5.1) Oltre il Discorso: il
ripensamento della canzone Ad Angelo Mai
C’è
dunque qui un atteggiamento ottimistico: la possibilità di creare favole,
sogni, illusioni (la possibilità di fare poesia) non è uccisa per sempre dalla
invadenza della ragione (della filosofia); sopravvive uno spazio per
l’immaginazione, e questo spazio va coltivato, amplificato, rivitalizzato. Ben
diverse, solo due anni dopo, le sconsolate considerazioni sulla conoscenza
razionale (scientifica, filosofica) della verità che determina senza rimedio la
fine della immaginazione che consentiva agli antichi di creare i loro miti.
Sentite la strofa centrale della canzone Ad Angelo Mai, laddove il
poeta, parlando della scoperta dell’America da parte di Colombo, lamenta la
fine della bella favola che aveva immaginato l’altrove sconosciuto come sede
notturna del Sole e della fanciulla Aurora (vv. 91-105):
Nostri
sogni leggiadri ove son giti / dell'ignoto ricetto / d'ignoti abitatori, o del
diurno / degli astri albergo, e del rimoto letto / della giovane Aurora, e del
notturno / occulto sonno del maggior pianeta? / Ecco svaniro a un punto, / e
figurato è il mondo in breve carta; / ecco tutto è simile, e discoprendo, /
solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta / il vero appena è giunto, / o caro
immaginar; da te s'apparta / nostra mente in eterno; allo stupendo / poter tuo
primo ne sottraggon gli anni; / e il conforto perì de' nostri affanni./
5.2) Oltre il Discorso: il ripensamento a
proposito della poesia sentimentale
Qualcosa
è cambiato nell’arco di due anni. Ed è un cambiamento che si avverte ancora
meglio se mettiamo a fuoco la questione della poesia sentimentale. La tesi del
Di Breme, che Leopardi contesta nel Discorso, era appunto che la poesia
moderna, per le ragioni suddette, dovesse fondarsi sul "patetico",
sul sentimentale (l’immaginazione è propria degli antichi, il sentimentale dei
moderni). Ovviamente Leopardi ha buon gioco nell’accusare i romantici di
eccesso ed artificiosità; il sentimento di cui parlano non è naturale (come
tale, era proprio anche degli antichi, i quali erano commossi dallo spettacolo
della natura e comunicavano con semplicità questa commozione: a prova di ciò,
Leopardi cita due famosi "notturni", uno di Omero, Iliade,
VIII, 555-559[1], e
uno di Virgilio, Eneide, VII, 8-16[2]),
ma è sollecitato forzatamente ed artificialmente: è patetismo, affettazione di
sentimento, sentimentalismo deteriore:
(i
romantici) vogliono che il poeta a bella posta scelga, inventi, modelli,
combini, disponga, per fare impressioni sentimentali, che ne’ suoi poemi non
soltanto le cose ma le maniere sieno sentimentali, che prepari e conformi gli
animi de’ lettori espressamente ai moti sentimentali, che ce li svegli
pensatamente e di sua mano, che in somma e il poeta sia sentimentale
saputamente e volutamente, e non quasi per ventura come d’ordinario per gli
antichi… (p. 515-516)
…
è nudo e palese l’intendimento risoluto dello scrittore, di fare un libro o una
novella o una canzone o un passo sentimentale: e ometto come il patetico sia
sparso e gittato e versato per tutto… possiamo vedere, non so s’io dica senza
pianto o senza riso o senza sdegno, scialacquarsi il sentimentale… gittarsi a
manate, vendersi a staia… ridondare le botteghe di Lettere sentimentali, e
Drammi sentimentali, e Romanzi sentimentali e Biblioteche sentimentali… (p.
522-523)
Ma
non c’è dubbio che, al di là degli eccessi indicati, sulla sostanza del
pensiero del Di Breme e dei romantici Leopardi finisce per ricredersi, anzi per
farlo proprio pienamente. Si legga il pensiero del 1 luglio 1820, dove –
riferendosi alla grande crisi patita l’anno precedente, soprattutto a seguito
dell’accentuarsi dei problemi alla vista – dice di essere divenuto filosofo, e
quindi sentimentale, da poeta, e immaginifico, che era: lo stesso che è
successo allo "spirito umano in generale":
Nella
carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito
umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi
erano pieni d'immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di
profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli
affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva... La mutazione totale in me, e il
passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè
nel 1819 dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura,
cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso,
cominciai... a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era)... Allora l'immaginazione in me fu
sommamente infiacchita... E s'io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano
a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata... bensì quei versi
traboccavan di sentimento. (Zib. 71) (1/7/20)
5.3) Oltre il Discorso: la questione del
consenso dell’intelletto all’inganno dell’immaginazione
Segue
la pagina del 19 ottobre 1820, dove si nega la tesi sostenuta nel Discorso,
secondo cui le favole sono il fondamento della poesia, suscitano diletto, a
prescindere dal consenso dell’intelletto (il quale, in un certo senso, accetta
la convenzione di entrare nel mondo dell’immaginazione), anzi, contrastando la
tirannia dell’intelletto, rispetto a cui il poeta è un liberatore. Si confronti
ciò che è detto nel Discorso:
…
il poeta non inganna gli intelletti né gl’ingannò mai… ma solamente le
fantasie… è ridicolo dire che il poeta non possa illudere (la immaginazione)
quando non s’attenga alle opinioni e ai costumi nostri, quasi che noi non le
dessimo licenza di lasciarsi ingannare, e che ella non avesse forza di
scordarsi, né il poeta di farle scordare, e opinioni e consuetudini e checchessia…
l’intelletto in mezzo al delirio dell’immaginativa conosce benissimo ch’ella
vaneggia… (p. 473)
…
abbiamo veduto come s’ingannino coloro i quali negando che le illusioni
poetiche antiche possano stare colla scienza presente, non pare che avvertano che
il poeta già da tempi remotissimi non inganna l’intelletto, ma solamente la
immaginazione degli uomini… (p. 507)
con
ciò che è detto nello Zibaldone: adesso si dice che il consenso
dell’intelletto (la persuasione) è indispensabile per ottenere l’effetto voluto
(cioè, il diletto), e questo consenso, "in tanta propagazione e
incremento dei lumi", è impossibile che ci sia (altro decisivo
argomento, insomma, a sostegno della tesi che la poesia moderna non può
prescindere dalla conoscenza del vero, dalla filosofia, dalla facoltà
intellettiva):
La
poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto alla commozione o impulso di
qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur possa persuadere, non solo
secondo le regole ordinarie della verisimiglianza, ma anche rispetto ad un
certo tal quale convincimento che la cosa stia o possa stare effettivamente
così… Ma oggidì in tanta propagazione
e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova o nuovamente applicata, trova il
menomo luogo nell’intelletto… E questa è una gran ragione per cui la poesia
oggidì non può più produrre quei grandi effetti né riguardo alla maraviglia e
al diletto, né riguardo all’eccitamento degli animi, delle passioni ec…
(Zib. 117) (19/10/20)
5.4) Oltre il Discorso: il ripensamento sul
classicismo
Quindi
la decisiva riflessione dell’8 marzo 1821, dove non solo si dice che "la
poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo"
(ed è così, anche se "appena si può dire che la sentimentale sia
poesia, ma piuttosto una filosofia, un’eloquenza"), ma anche che è
insensato ogni tentativo di "voler fare quello stesso che facevano i
nostri avoli… di voler fingere una facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta":
La forza creatrice dell’animo
appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli antichi. Dopo
che l’uomo è divenuto stabilmente infelice e, che peggio è, l’ha conosciuto… e
dopo che il mondo è divenuto filosofo, l’immaginazione veramente forte, verde,
feconda, creatrice, fruttuosa, non è più propria se non de’ fanciulli… Un
Omero, un Ariosto non sono per li nostri tempi, né, credo, per gli avvenire.
Quindi molto e giudiziosamente e naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il
nervo e il forte e il principale della poesia dalla immaginazione all’affetto,
cangiamento necessario, e derivante per se stesso dal cangiamento dell’uomo…
Che smania è questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri
avoli, quando noi siamo così mutati?… Di voler fingere una facoltà che non
abbiamo, o abbiamo perduta, cioè l’andamento delle cose ce l’ha renduta
infruttuosa e sterile, e inabile a creare? Di voler essere Omeri, in tanta
diversità di tempi? (Zib. 221)
(8/3/21)
Insomma
qui Leopardi contesta esplicitamente le posizioni che lui stesso aveva
sostenuto nel Discorso (si pensi in particolare a quel passo in cui
diceva che, siccome immutabile è la natura, non si può pensare che muti la
poesia: “è necessario che, non la natura a noi, ma noi ci adattiamo alla natura,
e però la poesia non si venga mutando, come vogliono i moderni, ma ne' suoi
caratteri principali, sia, come la natura, immutabile. E questo adattarsi degli
uomini alla natura, consiste in rimetterci coll'immaginazione come meglio
possiamo nello stato primitivo de' nostri maggiori, la qual cosa ci fa fare
senza nostra fatica il poeta padrone delle fantasie”).
5.5) Oltre
il Discorso: il ripensamento sul
patriottismo
Ma
quest’ultima riflessione è notevole anche perché appare chiaro come il
patriottismo del Discorso sia superato: non solo si indicano con
ammirazione le altre nazioni che “molto e
giudiziosamente e naturalmente” “hanno
rivolto il nervo e il forte e il principale della poesia dalla immaginazione
all’affetto” (si ricordi come nel Discorso si parlasse di “sterco sentimentale e poetico [che] ci scola giù dalle Alpi e c’è vomitato
sulle rive del mare”), ma, nel prosieguo, si denuncia con asprezza la
mediocrità degli italiani, i quali, incapaci di poesia sentimentale (perché
incapaci di filosofia), si dedicano ad una poesia di pura imitazione degli
antichi, e quindi di nessun valore (così fa Monti, ora definito "non
poeta, ma traduttore", cosiccome precedentemente era stato definito
poeta "dell’orecchio e non del cuore"):
Ma
gl’Italiani contuttociò, e contro la natura de’ tempi e della poesia, si
gittano ad un genere che oggi non può essere se non o forzato o imitativo, e lo
fanno perché questo riesce loro molto più facile del sentimentale… E così tutti i sensati Italiani e
forestieri, si accordano in dire che l’Italia manca del genere sentimentale. Ma
non osservano che con ciò vengono a dire e confessare che l’odierna Italia
manca di letteratura, certo di poesia. Quasi che il detto genere fosse proprio
di questa o quella nazione, e non del tempo. Quasi che oggidì la condizione
generale degli uomini ammettesse altro genere di poesia, e che il mancare di
questo genere non fosse lo stesso che il mancar di poesia (Zib. 222)
(8/3/21) .[3]
6) La conclusione: il vero è oggetto della poesia
In
conclusione:
La
poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo,
come la vera e semplice… poesia immaginativa fu unicamente ed esclusivamente
propria de’ secoli omerici, o simili a quelli in altre nazioni. Dal che si può ben concludere che la poesia non
è quasi propria de’ nostri tempi… Giacché il sentimentale è fondato e sgorga
dalla filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione dell’uomo e delle cose, in
somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l’essere
ispirata dal falso… (per cui) appena si può dire che la sentimentale
sia poesia, ma piuttosto una filosofia, un‘eloquenza, se non quanto è più
splendida, più ornata della filosofia ed eloquenza della prosa. Può anche esser
più sublime e più bella, ma non per altro mezzo che d’illusioni, alle quali non
è dubbio che anche in questo genere di poesia si potrebbe molto concedere, e
più di quello che facciano gli stranieri. (Zib. 222) (8/3/21)
Sulla
questione delle "illusioni", che sono pur sempre una componente
fondamentale della poesia, bisognerà tornare. Per intanto notiamo tre cose: 1)
che la poesia sentimentale viene indicata come l’unica poesia possibile per i
moderni; 2) che la poesia attuale (sentimentale) non può non basarsi sul vero,
e con questo è stato accolto un punto fondamentale del programma dei romantici
italiani (si pensi a Manzoni: la letteratura ha per oggetto il vero). Ma mentre
i romantici pensano al vero "storico", o al vero della cronaca
contemporanea, Leopardi pensa a un vero filosofico, al vero della condizione
umana: quel vero che la ragione scopre e che il poeta non può più dimenticare
(e che quindi diventa l’oggetto della poesia leopardiana: e lo diventa in
maniera sempre più chiara e vistosa, con la poesia filosofica degli ultimi
anni, quella che Binni chiama la "poesia eroica"); 3) che,
cionondimeno, questa, pur essendo l’unica poesia che possiamo fare, non è
propriamente poesia, è una sottospecie di poesia (una filosofia, un’eloquenza),
perché l’essenza della poesia consiste pur sempre nell’essere fondata
sull’immaginazione e nell’essere ispirata dal falso.
7) La
poesia sentimentale come poesia lirica
Ma
a questo punto bisognerà chiarire meglio che cosa si intenda per “poesia
sentimentale”, soprattutto in quale accezione la intenda Leopardi. Il
sentimento di cui si parla non è quello indicato nel Discorso come proprio degli antichi (Omero e Virgilio), commossi
davanti alla natura, un sentimento immediato e irriflesso. E’ piuttosto un
sentimento generato dalla consapevolezza propria dell’uomo moderno, dunque un
sentimento alla maniera in cui ne parlava Schiller, nella sua celebre opera Sulla poesia ingenua e sentimentale (che
Leopardi non conosce: l’opera è del 1795-96, una traduzione in italiano sarà
del 1867 e Leopardi non conosceva il tedesco). E’ un sentimento connesso col
pensiero che riflette, non è espressione immediata dell’impressione che la
natura fa sul poeta, ma è il frutto di una riflessione su quell’impressione.[4]
Per questa strada Leopardi arriva a una doppia conclusione: da una parte scopre
che il poeta non è imitatore della natura, ma imitatore di se stesso e, in
quanto tale, piuttosto creatore che imitatore; dall’altra arriva ad affermare
che – siccome il poeta non può che esprimere il proprio sentimento soggettivo –
la poesia è essenzialmente lirica. Siamo a quel pensiero (da cui sono partito)
citato da Anceschi in Che cosa è la
poesia:
L'imitazione tien sempre molto del
servile. Falsissima idea considerare e definir la poesia per arte imitativa,
metterla colla pittura ec. Il poeta immagina: l'immaginazione vede il mondo
come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita, non
imita (dico) di proposito suo: creatore, inventore, non imitatore; ecco il
carattere essenziale del poeta. (Zib.
1175) (29/8/1828)
Il poeta non imita la natura: ben è
vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I' mi son un che
quando Natura parla, ec. vera definizione del poeta. Così il poeta non è
*imitatore* se non di se stesso.
Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente
non è più poesia, facoltà divina; quella è un'arte umana; è prosa, malgrado il verso
e il linguaggio. (Zib. 1180) (10/9/28)
Questa idea, secondo cui se il poeta esce da
se stesso non è più veramente poeta, diventa un’idea centrale nel pensiero di
Leopardi. Per questo aspetto persiste la polemica con i romantici, che
prediligono generi letterari come il dramma e il romanzo: per Leopardi la
lirica è la sola vera poesia perché in essa il poeta esprime solo e pienamente
il proprio sentimento.
Da
queste osservazioni risulterebbe che dei 3 generi principali di poesia, il solo
che veramente resti ai moderni, fosse il lirico; (e forse il fatto e
l'esperienza de' poeti moderni lo proverebbe); genere, siccome primo di tempo,
così eterno ed universale, cioè proprio dell'uomo perpetuamente in ogni tempo
ed in ogni luogo, come la poesia; la quale consistè da principio in questo
genere solo, e la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che
quasi si confonde con lei, ed è il
più veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in
quanto son liriche. (Zib. 1218) (29/3/1829.).
la
lirica, contrapposta all’epica e alla drammatica (ma anche al romanzo), ove il
poeta, creando le varie passioni dei vari personaggi, deve fingere sentimenti
non suoi:
il poeta è spinto a poetare
dall’intimo sentimento suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una
passione, un carattere ch’ei non ha (cosa necessaria al drammatico) è cosa
alienissima dal poeta… Il
sentimento che l’anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del vero
poeta… Quanto più un uomo è di genio,
quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi da esporre, tanto più
sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui,
d’imitare, tanto più dipingerà se stesso… L’estro del drammatico è finto,
perch’ei dee fingere: un che si sente mosso a poetare, non si sente mosso che
dal bisogno d’esprimere de’ sentimenti ch’egli prova veramente (Zib. 1175) (29/8/1828)
8) Il diletto ai tempi della poesia sentimentale
Ma
se il sentimento dominante dei tempi moderni è proprio quello che deriva dalla
consapevolezza della perdita dell’armonia, del deserto delle illusioni prodotto
dalla ragione, della nullità di tutte le cose, che ha che fare allora questo
sentimento con il diletto, che resta pur sempre il vero ed unico fine della
poesia? Su questo Leopardi non si ricrede: come procurerà la poesia il diletto,
se non può più procurarlo con le favole create dall’immaginazione? Una prima
risposta a questa domanda possiamo trovarla in un celebre pensiero del
4/10/1820:
Hanno
questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la
nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire
l'inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili
disperazioni, tuttavia ad un'anima grande che si trovi anche in uno stato di
estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita…
servono sempre di consolazione, raccendono l'entusiasmo, e non trattando nè
rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella
vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose,
accora e uccide l'anima, veduto nell'imitazione o in qualunque altro modo nelle
opere di genio (come p.e. nella
lirica che non è propriamente imitazione), apre il cuore e ravviva… E
lo stesso conoscere l'irreparabile vanità e falsità di ogni bello e di ogni
grande è una certa bellezza e grandezza che riempie l'anima, quando questa
conoscenza si trova nelle opere di genio. E lo stesso spettacolo della nullità,
è una cosa in queste opere, che par che ingrandisca l'anima del lettore, la
innalzi, e la soddisfaccia di se stessa e della propria disperazione. (Gran
cosa, e certa madre di piacere e di entusiasmo, e magistrale effetto della
poesia…) (Zib. 110) (4/10/20)
Ma
la risposta più significativa ed originale sta nelle riflessioni, sparse nello Zibaldone:
a cominciare da quella, che abbiamo già letto, in cui si dice che anche nella
poesia sentimentale molto si può concedere alle illusioni; e poi in quelle,
molteplici, sul piacere dell’indefinito e della rimembranza.
[1]
Sì come quando graziosi in cielo / rifulgon gli astri intorno della luna, / e
l’aere è senza vento, e si discopre / ogni cima de’ monti ed ogni selva / ed
ogni torre; allor che su nell’alto / tutto quanto l’immenso etra si schiude, /
e vedesi ogni stella, e ne gioisce / il pastor dentro all’alma.
[2] Adspirant aurae in noctem, nec
candida cursus
Luna negat, splendet tremulo sub
lumine pontus.
Proxima Circaeae raduntur litora
terrae,
Dives inaccessos ubi Solis filia
lucos
Adsiduo resonat cantu, tectisque
superbis
Urit odoratam nocturna in lumina
cedrum,
Arguto tenues percurrens pectine
telas.
Hinc exaudiri gemitus iraeque
leonum
Vincla recusantum et sera sub
nocte rudentum.
[3]
Il riferimento al patriottismo si presta a qualche considerazione
sull’atteggiamento di Leopardi in anni fervidi di quegli ideali che poi
porteranno alle guerre d’indipendenza e all’unità nazionale. Persiste nella
mente di molti quel giudizio espresso da De Sanctis nel famoso saggio in cui
confrontava Leopardi con Schopenhauer: diceva De Sanctis che se Leopardi fosse
vissuto fino al 1848 (a differenza di Schopenhauer, collocato su posizioni
reazionarie), sarebbe stato sulle barricate “al nostro fianco”. A me pare
invece oltremodo discutibile questo giudizio: quella patriottica non è certo la
corda che vibra nella poesia di Leopardi, e le canzoni civili degli anni
1818-20 mi sembrano piuttosto il frutto di suggestioni letterarie (di tipo
alfieriano e foscoliano) che di autentica passione politica. Ricordiamo anche
che nel 1831, in occasione dei moti liberali che investirono l’Italia centrale,
Leopardi rifiutò l’incarico, offertogli dal governo provvisorio di Recanati, di
rappresentante presso l’assemblea costituente di Bologna. Del resto lo sviluppo stesso del suo
pensiero, come lo porta in rotta con il gruppo dei cattolici-liberali
fiorentini, lo porta anche a diffidare di qualsiasi progressismo, anche di tipo
patriottico. Ne sono testimonianza testi come la Palinodia al marchese Gino Capponi, la satira I nuovi credenti (i nuovi credenti sono proprio i liberali) e il
poemetto Paralipomeni della
Batracomiomachia (dove l’ironia si rivolge non solo ai granchi e alle rane,
che rappresentano gli austriaci e i reazionari, ma anche ai topi, che
rappresentano i liberali). Il fatto è che Leopardi aveva la vista lunga, vedeva
più a fondo e più lontano dei suoi contemporanei, vedeva le guerre
catastrofiche che avrebbero coinvolto i paesi dell’una e l’altra sponda
dell’Atlantico, dunque era difficile che si entusiasmasse per gli ideali
dell’unità nazionale. E infine: era difficile che si entusiasmasse per le
guerre d’indipendenza chi credeva, come Leopardi, che l’unica guerra sensata
fosse quella di tutti gli uomini confederati contro il comune nemico, la
natura, e non quella di uomini contro altri uomini.
[4]
“Quelli (gli antichi) ci commuovono per mezzo di natura, di verità sensibile,
di presente vivo; questi (i moderni) ci commuovono per mezzo di idee (…) Questi
(il poeta sentimentale) riflette sull’impressione che gli oggetti fanno su di
lui e solo su quella riflessione è fondata la commozione, da cui è preso egli
stesso e che dà a noi” (Schiller, Della
poesia ingenua e sentimentale, in Saggi
estetici, UTET, Torino 1951, pp. 396-400).
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