattico e metrico) nel terzo (profondissima quiete), cui contribuisce anche la dieresi che rende trisillabo il sostantivo “quiete”, rallentandone la pronuncia.

 

5)    I fonemi

Sul piano fonetico, da notare

a.                sia la “rilevanza strategica” di timbri vocalici aperti, in particolare di quello in “a”, in posizione tonica e/o ritmica, cioè a fine verso (parte, rafforzato da tanta, interminati, sovrumani, mare) o a fine emistichio (in quarta o sesta sillaba, a seconda che l’endecasillabo sia a minore o a maiore: mirando, comparando, immensità, naufragar); e sono in maggioranza parole legate al tema dell’infinito, per le quali dunque l’apertura vocalica entra in sinergia col significato di vastità. Il fenomeno era già stato notato da Contini (“trionfo di a”), e la minore forza impressiva  delle parole con timbro in “e” (pur leggermente prevalenti nella lirica) andrà ascritta alla eterogeneità semantica di tali parole (con significati e collocazioni non di rilievo).

b.               sia  la frequenza di parole caratterizzate dall’incontro di nasale più consonante, con effetti di amplificazione sonora (fenomeno che investe in particolare parole che intendono esprimere l’infinito: orizzonte, interminati, profondissima, infinito, silenzio, immensità).

 

13)    Una conclusione  provvisoria

I “segnali dell’infinito” (parole, immagini, suoni, rimembranze, doppie visioni) si possono rintracciare in canti successivi. E’ un’operazione che ha fatto Blasucci, che ha riscontrato la presenza nei canti non solo di parole evocative dell’infinito (come è logico aspettarsi, vista la esplicita predilezione di Leopardi) ma anche di scelte espressive (fonemi, sintagmi, inarcature), già presenti nell’Infinito, che Leopardi sente cariche di una tensione capace di comunicare il piacere dell’indefinito.

E’ il caso, ad esempio, del timbro vocalico in “a”, rintracciabile in Ricordanze, sia ai vv. 20-24[4] (dove investe parole evocative dell’infinito, come lontano, mar, varcare, arcani, arcana, e riecheggia in altre, come qua, pensava, felicità, amplificandone la sonorità), sia ai vv. 11-13[5] (dove – a parte il ricorrere di espressioni presenti nell’idillio del ’19, come gran parte, mirando – detto timbro confluisce nella parola conclusiva, “campagna”, associata più volte nello Zibaldone al piacere dell’indefinito suscitato da sensazioni acustiche: l’echeggiare del tuono in campagna, il canto degli agricoltori in campagna, lo stormire del vento in campagna).

E’ anche il caso dell’inarcatura nelle due tipologie (aggettivo infinitivo + sostantivo, sul modello di interminati / spazi e sovrumani / silenzi; dimostrativo + sostantivo infinitivo, sul modello di quello / infinito silenzio e questa / immensità). In particolare, sul modello di “questa / immensità”, va notato l’uso frequente, ad inizio verso ed entro un’inarcatura, di un sostantivo femminile quadrisillabo ossitono, evocativo dell’infinito, con predilezione per la parola “felicità” (anche se non preceduta da aggettivo infinitivo, è parola semanticamente coinvolta nella tematica dell’infinito: si veda come in Ricordanze 23-24, citato sopra, e in Amore e morte 35-39[6] sia associata ad espressioni – fingendo, il suo pensier figura - che rimandano all’immaginazione mentale, e quindi alla sua irraggiungibile lontananza).

Ma è un riscontro che si fa sempre più arduo man mano che ci si inoltra nel tempo. Dopo i canti pisano-recanatesi, la poesia tende a farsi più filosofica, più ragionata ed argomentativa, sempre più tesa ad affermare la verità della condizione umana, quindi sempre più asciutta e, in un certo senso, sempre meno disponibile a cercare ed offrire la consolazione del diletto proprio delle parole vaghe e indefinite. E’ quella che Binni ha chiamato la poesia eroica, riferendosi all’atteggiamento di Leopardi che, come Tristano, ha il coraggio di guardare in faccia la realtà senza nulla detrarre al vero e senza più cercare il conforto di ricordi, speranze, illusioni, belle immaginazioni.  Il linguaggio della Ginestra non è più il linguaggio evocativo dell’infinito, è un linguaggio diverso, ancora tutto da studiare. Del resto le pagine dello Zibaldone si chiudono nel dicembre del ’32 e, per quanto riguarda la riflessione sulla poesia, si ha l’impressione di un sentiero interrotto.

Forse si può dire che, se il profumo che la ginestra spande sul deserto del paesaggio impietrato dalla lava è il profumo della poesia, c’è ancora un diletto che può consolare nel deserto delle illusioni, ed è il diletto del vero. E allora bisognerà fare un passo indietro e dare il giusto peso a quella semplice affermazione che in un canto del 1826, l’epistola Al conte Carlo Pepoli. conclude una rassegnata previsione sul destino di un poeta, il cui petto non è più scaldato da “alto senso” e “tenero affetto” : "conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero" . 

   

 

 



[1] Per altro, quella di cui si parla non è un’esperienza di tipo mistico-religioso: non lo è, sia perché Leopardi stesso precisa nello Zibaldone che “l’infinità della inclinazione dell’uomo è una infinità materiale” (luglio 1820), sia perché è evidente la base sensistica di tutta la costruzione (l’immaginazione dell’infinito si ha a partire da dati sensibili), sia infine perché ancora lo stesso autore chiarisce nello Zibaldone (4 gennaio 1821) che “non solo la facoltà conoscitiva, o quella d’amare, ma neanche l’immaginativa è capace dell’infinito, o di conoscere infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perché l’anima, non vedendo i confini, riceve l’impressione di una specie d’infinito, e confonde l’indefinito con l’infinito..”
[2] Per alcuni di tali rilievi sono debitore a Luigi Blasucci (Leopardi e i segnali dell'infinito, Bologna 1985).
 
[3] Per chi non lo sapesse, l’inarcatura, o enjambement, è quel fenomeno per cui la pausa metrica non coincide con la pausa sintattica, anzi la pausa metrica separa elementi che sintatticamente sono uniti (ad esempio, un sostantivo e il suo attributo), con l’effetto di sottolineare maggiormente (nel suono e nel significato) i termini separati.
[4] Che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!
[5] delle sere io solea passar gran parte
mirando il cielo, ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna
[6] a sé la terra
forse il mortale inabitabil fatta
vede omai senza quella
nova, sola, infinita
felicità che il suo pensier figura
 

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