martedì 14 aprile 2015

L'amore e l'altro mondo nell'immaginario medievale (II parte: Dante)


II. Ma in Italia, nel 1277, la peste si era già diffusa. Non solo perché a quella data il De amore risulta già conosciuto (13), ma proprio perché la lirica siciliana dell’età di Federico II sembra avere importato in Italia quegli ideali di amore cortese, banditi nelle terre d’origine.

Di quegli ideali si nutre più di una generazione di poeti, quegli ideali (e quindi il De amore, che li organizza sistematicamente) costituiscono una componente fondamentale nella cultura di ogni poeta del sec. XIII, dai siciliani agli "stilnovisti", da Jacopo da Lentini a Dante (14).

Dante ha letto gli autori provenzali, conosce il trattato di Andrea, padroneggia quelle problematiche, come era pressoché indispensabile per chiunque volesse trattare d’amore. Ma è per lui un bagaglio sempre più pesante, in quanto quella cultura, con quel sistema di valori, in particolare con quella concezione laica dell’amore, non può non scontrarsi, nella sua coscienza, con i dettami della morale cristiana. Di tale scontro - e della continua ricerca di una superiore conciliazione - è testimonianza esemplare il percorso poetico che conduce dalla Vita Nova alla Commedia .

Ed è interessante notare come proprio l’episodio di Francesca, nel V dell’Inferno, sia segno di un rapporto intensamente, e drammaticamente, vissuto dall’autore con i modelli proposti dalla cultura cortese. Un rapporto mai dimenticato, ma ormai inaccettabile alla luce di una concezione che ha tolto all’amore ogni connotazione mondana per collocarlo in una dimensione autenticamente religiosa (di una religione, cioè, in cui è Cristo abate del collegio, e non Amore) e attribuirgli la capacità di innalzare l’anima fino alla contemplazione di Dio.

Nel V dell’Inferno ci troviamo di fronte ad una visione dell’oltretomba che, fatte le debite proporzioni, non può non rievocare quella immaginata da Andrea nel I libro del De amore: in entrambi i casi è la passione d’amore l’elemento rispetto al quale si è giudicati e "mandati" per l’eternità. Ovviamente, mentre in Andrea - dato l’argomento da lui trattato - questo è l’unico motivo preso in considerazione, per Dante quello segnato dalla passione d’amore non è che uno fra i tanti caratteri che individuano il viaggio terreno dell’uomo e, di conseguenza, il suo eterno destino; e mentre la visione di Andrea è soltanto un momento didascalico all’interno di un trattato teorico, la Francesca di Dante, nel poema cui han posto mano e cielo e terra, non è che una figura fra le tante che compongono il quadro, grandioso e totale, della condizione umana.

Ma se si restringe lo sguardo al motivo oggetto di riflessione in entrambi gli episodi (la passione d'amore, appunto, ovvero il modo in cui tale passione è stata concepita e praticata nella vita terrena) non pare improprio il confronto; e non solo perché, come è già stato rilevato (15), è comune l’idea del viaggiatore, perdutosi nella selva, cui è concesso di apprendere la condizione nell’aldilà perché possa riferirne ad ammaestramento dei viventi; o perché tale condizione appare regolata, analogamente, dalla legge del contrappasso, o per altre similitudini che vi si vogliano riscontrare; quanto perché il confronto ci consente di misurare appieno la distanza che separa le due concezioni, una distanza che conduce addirittura ad un rovesciamento di prospettiva, ad una inconciliabile opposizione.

L’amore esaltato da Andrea, l’amore proprio di chi ha cuore gentile, l’amore nobile e nobilitante, e perciò santificato nel suo oltretomba, è diventato nella Commedia peccato di lussuria, proprio di coloro che la ragione sommettono al talento, un peccato che conduce alla dannazione eterna. Analogamente, alla condizione beata delle donne cui è reso ogni onore e servizio nella visione di Andrea, corrisponde nella Commedia la condizione di Francesca, travolta per sempre dalla bufera infernale. E si badi: il comportamento per cui Francesca è punita non differisce da quello che nel De amore si raccomanda come esemplare; non differisce, perché Francesca non ha concesso il suo amore indiscriminatamente, ma, lei gentile, ha corrisposto all’amore di un uomo gentile, com’era doveroso; né è l’adulterio a fare la differenza, visto che la condizione extra-coniugale degli amanti è indicata espressamente nel trattato di Andrea come qualificante l’autenticità dell’amore. Queste cose Francesca le sa: perciò dichiara a voce alta la sua colpa, che lei continua a non sentire come una colpa.

E ovviamente, ancor prima di lei, le sa l’autore della Commedia, che qui si trova non solo a regolare i conti con la grande tradizione della cultura cortese, ma anche a combattere con i fantasmi della propria giovinezza: non altrimenti si spiega la forte intensità emotiva che pervade l’intero episodio, e coinvolge, come mai in seguito, il visitatore dell’oltretomba fino al punto estremo di non sopportazione (Io venni meno sì com’io morisse. / E caddi come corpo morto cade).

Le parole con cui Francesca si giustifica - e sono quelle racchiuse dalle terzine famose, introdotte dalla triplice anafora Amor ch(e)..., Amor ch(e)..., Amor... - sono parole care alle orecchie di Dante: con quelle parole sono professati i principi dell’amor cortese, quasi nei termini di una traduzione delle regole enunciate da Andrea nel De amore (16). Di più: il primo verso (Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende) rimanda ad un autore amatissimo (il padre / mio e de gli altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre), quel Guinizzelli, maestro indimenticabile, che aveva cantato Al cor gentil rempaira sempre amore; un insegnamento ben recepito dall’allievo, che l’aveva ripreso in un sonetto della Vita Nova (Amore e ’l cor gentil sono una cosa, / sì come il saggio in suo dittare pone).

Ma anche il "saggio" aveva sbagliato: non aveva visto il pericolo implicito nell’affermazione di quella identità (tra amore e cor gentile), non era riuscito a liberarsi completamente della zavorra che tratteneva a terra quell’idea dell’amore. Beatrice ha indicato un’altra strada: l’amore virtuoso si determina, sì, fra persone fisicamente concrete, ma è capace di staccarsi dalla materialità corporea, si risolve in un processo di purificazione interiore, diventa elevazione al cielo. Fuori di questa strada c’è la prevaricazione del "talento" sulla "ragione", e non varranno nobili intenzioni e nobile sentire a salvare Francesca dalla dannazione eterna. Per lei, e per la sua umana debolezza, potrà esserci "pietà", ma nel buio del cerchio in cui è relegata sarà per sempre travolta dal turbine, così come in vita si lasciò travolgere dalla lussuria.

NOTE

13) Nel 1238 Albertano da Brescia, nel suo Liber de amore et dilectione Dei et proximi, cita l’opera di Andrea indicandola con le parole iniziali (Amor est passio quaedam innata...).

14) Le tesi di Andrea sulla natura dell’amore sono facilmente riconoscibili nel sonetto di Jacopo da Lentini Amor è uno desio che ven da core. D’Arco S. Avalle ha mostrato poi come le stesse tesi ritornino in Guittone e Guinizzelli, in versione, rispettivamente, "democratica" e "aristocratica" (Due tesi sui limiti di amore, in Ai luoghi di delizia pieni, cit., pp. 25-38); e Guittone in particolare sembra avere redatto, sulla base degli insegnamenti di Andrea, un vero e proprio "manuale del libertino" (Il manuale del libertino, ibid., pp. 56-86). Anche Cavalcanti e Cino da Pistoia, per restare ai maggiori, dimostrano di conoscere Andrea: il primo lo cita raffigurandolo "coll’arco in mano", e quindi identificandolo addirittura con Amore; il secondo ricorda il "libro di Gualtieri", confondendo, come succederà spesso in seguito, l’autore del De amore con il personaggio a cui il libro è dedicato.

15) da D. DE ROBERTIS (Il libro della ‘Vita Nuova’, Firenze 1961, pp. 51-52), il quale arriva a suggerire una figliazione dell’oltretomba dantesco da quello di Andrea.

16) Ciò è evidente per la seconda terzina, il cui verso iniziale (Amor ch’a nullo amato amar perdona) sembra riprodurre fedelmente le regole IX (Amare nemo potest, nisi qui amoris suasione compellitur) e XXVI (Amor nil posset amori denegare), elencate a conclusione del II libro del De amore. Meno immediata, ma non meno facilmente dimostrabile, la stessa derivazione per le altre due terzine (Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende...; Amor condusse noi ad una morte..). Nel merito, si veda G. CONTINI, Varianti e altra linguistica, Torino 1979 [1970], pp. 343-348. Ricordo però che, sulla base di altri riscontri, D’Arco S. Avalle (op. cit., pp. 39-40) contesta tale derivazione, soprattutto a proposito della seconda terzina, e sostiene che invece Francesca opera una forzatura rispetto ai dettami di Andrea.

 

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